La graduale ma costante emancipazione della donna ha provocato trasformazioni sempre piú profonde nella società e nell’istituto della famiglia. Tra i fenomeni in crescita si deve senza dubbio registrare il moltiplicarsi di una narrativa al femminile presente nelle classifiche dei best seller come non mai. A un esame generale non sfugge poi che gran numero dei romanzi scritti da donne indulgono alla pornografia con punte ardite persino poco osate da scrittori maschi. Si direbbe che dopo emarginazioni di secoli le donne abbiano trovato l’occasione liberatoria che permette loro di sfogarsi e di rifarsi da tante esclusioni. Già da tempo tuttavia vagava il sospetto che esse tra di loro si abbandonassero a racconti e a confessioni che gli uomini tra loro, anche quelli tacciati di erotomania, non sempre avevano l’audacia di affrontare. Venuto il momento della verità si è avuta in un certo senso e in una certa misura la conferma che l’uomo è persino piú riservato e pudico in materia di sesso ed è in alcuni casi addirittura piú “sentimentale”.
Desta perciò interesse la lettura di questo romanzo di Fernanda Spigone, “L’altra gioventú”, che mette a confronto due mondi: quello dell’erotismo e quello del sentimento; piú precisamente il sentimento scopre l’erotismo senza esserne sopraffatto. Questa considerazione non nasce da una impostazione moralistica, bensí dalla constatazione che la graduale scoperta della libertà sessuale metropolitana da parte di una giovane provinciale conduce, questa volta, a un possibile equilibrio dell’animo e prelude a una futura possibile maturità.
In questo itinerario, certamente sofferto, si cela forse il segreto di tanti sessantottini che alla loro stagione di contestazione globale, di eversione a tutto campo, hanno fatto seguire un rientro nei ranghi talvolta contraddittoriamente eccessivo. Nel romanzo della Spigone il finale è aperto come si conviene a ogni avventura umana e come è destino della vita di ciascuno di noi, storia incompiuta, e la cui conclusione definitiva appartiene a un enigma inesplicabile.
Accanto alla “vicenda” della giovane, si svolge quella di una donna, che sembra appartenere a una classe contigua distinta dalla linea della giovane da un elemento separatore in matematica detto “epsilon”, invalicabile. E infatti nel romanzo le due creature sembrano all’inizio incontrarsi, in realtà resteranno estranee l’una all’altra, per sempre. La storia della donna ha un percorso del tutto diverso: ella ha sentito fiorire nel suo grembo il frutto dell’incontro carnale di una notte con uno sconosciuto. Ripudiata dal marito, si confida con la giovane dalla quale si aspetta conforto. La giovane invece è distratta, dopo la solidarietà iniziale, dalla propria avventura sentimentale. La donna resta sola: ora la sua angoscia è dominata dal desiderio di assicurare al figlio un padre, qualunque egli sia, perché un figlio è legato al padre, a ben pensarci, da un atto di fede. La storia della donna ha un finale drammatico forse non del tutto necessario e che perciò risulta l’elemento “romanzesco” dell’opera.
Tutto quanto detto è la trama sottile che traspare dietro il tessuto di una narrazione credibile che si risolve in una lettura estremamente gradevole. L’autrice rivela una sensibilità acuta, una consapevolezza della materia e dei tempi di cui si occupa, un pudore che rende le scene d’amore molto piú seducenti di quelle trattate in modo hard dalla corrente pornografia femminile. Dolce è l’amore che si esprime dapprima con gli sguardi che si cercano, si sottraggono, si cercano ancora e infine si inchiodano tra loro. Il primo amore nasce dalla luce degli occhi che si incrocia con l’altro, da quella energia che sgorga dall’anima e riesce a suggellare una unione che gli amplessi successivi cercheranno di replicare, forse, e spesso, invano.
Il racconto della Spigone è in ogni modo sciolto, piacevole con il ricorso ad aperture favolistiche. Ad esso partecipe il paesaggio, una natura tutt’altro che morta come spesso ci è dato vedere nei fondali dipinti di altre storie romanzate. Una natura viva e quindi cangiante, con le sue stagioni, i suoi odori, i suoi languori, i suoi risvegli. Il punto di vista è Segni, in faccia ai monti Lepini, con qualche variazione nella grande città non lontana e accessibile ai pendolari che al mattino partono e quasi sempre a sera tornano a casa, puntuali. Tutto respira attorno al nucleo narrativo, un villaggio mistico da cui si avverte appunto il fiato e che invita il lettore a farne parte.
“L’altra gioventú” mi è parsa insomma opera da raccomandare, favorita da una prosa tersa e accattivante che fa trascurare qualche ingenuità stilistica e una qualche mancanza di scioltezza nei dialoghi, che si presentano piú nel loro valore letterario che in quello drammaturgico.
Per quanto mi riguarda, è una felice e inaspettata sorpresa.
Turi Vasile