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  • Autore
  • Lina Rotunno
  • Titolo
  • La maestra Napolitano
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 128
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 8,00

Invito alla lettura

Laggiù dov’è Mogador (tu cantavi) – e qui
ambasciatori di parola siamo insieme
come avresti voluto (perché basta
volersi bene – dicevi – a stare insieme)


Si fa maestra la rossa Marrakech
di umanità con l’augurio che si possa
volersi bene almeno fra poeti
                                             – e poi
comunicare a chi ci ascolta un sentimento
di bontà (dedizione a chi ha bisogno
delle nostre parole regalate
a piene mani – maestra disponibile)


e di amore quello vero che non chiede
in cambio nulla – l’amore di una mamma
più che maestra per i suoi alunni.

Scritta a Marrakech, lo scorso aprile, in occasione della nostra partecipazione (io e Irene, insieme) al Festival internazionale di Poesia – invitati dall’amica Dalila Hiaoui –, questa riflessione lirica dedicata a mia madre era intenzionalmente preparata per aprire la pubblicazione delle sue pagine scelte, a cele-brazione dei cento anni dalla sua nascita.
Ho dedicato gran parte dello scorso 2014 a ricordare mio padre a cento anni dalla sua nascita – ora sento pure di dover fare almeno una cosa per la mamma. Già pubblicai, in due versioni, una scelta delle sue poesie (strappate a una decina di quaderni). Per questo centenario mi sono messo davanti le numerose agende in cui ha annotato quasi quotidianamente pensieri e sofferenze, e i diversi quaderni che usava per scrivere le sue pagine scolastiche.
Non le piacevano molto sussidiari e libri di lettura. che pur doveva far adottare ai suoi alunni di scuola elementare: preferiva scrivere personalmente i brani da far leggere e studiare... In particolare, a Natale o per la festa della mamma, il 2 o il 4 novembre, in tempo di carnevale o alla fine dell’anno scolastico, ogni occasione insomma era buona per comporre un suo brano e proporlo alla scolaresca.
Ho trascritto senza cambiare nulla. Tra parentesi quadre, alcune incertezze di costruzione, e qualche variante da lei stessa proposta. A posteriori, un po’ mi ha sorpreso, nelle pagine scolastiche, il frequente richiamo al Signore, certo ad uso di una pedagogia (quarant’anni fa, e più) rivolta comunque ad uno standard “ministeriale” che prevedeva – ideologie personali e convinzioni religiose a parte – che il maestro delle elementari impartisse anche i fondamenti della religione. Ma il Signore di mia madre abitava con lei, direi dentro di lei.
Insieme alle pagine di scuola, però, e a quelle più personali, di riflessione sulla propria natura e sulla vita in tempo di guerra, non ho resistito alla tentazione di proporre anche una – ridotta – scelta di poesie, fra le tante non pubblicate nei libri usciti a un anno e a dieci anni dalla morte: Strappi d’anima (Edizioni Eva, 1998) e Stracci d’anima (la stanza del poeta, 2007): completano, mi pare, il suo ritratto di maestra – perché sempre nella sua vita mia madre lo fu, operaia convinta in una grande fabbrica di uomini quale riteneva dovesse essere la scuola, ed anche fuori della scuola, poiché per lei un uomo degno di questo nome lo è nello spirito produttivo di bene per il prossimo.

Giuseppe napolitano
settembre 2015

  • Titolo
  • Un albero per ombrello
  • Autore
  • Mariano Coreno
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 111
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 10,00

Un albero per ombrello: Coreno
«Dolce paese, onde portai conforme / l’abito fiero e lo sdegnoso canto / e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme, / pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto»...
Cosa c’entra Giosuè Carducci con la poesia di Mariano Coreno? “Traversando la Maremma toscana” mi pare cada a proposito per questi tuoi versi, Mariano, intitolati Un albero per ombrello.
Perché tu, caro Mariano, non hai scritto delle poesie ma dei versi. Versi che fanno parte di una sola, grande e ancora incompiuta poesia intitolata “CORENO”. E se i tuoi versi sono brevi è perché sono propriamente dei versi e non delle poesie. Sono versi – ripeto – di quell’unica poesia che hai scritto e stai ancora scrivendo e scriverai ancora, e che si chiama, come già detto, “CORENO”.
Dunque, abbiamo a disposizione una lunga poesia ancora da completare, che si chiama “CORENO”, e un poeta che quella poesia deve ancora terminare che si chiama Mariano Coreno. E mai come questa volta un nome, meglio un cognome, risulta piú azzeccato, piú giustificato, piú rispondente alla realtà.
Non si trattasse di te, caro Mariano, la circostanza non andrebbe nemmeno citata, figuriamoci sottolineata. Cambierebbe qualcosa se tu non appartenessi alla grande famiglia dei “Coreno”, che pare abbia dato il suo nome al nostro paese?
Non cambierebbe niente, rispetto a te, rispetto alla tua poesia, se tu ti chiamassi diversamente, se il tuo cognome non fosse “Coreno”. Ma la circostanza, come l’ho chiamata, che tu ti metti “Coreno”, nel tuo caso va citata e perfino sottolineata. Perché tu vivi questa circostanza casuale come un altro dono, come una sottolineatura del fatto che sei di Coreno, come una garanzia, come un motivo in piú per amare Coreno: per fare di Coreno la protagonista, la figura centrale se non unica (a me sembra unica) della tua poesia.
Ora, in tutto quanto fin qui detto, cosa c’entra – torno a chiedere – Carducci e la poesia “Traversando la Maremma toscana”? C’entra, e come! Carducci, infatti, che dice in quella particolare e, secondo me, particolarmente bella poesia? Dice che non gl’importa di dover morire, di essere condannato e vicino alla morte; non gl’importa nemmeno di aver visto morire i suoi sogni piú inseguiti, i suoi ideali piú amati; non gl’importa neanche di aver rincorso invano le sue piú care aspirazioni e le sue speranze piú tenaci. Non gl’importa piú nulla di nulla, essendo diventata ormai la sola cosa importante per lui aver ritrovato in se stesso i luoghi della sua adolescenza e giovinezza, luoghi dai quali gli arriva il soffio rigeneratore del sostegno della vita che gli è rimasta da vivere:
«… ma di lontano // pace dicono al cuor le tue colline / con le nebbie sfumanti e il verde piano / ridente ne le piogge mattutine.»
Ecco dove e come l’immenso e un po’ antipatico Carducci s’incontra con il caro e minuscolo Mariano! In questo amore per i luoghi nativi, la cui presenza si fa piú forte via via che piú se ne allontana, rivive l’età dell’innocenza, ritorna l’età dell’adolescenza, l’età immortale della vita mortale.
Perché se è vero che tu, caro Mariano, vivi in Australia da piú di mezzo secolo, da quasi sessant’anni, è vero soprattutto che tu sei nato alla vita, che tu hai trascorso la tua adolescenza a Coreno. Cosí in Carducci: per il quale stare a Bologna significava portare ancora di piú nel cuore la Maremma toscana dei suoi anni formativi e decisivi. Quanto a te, tu in realtà non sei vissuto, non vivi in Australia: tu hai risieduto semplicemente, tu risiedi soltanto in Australia. Tu, da quando sei nato, da quando eri ragazzo, hai vissuto sempre in Italia. Mi viene a questo punto, a questo riguardo, di pensare a Emily Dickinson: la poetessa che, volontariamente reclusasi in una stanza, aveva eletto a sua dimora l’universo per essere libera come l’universo.
Apparentemente, visibilmente tu sei vissuto in Australia; ma sostanzialmente sei vissuto e vivi a Coreno. E attraverso la tua poesia, Coreno cessa di essere un ricordo, qualcosa di perduto nella memoria e dalla memoria ritrovato e richiamato: Coreno ridiventa, come è stato, la tua nascita, torna ad essere la tua nuova adolescenza: il passato, cioè, cessa di essere il passato per diventare il tuo attuale, tuo reale presente.
In tutto questo, è stata essenziale la tua poesia che ti ha consentito di continuare a vivere a Coreno perché essa stessa si è identificata in Coreno. E tu, caro Mariano, non hai scritto tante poesie ma tanti versi di una stessa poesia. Tu hai scritto, e continui a scrivere finché vivi, una sola poesia composta di tanti versi che sembrano a modo loro poesie ma fanno parte, sono parte, di una stessa, di una sola poesia.
«Anche / con la pioggia / canta il merlo. // Ha l’albero / per ombrello», una delle pagine di questo libro che vai scrivendo. E il “merlo” sei tu, Mariano, che canti anche con la pioggia, anche quando tutto sembra rovinarsi e rovinare, perché anche tu hai per “ombrello” l’albero della poesia, e cioè Coreno.
Prima di chiudere, di concludere queste mie riflessioni sulla tua poesia, caro Mariano, voglio dirti, voglio darti il mio ringraziamento. Lo so, ti sembrerà strano, come sembrerebbe strano a un uccello qualcuno che lo ringraziasse del suo canto. Anche tu, infatti, canti come un uccello, e cioè naturalmente e gratuitamente. E tuttavia voglio lo stesso ringraziarti. Come voglio ringraziare i due impareggiabili amici, Amerigo Iannacone e Domenico Adriano, che hanno consentito questo nostro incontro con te, con la tua poesia. Umberto Saba, che essendo un grande poeta non temeva di sembrare piccolo inserendo delle “moralità” nei suoi versi, scrisse una volta, e proprio in una poesia intitolata “Quasi una moralità”, che «il mondo – tutto il mondo – ha bisogno d’amicizia». Ebbene, Amerigo e Domenico che hanno preparato e curato con sapienza d’amore questo tuo Un albero per ombrello, all’amicizia hanno risposto e corrisposto interamente, amichevolmente, affettuosamente.
Caro Mariano Coreno, caro Coreno e, anche per merito tuo, cara Coreno!

Dalla postfazione di Tommaso Lisi

  • Titolo
  • Dalle radici alle foglie alla poesia
  • Autore
  • Isabella Michela Affinito
  • Pagine
  • 112
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 12,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-47-1


Se poi si pensi che all’origine dell’Uomo c’è stato l’Albero, allora questo è un motivo in più per snocciolare una silloge appropriata che vuole, possibilmente, raccogliere tutti i contorni, visibili e interiori, dell’albero così come esso ci sovviene in tutte le stagioni; in particolari nostri stati d’animo; in viaggio mentre scorrono oltre il finestrino; nella lunga letteratura fino ai nostri giorni e nell’arte come l’abbiamo visto trasfigurarsi sotto l’influsso degli stili, anche soprattutto gli ultimi del secolo scorso.
Se poi si pensi che nella postura dell’albero si annida il destino dello stesso, allora si può essere certi che questa creatura vegetale ha in sé il mistero della genesi, dell’inizio di qualcosa di importante, così come sono stati importanti gli alberi nel giardino dell’Eden. «Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. (...) Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.”» (Dalla Bibbia - Antico Testamento - Genesi).
Un divieto assoluto infranto subito dopo, per aver ingerito il frutto dell’albero in questione e così il primo uomo e la prima donna lasciarono per sempre quello spazio di Paradiso di cui avevano usufruito per breve tempo. Da quel biblico momento l’umanità non ha conosciuto altro che dolore, rimpianto, infelicità, tormento, confusione, disperazione, e tutto per aver voluto usurpare a Dio la indissolubile verità di ciò che è solo bene e ciò che è solo male.
L’albero, quindi, come il punto di inizio di una linea sulla quale si è svolta e si sta svolgendo la condizione umana.
Nell’albero il poeta, o anche chi non è poeta, può ravvisare l’umano. In fondo si tratta di immaginarci come lui e stare fermi, saldati al suolo in attesa che il tempo ci trasformi, ci rinnovi, ci scompigli i pensieri e le certezze per farci diventare filosofi e incerti; rassegnati e volubili; vecchi ma pur sempre in attesa di un’altra vita, di un altro sole che arrivi allo zenit.
Non c’è albero che non emozioni: nella sua fissità esso riverbera il movimento della vita. Nella sua estensione riflette il bisogno di tornare al cielo. Nella sua ricerca d’acqua manifesta il desiderio di purezza. Nella sua posa assunta con gli anni dimostra un’infinita pazienza. Nella sua collezione di verdi esprime una incommensurabile speranza. Nella sua smania di farsi attraversare dal vento riflette l’inconsistenza dell’Io, L’insostenibile leggerezza dell’essere tanto per parafrasare il titolo del famoso libro di Milan Kundera, scrittore poeta cecoslovacco.
«Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza? (...) Una sola cosa è certa: l’opposizione pesante-leggero è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni.» (Dal libro L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, Adelphi Edizioni, Milano 2002, pp. 318, € 7,89).
Dall’ossimoro kunderiano si localizza che c’è nell’essere umano la volontà di esistere attraverso la materia che va in linea orizzontale e la volontà di trascenderla per percorrere una via verticale, che non ci faccia più soffrire le pene corporee, ma ci dia la possibilità di elevarci al di sopra delle nostre miserie.
L’albero, pur non essendo umano, riproduce tali volontà. Riproduce le due forze opposte e perpendicolari fra loro: orizzontale e verticale.
L’albero ha in sé anche la misura del tempo: il conteggio degli anni leggibili in quei cerchi concentrici all’interno del suo tronco. Una sorta di custode dei secoli e a volte anche dei millenni. In una poesia di Guido Gozzano (Agliè Canadese, Torino 1883-1916) dal titolo Speranza, si legge: «Il gigantesco rovere abbattuto / l’intero inverno giacque sulla zolla, / mostrando, in cerchi, nelle sua midolla / i centonovant’anni che ha vissuto. / Ma poi che Primavera ogni corolla / dischiuse con le mani di velluto, / dai monchi nodi qua e là rampolla / e sogna ancora d’essere fronzuto. / Rampolla e sogna – immemore di scuri – / l’eterna volta cerula e serena / e gli ospiti canori e i frutti e l’ire / aquilonari e i secoli futuri... / Non so perché mi faccia tanta pena / quel moribondo che non vuol morire!» (Da Gassman legge i Poeti Italiani dell’Ottocento e del Novecento - Antologia e CD, a pag. 74, Mondadori, Anno 2005).
Sono, queste del florilegio, poesie fissate a terra; prigioniere di ogni probabile o inaspettata stagione, che secondo una personale idea sono molto più di quattro e meno di quelle che conosciamo. Poesie di legno morbido che pur tollera il più cruento degli inverni. Poesie che contengono la linfa che scorre perennemente anche quando tutto appare fermo. Anch’io sono in queste poesie; anch’io mi sono fatta albero per un secondo, per un determinato tempo sono stata immobile, assumendo la posa attinente al mio destino, che ancora non capisco.
Nessuno può dirsi che non sia stato, almeno una volta, albero secondo natura.
Tutto nasce da un seme e la prigione o la fissità è quasi sempre una costante per tutte le creature, a meno che non si cerchi di evadere dal nulla per raggiungere il tutto che non si vede. Ho capito che ne Il teorema di Pitagora di Ernesto Ragazzoni (Orta 1870-Torino 1920) non c’è soltanto un semplice teorema dimostrato in versi, bensì la chiarezza della geometria umana e non solo. Riporto solo l’ultima parte della lirica che mi sembra si avvicini a ciò che ho voluto svelare con questa silloge:
«La vita è una prigione in che l’anima hai chiusa, / uomo, ed invano brancoli cercando alle pareti. / Sono di là da quelle i bei fonti segreti / ove tu aneli, e dove la pura gioia è fusa. / Qui, solo hai qualche gocciola di ver per le tue seti. / Il quadrato costrutto sovra l’ipotenusa / è la somma di quelli fatti sui due cateti.» (Dall’Antologia personale di Vittorio Gassman, Gassman legge i Poeti Italiani dell’Ottocento e del Novecento - Libro e CD, pag. 69, Mondadori, 2005).

Isabella Michela Affinito

  • Autore
  • A.A.V.V.
  • Titolo
  • Scuola di vita
  • Pagine
  • 128
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 15,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-62-4


Il Paese delle lacrime

Ho incontrato Don Salvatore Rinaldi nel Seminario di Posillipo nel 1976 ed abbiamo vissuto insieme per tre anni nella stessa comunità. Insieme ad altri giovani si aggiungeva al nostro cammino per la chiusura del Seminario di Benevento.
Aveva allora l’aria del filosofo che ama astrarre e si inerpica volentieri per i sentieri del pensiero. Ricordo che ci incrociavamo nel lungo corridoio del seminario di Napoli lui assorto nei suoi pensieri ed io con la corona del rosario: non voglio attribuirmi arie da mistico in erba, ci sono tanti modi di pregare, si prega anche col pensiero.
“Pensare è oltrepassare”. Dovetti “addomesticarlo”, questo lo ricordo bene, perché inizialmente la mia aria da “perfettino” non doveva risultargli immediatamente simpatica. Ci si “addomestica”, come insegna la volpe al Piccolo Principe, con piccoli passi, guardandosi prima da lontano, lasciando che il tempo abbatta i ponti levatoi che inizialmente sono alzati per paura dell’altro. Salvatore ed io, benché così diversi, ci siamo addomesticati. Ne è prova che a distanza di 36 anni da quando ci lasciammo, in uscita dal Seminario, nel giugno 1979, ancora siamo in contatto e ci guardiamo, pur da lontano, con “la coda dell’occhio” si dice a Napoli.
Due episodi mi va di raccontare di quegli anni ai suoi fans di oggi, ai suoi figli e figlie che lo festeggiano per i suoi sessanta anni. Sono entrambi dell’ultimo anno di Seminario e legati dal comune tema delle lacrime.
Agli inizi di novembre del 1973 stiamo vivendo gli Esercizi Spirituali annuali a Mugnano del Cardinale. Li guida don Ignazio Schinella, l’animatore del nostro gruppo, che farà confluire le riflessioni di quei giorni nella pubblicazione del suo primo libro (primo di una lunga serie!) dal titolo “Imparare il Cristo”. Siamo riuniti nella sala che allarga lo sguardo sui tetti di Mugnano e più lontano di Nola, sono le quattro del pomeriggio come nel Vangelo di Giovanni in cui si racconta la chiamata dei primi discepoli. Siamo entrati in silenzio e vi restiamo in attesa del predicatore con quel senso di mistero che pervade la mente e il cuore e inclina ogni cellula, ogni energia a Dio. Alle sedici in punto arriva Don Ignazio con i suoi fogli scritti in maniera fitta, si siede e comincia la meditazione. Salvatore non c’è. Forse è rimasto impigliato nel sonno del pomeriggio o in un una delle sue (le chiamavamo così!) “masturbazioni mentali”? Passa il tempo e ciascuno segue o insegue il predicatore, le parole che pronuncia, le parole udite che ne richiamano altre a frotte come le rondini. All’improvviso si apre la porta della sala. Non adagio, ma con violenza come il vento di Pentecoste. Entra Salvatore chiaramente sconvolto e non si cura del predicatore, né del nostro silenzio, si precipita al suo posto come una furia non risparmiando il rumore della chiusura della porta, dei passi, della sedia. Si china sul tavolo e scoppia in un pianto a dirotto. Noi ne siamo presi, imbarazzati, preoccupati, ma lo sguardo di Don Ignazio resta sui fogli, la voce non gli si incrina, continua imperterrito come se Salvatore non fosse arrivato in quello stato e non stesse piangendo. Per noi è un segnale di normalità, un messaggio non verbale a mantenere la calma, a continuare la meditazione, a fidarci del maestro che sa di ciascuno di noi quello che è bene ignorare degli altri. Salvatore rimane a lungo con le mani sul volto come l’Innominato al cospetto del Cardinal Federigo. Di quella meditazione non ricordo il tema, i capoversi, la struttura, ma quel pianto, se appena porgo l’orecchio, lo sento chiaro nonostante i trentasette anni di distanza. Non abbiamo mai saputo da dove nascesse, quale dolore di vita o di morte, lo avesse provocato, quale segnale inequivocabile di nihil obstat Salvatore comunicava all’animatore come un segnale convenuto. Erano per noi mesi decisivi, carichi di futuro, ci stavamo giocando la vita e la paura ci attendeva al varco. Salvatore continuò a singhiozzare per un po’, poi pian piano, come fanno i bambini, diminuì di volume il pianto fino a farsi respiro. C’era in quel tramonto di novembre l’aria tersa che segue a un improvviso acquazzone. Forse voler bene è permettere a un altro di piangere accogliendo in silenzio le sue lacrime senza chiedere troppe spiegazioni. Come la scia di una nave il pianto si chiuse e tutto tornò nella norma. Intanto era scesa la sera e le mille luci della piana si erano accese come lampare di pescatori in un mare di buio.
L’altro ricordo è indicato più precisamente, porta la data del 12 maggio 1979, giorno dell’Ordinazione Presbiterale di Don Salvatore Rinaldi... Siamo nella Cattedrale di Isernia a guardare il secondo fratello che tagliava il traguardo (il primo era stato Mimmo D’Alterio, ad Aversa, il 7 aprile). Noi compagni di comunità siamo assiepati sui gradini dell’altare maggiore, molti già diaconi con la stola trasversa a guardare un rito che già conosciamo a memoria e che desideriamo e temiamo che avvenga anche per noi. Si stanno concludendo i riti esplicativi con l’unzione delle mani e la consegna dei vasi sacri per il sacrificio eucaristico. L’organo a canne parte con un brano che fa piovere note dall’alto e riempie la cattedrale di suoni. Ho memoria che fosse in tonalità minore. Salvatore, appena rivestito della casula, riceve l’abbraccio di pace del vescovo e poi passa ai presbiteri. Arrivato davanti a noi alza lo sguardo e scoppia in un pianto che accompagna i nostri abbracci e ci riga il volto di lacrime. È certo un pianto liberatorio, di una tensione che è salita a mille ed ora tracima senza più margini. Senza più argini. Eppure quel pianto unito alla musica dell’organo lasciano in me un acre sapore di morte. Anche oggi, quando ci ripenso, ho la stessa netta sensazione d’allora, la stessa tristezza di una nave che rompe gli ormeggi e si allontana dal porto a sirene spiegate. Il motivo del primo pianto del mio amico filosofo mi è rimasto nascosto, ma il secondo mi veniva incontro chiaro nella sua bellezza drammatica. Riguardava te, Salvatore, ma anche noi che, dopo qualche mese, saremmo passati sopra le braci ardenti dell’Ordinazione. Avevamo poco più di vent’anni ed eravamo già vecchi (Presbitero vuol dire “anziano”), finiva quella sera la tua e la nostra giovinezza, c’era aria di partenze senza ritorno, eravamo rami fioriti recisi e gettati ad ardere nel fuoco di un Sacramento che, rendendoci Gesù per gli altri, ci chiudeva ad abbracci che non avremmo mai conosciuto. Ci abbracciammo come commilitoni in partenza per una missione ad alto rischio. Le tue lacrime mostravano la parte debole di te. Non si abbracciarono il filosofo in erba ed il piccolo mistico, ma due uomini naufraghi sull’orlo di un mistero troppo grande per le loro fragili mani.
Anche i sessant’anni per te, come per me, Salvatore, sono un avviso di garanzia, un rintocco di campane che annuncia la sera che scende e abbuia le cose, le case, le strade, poi i volti. È stato bello essere uomini! È stato bello essere preti! Ora è il tempo in cui guardare da lontano la giovinezza quando si andava dove si voleva, ora dobbiamo lasciarci cingere e portare dove non vogliamo come dice Gesù a Simone nel capitolo 21° del Vangelo di Giovanni. Ti auguro questa docilità e duttilità. Remissività. Forse bisognerebbe piangere anche oggi. È più facile farlo. I vecchi come noi sono facili al pianto.

Arturo Aiello