Vai al contenuto

  • Autore
  • Antonio Vanni
  • Titolo
  • Diario di una nuvola bassa
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 60
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00

Infanzia/adolescenza
in Diario di una nuvola bassa

La prima conquista del giovane poeta Antonio Vanni in questi recenti approdi è nella possibilità di risentirsi (quasi rifarsi) fanciullo ed entrare nell’anima della figura/tema del componimento: la sua voce diviene la voce del fanciullo protagonista. Il poeta ne rivive i momenti, le situazioni, gli affetti, le speranze, le delusioni, le sofferenze, spesso l’acerbo destino. Il fanciullo/oggetto diventa (si fonde con) l’io soggetto del canto. Il Vanni conquista cosí quella felice altezza lirico/epica nella quale, mentre si ha l’illusione di cantare/esprimere la vita dell’al-tro, si esprimono i propri sentimenti, il se stesso nell’essere dell’altro... Questi testi, la cui atmosfera affettivo/lirica rivela costante immersione nel respiro misterioso dell’infanzia/ado-lescenza, celebrano uno stato di pienezza, di meraviglia, di dolore, di incantata e tragica visione legata al primo dischiudersi della coscienza sulla vastità mutante del misterioso Creato.
La seconda conquista che Antonio Vanni ottiene con questa silloge è nell’aver superato nettamente (nella tenuta della scrittura e nella coerenza della sostanza) i limiti ai quali era pur giunto con lucido impegno nei lavori precedenti. Una forza nuova, una fantasia so-stenuta che anela a cieli alti partendo dai raggiunti orizzonti. Non abbiamo solo l’amplificazione del verso, della strofa e della composizione, ma sentiamo dentro questa nuova scrittura battere un vento nato tutto dalla sua anima dilatante semanticamente la già notevole sfera affettiva; il poeta raggiunge misure tese ad un vasto ardere di epici sentimenti. Spariscono i versi brevi, i componimenti dal respiro contratto, i moduli tonali un po’ familiari magari riecheggianti trasporti di feconde letture, e al loro posto sentiamo affermarsi con indubbia fermezza un’urgenza di voce sorgiva, alta e vasta nel contempo come, per addurre un esempio, è quella che vibra nella composizione Romanov, in cui il nostro poeta tocca vasti traguardi creativi, raccogliendo dalla Storia un momento di altissima tragicità, il feroce/crudele massacro del piccolo Alessio Romanov con tutta la sua imperiale famiglia a Ekaterinburg. Con tenerezza ammirativa l’autore dedica la grandiosa composizione alla sensibilità d’amore per l’infanzia della poetessa Maria Grazia Lenisa. Il critico nota subito che la stesura di questo scritto, sotto l’ispirazione emergente dallo storico delitto e nell’immensa pietà per la violenza perpetrata dagli adulti nei confronti dei fanciulli (infanzia/adolescenza), è stata raccolta in una attiva ubbidienza dall’intimo dettare della coscienza, dolente e trionfante per il riscatto in poesia di una figura cosí fragile, tanto innocente, travolta dagli impeti cruenti dell’u-mana storia. I mormorii che incendiano le pietre della città in cui fu consumato l’efferato massacro; la triste figura e la femminile pa-zienza; il sentirlo vincitore e vinto; il risentirsi fanciullo accanto all’innocente Alessio «che intrecciava pace col visino stinto»; il vento che riporta il mattino e accende la mente nei «verdi anni»; la morsa di lirico dolore che costringe il poeta a sentirsi «uccello sopra le cose morte»; le «foglie» (ritornante simbolo di tenerezza, di pietà e di vita rivolta alla speranza) che allietarono con il loro fruscio i giochi infantili; la luna piena che illumina gli spazi circondanti la casa; la clessidra/tempo che divora persino la terra e, poi, a conclusione della potente strofa, le «eliche di prigionia» divenute muta preghiera: queste figurazioni, questi tonali gesti, questi ampi e profondi respiri (con quanto segue del componimento che lasciamo all’intelligenza del lettore) sublimano il testo poetico in una difficile ma feconda ricchezza emotiva resa in ampia e pur raccolta scrittura. Ci siamo fermati su questa poesia che a nostro giudizio e per ampiezza e per profondità, per drammaticità della storica violenza sull’infanzia/adolescenza (cui il poeta dedica la silloge) ci è parsa altamente rappresentativa dell’attuale stato poetico del-l’autore, ma sentiamo subito il dovere di affer-mare che ogni testo di questa raccolta vibra di un intenso istintivo amore dentro la figura di un bimbo, un fanciullo, di un adolescente (di-remo dentro l’infanzia emblematizzata) colti sempre dalla realtà e nobilitati dalla purezza raggiunta del sentimento e della scrittura.
Il fascino emotivamente umano di cui la fanciullezza ha sempre avvolto l’animo di An-tonio Vanni è anche una costante della sua vocazione poetica visibile nelle raffigurazioni, udibile nelle tonalità d’innocente purezza dal suo esordio all’attuale produzione, definibile “poemetto sull’infanzia”. I due termini sono ampiamente giustificati: il primo dalla scrit-tura che, superando il passo corto e il respiro breve delle precedenti prove, si dilata ed e-spande, nel tempo e nello spazio della memo-ria, con una tenuta di ispirazione, d’invenzione verbale, con un’ampiezza d’onda di eccezionale forza; il secondo dal fatto che il nostro giovane poeta ha vissuto con queste composizioni una densa stagione nel clima di una tematica, quella dell’in-fanzia, a lui tanto cara, con fertilissimo e ammirevole stato creativo. Sintomatica è la poesia In morte di un bambino romantico: qui la fusione degli elementi reali con la creazione fantastica è perfetta. Le figure sulle quali s’innesta e si sviluppa il bellissimo testo sono il poeta, il bambino e la madre, ma queste due ultime vi-vono di rassegnato e rasserenante dolore nello spirito dell’autore: nella conclusione della liri-ca esse si fondono in modo indissolubile nell’io poetante. Il rapido cadere tra il volo dei deltaplani, le labbra che si avvivano sulla roccia, le pietre che parlano, il folto capo del bambino destinato a scendere nel vitale fiume che attraversa ininterrottamente la coscienza del poeta, il volo fantastico che sale fino alle nu-vole alte e ferme ad ascoltare l’inconsolabile pianto materno, l’adagiarsi lieve delle foglie in movimento divenute anima del poeta il quale, elevato a visione d’eternità, accetta il dolore della perdita in una purezza sorgiva dell’umano destino: questi segni verbali sono sensazioni emergenti da dentro un clima di fremiti fraterni e la misura della verità affettiva è nella resa espressiva perfettamente consonante con gli interni tremori. Il tutto si fonde nella composizione la cui unità diviene catarsi di dolore elevato a ritmo estetico.
L’accensione emotivo/lirica si ha in ogni direzione, ad ogni livello, in ogni dimensione di tempo e di spazio (sia nel diretto contat-to/stimolo fisico sui sensi proveniente dalla realtà esteriore sia nell’appropriazione memo-riale). Cosí in Paesaggio addormentato, disteso in una tensione astrale e reso in vaghezze di sogno con figure la cui felicità è tutta nell’im-pasto inscindibile di suono/colore (musi-ca/cromatismo); cosí nella lirica A Roberta tutta soffusa di intimi aneliti in un’assoluta, totale immersione nelle pulsioni del sentimento: ogni segno, ogni gesto, ogni colore, un lieve movimento, tutto quanto è at-taccato alla figura della ragazza amata si fonde in una resa musicale del linguaggio. E una confessione «dell’arden-te brama / della mia suprema dolcezza»: la vergine di gesso, i bruni capelli, l’oblio nel riposo mattutino, gli aromi d’edera, le braccia e il corpo dell’amata, il navigare su azzurre acque in cui si dissolve la fantasia dell’amante (poeta), il sentirsi cul-lato in vaghi calessi, in onde di aerei sogni, sono figure in forme e colori in movimento; sono palpitazioni che si mutano nell’armonia di una confessione fonica, di un amore asso-luto e irrinunciabile. In L’assenza il poeta celebra una proiezione emotiva fermata in pochi versi sorretti tra figure marine conservate nel tremito del ricordo e altre prodotte dall’impeto creativo proiettato verso il desiderato, bramato futuro. In Echi, tra onde musicali di foglie, fa rivivere nella realtà la figura di un fanciullo assillato dall’inelut-tabile mutare. Con commosso realismo dedica otto versi al figlio del poeta Percy B. Shelley, scolpito in una vaga figura albale come un «affascinante dialogo dimenticato». «Dinanzi alla piccola lapide di William io resto delle ore», confessa il poeta in nota, «ogni volta che sono a Roma, godendo di una profonda serenità». Una serenità raggiunta attraverso la tenerezza del ricordo e la rapita contemplazione.
Come non sentire il vigore che presiede al-la stesura di questi versi tratti da un altro capolavoro, M’attraversa un grande amore:
L’ombra del cielo che fa apparire un’eco
                                               [vagabonda
sulle mie ginocchia ferme
scheggia coi compagni il bosco nuovo,
non ha una propria età e muore felice
il bacio del fanciullo dalle ombre amiche.
La rivolta nel dolore del tramonto, la
                                                [sopraggiunta quiete dello Stige.
La stupenda vitalità che scorre in questi ampi e profondi respiri si coglie subito in quell’«ombra del cielo», nell’«eco vagabonda», nelle ginocchia ferme cui figurativamente poggia il «bosco nuovo» e poi il «bacio di fan-ciullo felice» eternizzato da «ombre amiche»; e il tramonto nel segno inequivocabile del «dolore» che si perde nella pietosa calma del mitico fiume. E vogliamo ancora fornire una ulteriore testimonianza di quanto abbiamo affermato sulla decisa, e notevole crescita del nostro poeta: ci fermiamo sull’ultimo componimento della raccolta, Il tramonto. Fedele a se stesso, a questa sua felice stagione densa di tenere memorie e di trascrizioni verbali di assoluta autonomia, Antonio Vanni resta nella prediletta tematica dell’infanzia/adolescenza e della memoria e traccia la tenera figura di Luciano, un suo compagno dí scuola rapito dal destino «nel fior degli anni». Il passo ampio, la visione at-mosferica di ricreazione memoriale, le figure reali ma rese lievi dal fluire lento e triste della fonicità, dal ritmo del ricordo; l’abbandono soggettivo alla riappropriazione di un momento vissuto e profondamente inciso nella carne della sua anima pongono a diretto confronto gli affetti veri e le speranze infrante del com-pagno adolescente stroncato dall’atrocità dell’acerbo destino e lo stato lirico/cognitivo del poeta evoluto di oggi. Nel pulsare dolente dell’io adulto sulle tenerezze perdute dell’adolescenza sorge il miracolo della poesia che offre ai cuori sensibili e alle menti ispirate l’emozione indimenticabile della totale fusione delle due anime nella indubitabile verità del vissuto (il passato) e del vivente (il presente).

Vincenzo Rossi

  • Autore
  • Vincenzina Scarabeo Di Lullo
  • Titolo
  • Il fazzoletto rosso
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 100
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 10,00

Il primo elemento connotativo, che a lettura appena ultimata mi viene in punta di penna, è che in sette racconti si riscontrano sette motivi ispiratori. Cosí tanto – dunque – offre la breve silloge di Vincenzina Scarabeo Di Lullo. E si va dall’idea di libertà dello scontroso barbone milanese alla metafora del leone nel canto – in treno – di un africano, passando poi, nell’ordine, attraverso il problema del giovane contemporaneo esposto alla tentazione di amori clandestini e del facile guadagno da spaccio di stupefacenti; allo sbandarsi generale dell’esercito italiano dopo l’armistizio di Cassibile del 3 di settembre 1943; alla “rivincita” dello studente povero che nel licenziarsi dalle Medie di primo grado legge nel sorriso del piú caro dei suoi docenti una enigmaticità piú ambigua di quella – famosissima – della Gioconda di Leonardo; al tema della morte in un ammalato terminale; al dramma – infine – di una moglie infelice che decide di sopportare le angherie di un marito geloso e manesco pur di salvare, a beneficio dei figli, l’unità della famiglia.
Una varietà di motivi, come si vede, che rende testimonianza di una pari varietà di interessi in un’autrice la cui esperienza professionale, di docente prima, poi di dirigente scolastico, ne ha fatto donna attentissima alla complessa fenomenologia socioantropologica del no-stro tempo.
Cosí oggi, dopo lungo periodo (ne sono piú che certo) di sedimentazione, vedono la luce – per le Edizioni Eva – in formato Colibrí pagine destinate a segnare le coscienze dei fruitori, specie se giovani, vista la tipologia delle tematiche sviluppate e la portata didattico-educativa delle vicende riferite.
Il testo, il cui titolo riconduce a un periodo storico terribile dell’appena trascorso Novecento, rifugge da ogni tentazione da enfasi: Chi vi cercasse elementi esornativi adottati a mo’ di vezzosi abbellimenti ne uscirebbe deluso.
L’impianto linguistico-espressivo privilegia, sintatticamente parlando, il periodo composto, ma senza eccedere in subordinate. Il che mentre evita il diluirsi in digressioni della pregnanza significante dei racconti, fa fede, nella Scarabeo, di una sobrietà di stile che consente al lettore di andare dritto al cuore del messaggio narrativo. Che è poi l’intendimento stesso dell’autrice.

Aldo Cervo

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • ...E poi il Fiume Giallo
  • Collana
  • I Colibrì
  • Pagine
  • 92
  • Anno
  • 2012
  • Prezzo
  • € 9,50

Il giornalista racconta i fatti. Un giornalista onesto e intelligente non li strumentalizza e gli dà misura. Un giornalista vero ci ragiona, medita alla luce del suo amore di giustizia, la quale trova il suo apice nella libertà. Amerigo Iannacone fa questo indefesso lavoro di leggere i fatti, elaborarli dentro l’anima e soffrirli, da una vita, per poi con semplicità e pacatezza, senza ira e senza disgusto o cipiglio da spadaccino, espone il frutto maturo asciutto e senza resa in brevi, inconfutabili e lievi, pur dal fondo drammatico, articoli quasi dimessi che finiscono con l’avere voce potente.
Passo dopo passo, voglio dire: Flugfolio dopo Flugfolio, affronta i segni di una decadenza di civiltà, mostrandone l’assurdità, l’inutilità, la poca convenienza, confermandoci la nostra impressione di un vortice di ineluttabilità insensata in cui siamo coinvolti. Egli, fra i pochi, oppone il suo remo, trovandoci consenzienti e volgendoci al desiderio di aiutare; e cosí, in noi, sorge una piccola speranza.
Questa controcorrente di speranza lambisce l’esperanto, la salvezza delle lingue dal dominio oppressivo delle potenze, l’assurdità dell’adeguarsi alla corruzione grammaticale della nostra lingua. Con estrema pazienza puntualizza le sgrammaticature televisive, giornalistiche e del parlare comune, ricordandoci le forme corrette e logiche, con ironia dolce e rispettosa. Segnala le assurdità della burocrazia e gioca un po’ su quei vezzi del progresso che tali non sono, riuscendo, da buon professore, a insegnare divertendoci. Delizioso quando fa capolino, per rendersi ridicola, la democrazia fra gli appunti grammaticali: “avrà vinto l’ignoranza, ma i linguisti sono pochi, gli ignoranti tanti”.
L’ignoranza, fa vedere, è sparsa dappertutto, istituzioni comprese. Espressioni, preposizioni, articoli, accenti, tutto egli porta al suo naturale stato, latinglese e itanglese compresi. E non disdegna di polemizzare da par suo, intendo dire senza acrimonia, quando è costretto a vedere l’italiano ridotto a zerbino dell’inglese anche per opera di gente colta. E non manca di dare sempre nuove ragioni alla necessità di adottare l’esperanto.
Ma, mentre fa questo suo lavoro da certosino raddrizzatore, ha certe stoccate buffe che ti fanno ridere senza ritegno, quand’anche fossimo “diversamente intelligenti”.

Giuseppe Campolo

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • Pensieri della sera
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 60
  • Anno
  • 2012
  • Prezzo
  • € 9,50

Da un vissuto nativamente radicato nell’area molisana trae origine la volontà espressiva di Amerigo Iannacone e si configura in misure poetiche che, pur nella ancora naturale acerbità, danno spazio a presenti e future credibilità di slargate appropriazioni liriche.
Le varianti tematiche che motivano queste prime prove manifestano tratti di assorta lettura del paesaggio amato e una deserta riflessione esistenziale addolcita dal respiro domestico dell’amore. Su questa sostanza densa di vitale energia e di promesse Iannacone opera, proteso alla ricerca di un linguaggio, di una modulazione di ritmi propri, atti a cogliere e fissare il fuggevole flusso dell’esistenza. Certo è che assorbire il passato nella fenomenologia poetica in cui è stato realizzato almeno dai suoi maggiori rappresentanti, vivere il presente in nuove umane tensioni, liberare l’espressione dai ritmi divenuti patrimonio di tutti e l’occhio dalle immagini sfocate dall’uso, in lotta contro il convenzionale dell’esperienza vissuta e tramandata da altri per la conquista di una libera ed originale sensibilità, non sono imprese di poco respiro. Sarebbe, pertanto, ingiusto pretendere dai giovani alle prime prove, necessarie per futuri elevamenti di tono e approfondimento del sentire, una simile maturità di sensibilità e di voce; e sarebbe altrettanto ingiusto, se ignorassimo la loro presenza.
Amerigo Iannacone è uno di questi giovani che non devono essere ignorati: egli corrobora dentro di sé con accanimento le energie e i palpiti della crescita e man mano dà maggiore vigore all’urgenza di conoscersi e costruirsi mediante la parola poetica. Vogliamo asserire che se egli non ha raggiunto
le alte sfere dell’Arte e della Poesia è bene incamminato verso di loro. In questa sua produzione di esordio, Pensieri della sera, già si incontrano momenti che toccano e restano col flebile ricordo del commosso e dell’amore.
L’immagine della donna che riempie col suo magico respiro la vita dell’uomo che la ama, la soffice intimità di certe atmosfere colte e intensamente vissute in tesi silenzi di sere e di notti, i ritrovati colori di certe albe lungamente desiderate quando sul vivere quotidiano si addensano le nebbie della noia
e dell’angoscia, il tremolare pudico dell’aprile nelle pupille dei fiori e le soffuse mestizie
di novembre con i suoi toccanti sentimenti suscitati dai pensieri sul veloce svanire di ciò
che si è amato e si ama vivono in queste poesie già scorporati e resi nelle aeree distanze
fatte di realtà tramutata in sogno.
Iannacone, ormai uomo, sa rivivere le intense e incantate sensazioni della fanciullezza, giocata al fresco sorriso delle sue montagne e degli ulivi, tra i ciottoli delle mulattiere e le voci dei cari:
Ho respirato bambino
l’aria pura
delle tue montagne
ho giocato ragazzo
tra le tue vie sassose
quando per avere una moto
bastava una croce di sambuco.
Il sambuco, che con l’acuto profumo dei suoi fiori, ci riporta puntualmente la primavera, è divenuto motivo di creazione e simbolo d’innocenza; e le mulattiere con i suoi ciottoli arrotondati dai piedi degli animali e degli uomini, diventano l’immagine dolente di una civiltà al tramonto. Ma non sono intessute, queste poesie, soltanto di paesaggio e memoria; esse accolgono anche il motivo religioso, nato dal dolore e dalla speranza, e il piglio iroso della satira sociale:
Antipasto, primo misto
secondo prelibato
..............................
E intanto c’è chi muore
per un pugno di riso
che non ha.
La pioggia e novembre, richiamati in una varietà di visioni, si caricano di connotati rituali in un panico sentimento della sacralità e della morte:
Anche tu soffri di solitudine
novembre
e i tuoi giorni ti vedono
morire nella nebbia.
E vi sono versi che si appuntano con efficace misura contro l’invasione magmatica di ferro e cemento che dilagano irrefrenabili travolgendo con “grigia geometria” la bellezza e la vita sulla terra:
L’odore del cemento
fagocita il profumo delle zolle
.........................................
l’acciaio prende il posto della pietra l’amore cede all’odio.
Chiudendo questa breve ricognizione all’interno della silloge Pensieri della sera, crediamo di poter dire che la scrittura in versi di Amerigo Iannacone, sostanziata di personali memorie e di malinconiche esperienze di vita, palesa disposizioni e intenzionalità poetiche che otterranno piú visibili e migliori esiti man mano che la crescita culturale si renderà sempre piú indissolubile dalle strutture espressive.

Cerro al Volturno, 7 aprile 1980
Vincenzo Rossi

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • Matrioska e altri racconti
  • Collana
  • I Colibrì
  • Pagine
  • 88
  • Anno
  • 2011
  • Prezzo
  • € 8,00

Prove d’esistenza per gli amici

«La ruota gira, sempre uguale, sempre uguale… E un giorno ci guardiamo allo specchio e ci meravigliamo di quella malinconica figura che ci sta davanti».
Sono due le espressioni che vengono subito in mente quando ci si prepara a leggere un breve scritto in prosa di Amerigo Iannacone: “microracconti” e “cronache reali e surreali”. E comunque ci si aspetta di leggere una densa storia breve che all’apparenza della certezza “reale” unisca un’aria “surreale”...
In effetti, la misura del racconto brevissimo gli è congeniale, certo abituale, come pure gli avviene di scrivere in poesia, spesso nelle rapide pennellate – o staffilate – dell’epigramma e dell’aforisma. E pure al confine incerto fra realtà e sogno (che a volte è un incubo) siamo abituati, noi amici delle sue parole scritte – noi che lo conosciamo da decenni e continuiamo a stupirci (ma non piú tanto) della sua fedeltà alla misura, alla oraziana ratio che diventa metodo di osservazione e descrizione della natura umana e dell’ambiente in cui questa si manifesta e cerca di perpetuarsi. Nel gioco logico dello spostamento dei piani espressivi, capita però, a volte, che quella misura vada persa, e ci si trovi spaesati, oltre la dimensione che conosciamo.
Amerigo ci accompagna nella sua narrativa come quando portava in giro una classe per musei e luoghi di grande interesse: guardate e ricordate... Ci sono luoghi nella vita (e lo sa bene, l’autore di Luoghi) che si mantengono nella memoria privata o appartengono a quella collettiva: tutti hanno qualcosa da ricordarci ed è giusto che ci si faccia attenzione. A volte, facendo attenzione, si può evitare di attraversare per la seconda volta un luogo inospitale, si può evitare di incontrare per la seconda volta qualcuno che ci ha fatto del male; anche se – si sa – guarire dal masochismo è difficile, e l’uomo è l’unico animale che inciampa due volte nella stessa pietra!
Vuol dire – Amerigo – abituatevi alla vita com’è, e non fatevi imbrogliare dalla vita come la vorreste: meglio non avere troppi grilli per la testa, poiché al risveglio si trasformano in cicale e quelle – si sa – cantano senza voglia di lavorare... La morale della favola in questi nuovi racconti di Amerigo Iannacone sembra essere la vecchia morale dell’ostrica, ma in piú si avverte una cresciuta amarezza che va oltre la stessa oraziana capacità di sopportazione: qui si coglie inevitabile e cattivo il passo del tempo che incalza, e nello specchio (quello fisico nel quale «ogni primavera rimanda un’immagine che ha una ruga in piú» e quello ideale in cui ciascuno vorrebbe almeno potersi guardare senza vergognarsi) si legge il costante rischio del degrado e del fallimento. “Il salice piangente”, la “voragine” sotto i piedi, la “macchia nera” che inghiotte... sono allusioni terribili, avvisi di cui tenere conto.
C’è tempo, certo, ma – si sa – chi ha tempo non lo perda; prendiamoci per mano allora, e andiamo insieme, insieme agli amici (che dobbiamo imparare a conservare), verso il minimo traguardo che la vita ci concede: un momento di serenità va gustato, un incontro, un piccolo successo... eppure, inguaribilmente – ed è questo il cruccio dell’autore di questi racconti, sospesi tra descrizione e premonizione –, pensiamo ad altro, ci perdiamo nel potrebbe essere e nel magari capitasse, «Mentre la nostra favola si avvia alla conclusione».

Giuseppe Napolitano

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • Parole clandestine
  • Collana
  • I Colibrì
  • Pagine
  • 56
  • Anno
  • 2010
  • Prezzo
  • € 8,00

Originale e calzante l’idea di identificare il poeta come il clandestino della parola.
D’altronde in un tessuto sociale transnazionale oramai da tempo immemore monopolizzato, nell’attenzione, dalla produttività, dal consumismo, dall’interesse quotidiano per i costi del petrolio in dollari per barile, dal confronto – quotidiano anch’esso – dei valori monetari delle Borse, da Londra a Hong Kong, da Milano a Tokio, e cosí via, cos’altro può apparire la poesia, se non il grido di disperati, ammucchiati a bordo di un malandato gommone rigonfio di utopie, sballottolato fra le onde alla deriva?
Rari nantes – i poeti – in gurgite vasto.
E basterebbe questa sola suggestiva intuizione posta in esordio di volumetto a legittimarne la pubblicazione. Ma le pagine a seguire non sono da meno. Sfogliandole, ci si imbatte in altre liriche (quarantatré in tutto) dense di motivi esistenziali, che si avverte a lungo rimuginati da una mente avvezza all’autoanalisi. Ed è difficile, molto difficile trovarne una che non sollevi un interrogativo, che non insinui una riflessione. Che non susciti, insomma, un interiore turbamento dai contorni – se si vuole – indefiniti ma bastevoli a scalfire opinioni comuni, a riaprire discorsi interrotti, a ridiscutere quelle che si ritenevano inoppugnabili certezze.
La maturità poetica, che sembrava in Iannacone aver già toccato nelle ultime raccolte il punto di massima espansione, vieppiú s’approfondisce con Parole clandestine, dove ogni parola – appunto – ogni concetto, ogni immagine si affina in un distillato linguistico-espressivo, per trasparenza, essenzialità e “sapore” avvicinabile alla purezza sincera delle grappe.
La veste formale della silloge conferma, nell’autore, l’opzione per un impianto metrico svincolato da schemi tradizionali, o comunque rigidamente prefissati. E tuttavia non rompe i ponti con la poesia buona d’altri tempi, della quale sono tenuti in apprezzabile riguardo tanto la scansione degli ictus – unico antidoto alla sciatteria prosaica – quanto il gioco, gradevole, di assonanze, di consonanze, e – quando capita – della stessa rima.

Aldo Cervo

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • Luoghi
  • Collana
  • I Colibrì
  • Pagine
  • 50
  • Anno
  • 2009
  • Prezzo
  • € 6,00

Quasi una dedica

Se non temessi di sembrare presuntuoso sarei tentato di definire questa raccolta di versi la mia geografia poetica. Io non sono mai stato alle Maldive, né alle Hawaii, né a Sharm El Sheik, né in altri luoghi esotici. Conosco poco i posti frequentati dai turisti (e non soltanto perché non me lo consente il magro bilancio familiare, ma anche per scelta). Conosco luoghi appartati e poco noti, luoghi spesso modesti, lontani dai flussi turistici: Caiazzo, Gallinaro, Agnone, Cerro al Volturno, Esperia, Macchiagodena, Tora e Piccilli, e tanti altri piccoli centri, che mi è capitato di frequentare quasi sempre per via di un poeta o di uno scrittore. E su questi luoghi talvolta mi sono sfuggiti dei versi che, se anche probabilmente non raggiungono un alto valore né poetico, né etico né estetico, vanno intesi come un omaggio al paese e agli amici che vi abitano.

Amerigo Iannacone

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • Dall'otto settembre al sedici luglio
  • Collana
  • I Colibrì
  • Pagine
  • 68
  • Anno
  • 2007
  • Prezzo
  • € 7,50

Lavori come questo non hanno bisogno di un prefatore perché vanno dritti al cuore e alla mente del lettore anche distratto. Essi infatti lo trasportano nella situazione psicologica universale del figlio che ripercorre il proprio tracciato genetico come portando la fiaccola della vita del genitore, e propria. In fondo la specie non ci chiede altro che fare da staffetta per cui – non è divertente dirlo – divenuti genitori a nostra volta, il nostro compito esistenziale sarebbe concluso. Un individuo qualsiasi non ci fa caso ma nemmeno chi sa, se la sente di rinunciare ad un sèguito senza limite. Il bisogno di sussistere è la trasfigurazione del bisogno di essere immortali! I pensatori sono una categoria antropologica sui generis!
Essi amano e soffrono in misura e modo eccezionali per un ipersviluppo della coscienza ma sono essi stessi che consentono alla specie di evolversi dall’animalità alle vette del cielo creando tutta quella scienza e tutta quella tecnologia che sono tutto il bene e tutto il male della civiltà ma anche l’unica risorsa per non stagnare e morire di sé stessa (come purtroppo sta accadendo).
Amerigo Iannacone è un pensatore ed uno scrittore di tutto rispetto e dalla parte positiva dell’evoluzione: con queste pagine rende il meritato onore al suo predecessore – alla conditio sine qua non del suo modo di esistere. In altre parole, egli, dopo avere attentamente ascoltato dalla viva voce del padre la rappresentazione della di lui vita militare nella Seconda Guerra Mondiale e della di lui prigionia nei lager tedeschi, ed avere accuratamente annotato fatti e date, coglie l’occasione per ripercorrere a volo d’uccello la vita paterna mentre gli fa narrare, a sua volta le di lui vicissitudini belliche, particolarmente perigliose e quasi eroiche dopo l’armistizio con gli Angloamericani e l’inizio delle ostilità con gli ex alleati nazisti. Particolarmente significativa, dal punto di vista biologico, la situazione in cui qualcuno, per fame, avrebbe mangiato una “bistecca umana”: è un episodio ricorrente nelle crisi di fame collettiva, che conferma come lo stato di esasperato bisogno alimentare fa regredire il soggetto al livello primordiale dell’antropofagia. Significativa dal punto di vista politico la strage di giovani innocenti dovuta ad una cannonata dei tedeschi che difesero palmo a palmo una terra, la nostra, che sapevano di avere già perduta.
Queste pagine si leggono d’un fiato non solo perché il vissuto ha un fascino particolare su tutte le persone sensibili ma anche perché la lingua di Amerigo Iannacone è lessicalmente precisa, formalmente forbita, a volte poetica e toccante specie quando rievoca i ricordi infantili, in cui ci ritroviamo un po’ tutti e con nostalgia. E sono sempre i piú belli, emotivamente, non perché si stesse economicamente meglio ma intanto solo perché si era molto piú giovani, per meglio dire agli albori di quest’avventura parabolica, che è l’esistenza.
Il padre del nostro Amerigo era un muratore. Il muratore è un artigiano edile erroneamente accostato al manovale, ma è colui che talora, per precisi dettagli imparati dall’esperienza, ne sa piú dell’ingegnere. Per il figlio è sempre il ceppo da cui è nato secondo una tradizione innocentemente maschilista che pone la madre in un secondo piano pur avendolo portato in grembo per ben nove mesi. Il nostro autore ci ricorda il romantico lume a petrolio (a cui forse si dovrà tornare) e la «fioca luce del crocchiante fuoco del camino» e, da quel poeta che è, intercala anche suoi magnifici versi. «Mi è capitata fra le mani / [...] ancora una testimonianza di te: / il primo capitolo inedito / [...] “Dall’otto settembre al 16 luglio” [...] / sembrava che tempo ce ne fosse. / Ora / che il tuo tempo è finito / ho ancora / un rimorso / in piú».
Salta al 29 settembre 1997, festa di San Michele ed onomastico del padre, che proprio quel giorno scompare per essere trovato caduto in un fossato: spento. Aveva 85 anni. La catena biogenetica si è spezzata ma la vita continua e il figlio, a dieci anni di distanza, compunto per l’involontario ritardo, riprende in punta di piedi la promessa: in queste pagine fa rivivere tutta la vicenda bellica di cui il genitore è stato protagonista e vittima di una patria che burocratiz-za tutto, perfino l’omicidio e la morte.
Se tutti i figli ricordassero degnamente e senza enfasi liturgica ed assolutoria i propri padri (e genitori), saremmo tutti piú buoni e piú onesti e la civiltà procederebbe verso il meglio. È quanto suggerisce questo medaglione a chi sa leggere con partecipazione “Dall’otto settembre al sedici luglio”, gli estremi calendaristici di un tempo forzatamente dedicato alla lotta a nemici convenzionali e sottratto al bene comune.
Davvero bravo Amerigo Iannacone!

Carmelo R. Viola