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  • Autore
  • Giuseppe Napolitano
  • Titolo
  • Libertà di parole - Un'autobiografia che è la mia
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 192
  • Anno
  • 2017
  • Prezzo
  • € 12,00

Mi è appena giunto fra le mani grazie al suo editore Amerigo Iannacone e l'ho letto non d'un fiato, come suole dirsi, ma mossa dall'urgenza di arrivare fino in fondo e di dire a mia volta. E scriverò di getto, come solo so scrivere, di questa "Libertà di parole" di Giuseppe Napolitano, un'autobiografia di se stesso, già anticipatami in lettura e che dunque ho percorso con la curiosità dell'intellettuale e la benevolenza dell'amica e più volte sodale in progetti culturali, presentazioni, premi, pubblicazioni ec. (ed è uso leopardiano). Io, Giuseppe Napolitano, conosco molto bene e non solo per l'elencazione di "p" di poc'anzi, ma in virtù di una "profonda sintonia intellettuale" che mi riconosce tra le sue 188 pagine di scritto fitto ed intenso, in cui la concitazione e la concisione (Giuseppe deve aver sintetizzato molto della sua avventurosa vita) corrono e percorrono gli anni della sua formazione culturale, feconda di incontri e di presenze (fondamentali e, a volte vincolanti negli esordi, come si apprende, di una famiglia d'origine di scrittori - padre-preside, madre-maestra, zia-traduttrice - ed oggi moglie e figlia-scrittrici/attrici), incendiata di ideali e di visioni, animata dalla scuola vissuta tra dovere ed intemperanze, vivificata sempre da Amori-passioni solo in apparenza condizionanti. Perché l'unico "daimon" cui Giuseppe dice di aver sempre obbedito è stata la Parola, declinata in ogni sua forma ed accolta mirabilmente anche nei suoi contorni, rorida di un umorismo intellettuale di matrice sveviana e pirandelliana. Traduttore singolare anche di Catullo e aperto a sperimentalismi e frequentazioni straniere (tradotto in più lingue, da ultimo in Cinese), Giuseppe Napolitano non ha dunque smesso qui di guardarsi allo specchio, altra immagine molto cara alla sua poetica: la sua autobiografia - che non teme per nulla di essere tacciata di autoreferenzialità celebrativa, il che non è per nulla, a partire dal tono e dall'uso di un registro linguistico a volte anche colloquiale - si propone pertanto fuori da ogni implicito canone per porsi invece quale percorso introspettivo di un presente, che radica nel passato ma sa di avere in un domani che è qui - sono parole sue - la strada prefissata. Tutto è così ricomposto, Amico mio, tutto ti è ora accanto per consentirti di impastare "giorno dopo giorno la tua vita".

Ida Di Ianni

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • C'ero anch'io
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 200
  • Anno
  • 2017
  • Prezzo
  • € 12,00

L’autobiografia di Amerigo Iannacone è il racconto della vicenda umana, e dell’avventura culturale e artistica, di un molisano che – fatta salva la parentesi del servizio militare – non ha quasi mai lasciato la terra che l’accolse infante per più di qualche settimana.
Niente viaggi, dunque, a inseguire – alfierianamente – chissà quali miraggi di gloria; ben istruito invece – a quanto sembra – dalla fallimentare ricerca del leopardiano Islandese.
Nato il 17 maggio del 1950 a Ceppagna, una frazione di Venafro seminascosta da preappenniniche gobbe collinari, in posizione defilata rispetto all’arteria stradale che dal Molise punta, risoluta, verso il nord della confinante Campania, ultimo di prole numerosa messa al mondo da genitori artigiani che non ebbero da anteporre al rito sacrale del concepimento prospettive di carriere più o meno brillanti, Iannacone ha ereditato dalla marginalità geografica del luogo natio e dall’essenzialità dei bisogni quotidiani ancora ben diffusa nell’entroterra centro meridionale italiano degli anni ’50 dello scorso secolo, un carattere riservato ma non scontroso, incline all’introspezione ma non chiuso a problematiche sociali.
Sensibile fin dagli anni dell’alfabetizzazione al fascino del libro (da leggere ma anche da scrivere), è stato subito lettore avido di testi d’autore e compositore acerbo di fanciullesche trame poetiche, spie precoci di un talento destinato a consolidarsi e a tradursi nel tempo in un imponente “esondare” di pubblicazioni.
L’autobiografia, che dagli anni della formazione da discente passa poi a quelli del ruolo docente, segue – illustrandolo – l’itinerario letterario di Iannacone, narrandone le diverse vicissitudini. E tra le vicissitudini ci trova, il lettore (accanto all’emozione della prima raccolta poetica ancora calda di tipografia), la nota introduttiva – per così dire – prudente del prefatore contattato; ed ancora l’ipocrisia boriosa delle grandi Case Editrici, che con belle parole di circostanza ti sbattono la porta in faccia; il comportamento ingannevole di sedicenti editori avvezzi alla frode; l’indifferenza della gente (anche di quella laureata) di fronte al dono di un libro. Ma accanto alle vicissitudini che diremo scoraggianti, più o meno comuni un po’ a tutti gli esordienti di periferia, s’incontrano quelle che ampiamente ripagano lo scrittore molisano con gratificanti obiettivi raggiunti. E parlo della nascita dell’Editrice Eva, della fondazione di un mensile: Il Foglio volante, della promozione del premio letterario “Venafro”, della scoperta dell’Esperanto, del proliferare di amicizie feconde, durevoli per comunanza di interessi culturali ed empatia dello spirito.
Il lavoro riporta in appendice una serie di interviste che contribuiscono, se non a completare, sicuramente ad arricchire il quadro degli elementi teoretici dei percorsi e degli esiti artistici dello scrittore venafrano.
Dire, a questo punto, che l’autobiografia è scritta bene è persino banale: come volete che sia scritto uno scritto da Amerigo Iannacone? Dirò solo (e chiudo) che la narrazione si apre con un risveglio notturno (indotto dal sogno di un bisogno insoddisfatto) e si chiude con una splendida quanto originale analogia del genere georgico che ben riepiloga la filosofia di vita dell’autore: C’è – scrive Iannacone – un proverbio del mio paese che dice addò arrive chiante glie pezzuche, letteralmente: “dove arrivo pianto il cavicchio”. Il detto non è di immediata comprensione. Deriva dal modo che si usava un tempo piantando semi col cavicchio: quando a sera si smetteva, si usava conficcare (piantare) nel terreno il cavicchio nel punto dove si era arrivati, in modo da sapere la mattina dopo da dove ripartire.
Ecco: dove arriviamo piantiamo il cavicchio: che c’importa se poi saranno altri a trovare un cavicchio solitario piantato nel maggese.
Il maggese è il genere artistico in cui si sceglie di mettere a dimora idee e creatività. Il cavicchio (ma più bella ed efficace la forma dialettale: glie pezzùche) è quella cosa che Seneca rese con terminus ultra quem mala nostra non exeunt.
Io, della cosa, il nome non ve lo dico. Vi dico solo che è allusa in gran parte della produzione poetica (specie nella più recente) di Amerigo Iannacone.

Aldo Cervo