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  • Titolo
  • Tra i vicoli della mia infanzia
  • Autori
  • Gelsomino Marconicchio, Annamaria Marconicchio
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 136
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 14,00


Prologo

Stasera, ho trovato alcune vecchie foto in bianco e nero un po’ sbiadite. Le sfogliavo e mi ha preso un po’ di malinconia. Immagini dei miei genitori, sorelle, nonni e con loro c’ero io, un bimbetto di appena tre anni. Sullo sfondo di ognuna, i paesaggi di Frosolone, mio paese natio, tutti dello stesso anonimo color seppia. Dov’erano finiti gli splendidi colori sempre vivi nei miei ricordi? Ma a quei tempi non c’erano le fotografie a colori.
«Accidenti!» mi sono detto «Ma quanto tempo è passato?»
Ho iniziato a pensare a tutto quanto, negli anni, è accaduto intorno a me e a come me lo sono lasciato quasi scivolare addosso. Sembrava che ogni cosa fosse dovuta o senza particolare rilevanza. Ho visto il cinema passare dal bianco e nero al colore, poi le prime riprese in CinemaScope. C’ero, quando la carta igienica smise di diventare un lusso per pochi. Ho iniziato ad utilizzare olio imbottigliato e pomodori in scatola, senza neppure rendermi conto della novità. Ho permesso alla tecnologia di entrare in casa mia, con la televisione, la lavatrice e il telefono. Ho assistito all’uomo che andava sulla luna e alla caduta del muro di Berlino. Ho vissuto i drammatici anni settanta. Oggi ho il mio smartphone e il mio computer e non posso fare a meno di Internet.
Ho lasciato le fotografie sul tavolo; mi sono alzato, cercando inconsciamente uno specchio.
«Ma quanti anni ho?» mi sono chiesto, guardando la mia immagine riflessa «Che sia invecchiato senza accorgermene e senza mai diventare adulto?»
Non so perché, in quel momento mi ha sopraffatto il pensiero del piccolo Alessandro, mio adorato nipotino, e della mia scelta di non avere figli. Eppure i bambini mi piacciono un mondo, e adoro giocare con loro e coprirli di coccole; ma a me è mancato il coraggio di caricarmi della responsabilità di avere un figlio mio. Mi sono chiesto cosa avesse condizionato la mia decisione. Forse il ricordo della mia infanzia che ha formato il mio carattere, portandomi a prendere decisioni in maniera autonoma, mentre magari andrebbero condivise con mia moglie, o solo la paura di non riuscire a dare a mio figlio tutte quelle cose che a me sono mancate.
Mi sono avvicinato alla finestra e ho guardato fuori. È tardi e i negozi stanno chiudendo, la strada brulica di luci e di ombre, la gente si affretta per tornare a casa. Mi viene naturale pensare a quanto io sia stato fortunato ad essere nato in un bel paese di montagna. Come dal nulla, esplodono i ricordi.
Il mio paese… Frosolone sorge ai piedi del monte Gonfalone, su un’altura che domina interamente il basso Molise. La posizione elevata, circa 900 metri sul livello del mare, regala estati ed inverni fantastici. In estate non si viene oppressi dal caldo. Il cielo è di un azzurro profondo, che si fonde naturalmente con i colori della vicina montagna. Di sera si accende del luccichio di milioni di stelle, offrendo uno spettacolo mozzafiato. In inverno, è la neve a farla da padrona, offrendo panorami incantevoli.
Ricordo le rondini che a primavera tornavano numerose, rallegrando, con i loro voli, le vie del paese, mentre in montagna, i prati si coprivano di un vivace, unico, grande manto fiorito.
Agli inizi degli anni cinquanta, l’intera popolazione contava appena 5500 abitanti. In paese, ci si conosceva tutti; il divario economico tra le famiglie era contenuto, se si escludevano pochi benestanti. Gli abitanti erano gente mite e laboriosa e la semplicità della vita non offriva terreno fertile alla delinquenza che risultava inesistente. Vivevamo alla giornata! La cultura del buon vicinato era molto sentita e, dal momento che di danaro ne circolava ben poco, regnava in paese un forte senso di fratellanza, basato su condivisione e solidarietà. Vi era ancora qualche famiglia con retaggi nobiliari ai cui appartenenti era riconosciuto il titolo di don per gli uomini e di donna per le signore, appellativi che precedevano i nomi di battesimo. Era invece una piccola minoranza quella che ancora usava dare dei voi ai proprio genitori in senso di rispetto. In famiglia si usavano alcuni termini dialettali che erano particolarmente simpatici, come tate che significava padre, mentre nonno si diceva tatille e nonna tatèlla
La sera, appena dopo cena, i vicoli si animavano di allegria conviviale. Le donne che lavoravano all’uncinetto o sferruzzavano sull’uscio di casa, aiutandosi talvolta tra loro a srotolare le matasse di lana, quasi tutte indossavano delle caratteristiche mantelline di lana lavorate ai ferri per proteggersi dalle correnti d’aria che non mancavano mai in quei vicoli nelle ore serali. Gli anziani, seduti sui gradini delle loro abitazioni, sembrava aspettassero il tempo, mentre osservavano quanto accadeva intorno e raccontavano storie di tempi andati, della loro giovinezza. I ragazzini non erano mai stanchi di correre in giro, animando le serate con grida festose.
C’erano cosí tanti quartieri e borgate che, ad elencarne tutti i nomi, sembrava di essere in una grande metropoli. Alcuni prendevano il nome dalla famiglia che vi abitava, altri avevano riferimenti storici. C’era ad esempio un quartiere chiamato “L’Ospedale”, con riferimento ad un vecchio lazzaretto, presente in quella zona tanti anni prima, mentre nessun ospedale, cosí come lo intendiamo noi oggi, aveva mai occupato quel luogo.
Il paese si divideva in base alle tre parrocchie di riferimento di ciascun quartiere: Sant’Angelo, probabilmente la piú antica, San Pietro e Santa Maria.
Una caratteristica particolare del paese erano i soprannomi. Quasi ogni famiglia aveva il suo e alcuni erano alquanto bizzarri. La mia famiglia non ne aveva, forse perché la famiglia di mio padre era di origine termolese. I miei nonni paterni erano conosciuti semplicemente come Mast’ Peppine e Mariuccia La Furnara. La famiglia di mia madre, i Piscitelli, erano piuttosto numerosi e quasi tutti imparentati fra loro.

  • Titolo
  • Hundoj kaj katoj
  • Autore
  • Ugo Intini
  • Pagine
  • 112
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 18,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-78-5


En fantazia libro la leganto ofte permesas, ke oni permane gvidu lin al mirmondo. Ĉi tiu mondo havas la kolorojn de miraklaj elanoj kaj krome de neatenditaj strangaĵoj, kvankam iel elvenintaj el la interno. Tamen la ekzerco pri krea verkado montras aliron kaj mensan laboradon, kiu konsistas el enaj kongruoj kaj el fajnaj nervaj ĉefaj traboj, kies celo estas komunikado. Tio okazas malgraŭ la rakonta pasio, kaj krome la krea verkado okazas en kampo tiel riĉa je fruktoj, kiuj ridetas je la surprizita kaj foje plezurhava rigardo de naiva atendo. Tio ne malofte finfine konsistigas la kvaliton meman de la teksto. Jen ekzemplo de tio en la rakontoj prezentataj de la verkinto de ĉi tiu teksto: sume ni havas ĉi tie ne neeblan konan aliron, kiu vestas sin per fabela vesto. Ĉi tiu fabela vesto, kvankam ĝi havas tre vastajn horizontojn, kiuj estas ekster tempo kaj spaco troveblaj, montras sin per sia tuta forto.
Kritika pripensado de la verko de Ugo Intini ne rajtas ne kapti tiun esencan karakteron de lia verkado. Tiu karaktero trovas klaran konfirmon en la strukturo de ĉi tiu verko, kiu estas dividita en du partojn. Unu temas pri scienca disvastigo kaj la dua pri rakontado. Mi pensas, ke tia kunordigita dueco, preter la instrua celo, prezentas la aŭtentecon de la mesaĝo de Ugo Intini. La mesaĝo diras, ke scienco ne estas rigora duonpatrino, kiu per sia projektado, kontrolado kaj difinado kaptotenas siajn anojn en kristala ĉambro. La scienco, fakte, subtenas kaj amuzas la homon pri lia enkonstruita scivolemo, lia intuicia, ellabora kaj teoriuma kapablo, pri lia nehaltigebla deziro al materia kaj morala progreso.
La ridiga eco de rakontoj kiel “Hundoj kaj katoj” aŭ kiel la fabelo “Nulo kaj liaj fratoj” ne naskiĝas, ekzemple, el ripetado tro ampleksa kaj eksploda, kvazaŭ ĝi estas ŝoko el intelekta klarvideco. Ĝi, male, havas trajtojn de plaĉo, kiu fontas el la invento de situacioj kaj rolantoj. En kelkaj okazoj (ekzemple en La magiisto de numeroj) tiuj rolantoj estas reliefaj literaturaj rolantoj. Vortoj neniam perdas la montran klarecon, ili neniam nebuliĝas pro arbitraj plursenceco, ili, male, estas malkunmetitaj aŭdis duigitaj rilate al la signifo. Foje ili estas kunigitaj al fortigaj adjektivoj, kiuj substrekas radik-mankon (terura teruro, tima timo, mistera mistero, ktp.), longigitaj, silabe inversigitaj. Foje ili ricevas bildan valoron, kiel se ili mem enhavas ion abstraktan, kiu ĉesas esti abstraktaj’oksj iĝas emocio aŭ ago de la rakonto. La luda eco estas ĉiam subtenata de racio. Mi pensas, ke la spegulo de homa naturo resendas la bildon de inteligento kaj pasio. Se estas tiel, la vasta kom prenebleco de la verkostilo de Ugo Intini trovas kroman konfirmon en la tradukado, kiun la verkinto faris, de la teksto el la itala al Esperanto, kiu estas lingvo kapabla superi la malsamecojn inter la popoloj.

Riccardo Agrusti
Traduko de Renato Corsetti

  • Titolo
  • Sprazzi di verità
  • Autore
  • Giacomo Pontillo
  • Collana
  • Il Cormorano
  • Pagine
  • 56
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 9,00

Introduzione

Quando diventa pressante la riflessione su uomini e cose, nonché sull’infinito che ci avvolge, ognuno di noi, annaspando nella storia delle personali esperienze, limitate e circoscritte, si adopera per vagliarne la consistenza, mediante un’ennesima ricognizione delle proprie esperienze vissute.
Tenta cioè di pervenire, attraverso la solita indagine introspettiva, a conoscere ulteriormente se stesso, le proprie inclinazioni, i punti di partenza delle mète acquisite e delle future prospettive.
Per intanto, non essendo solido e ineccepibile, l’insieme di quel vissuto non basta a gratificare il possessore, che sovente si dimena per modificarne, laddove è possibile, il contenuto, adattandolo a nuove tematiche che sembrano piú aggiornate e significative.
È innegabile, tuttavia, che l’insieme di quelle esperienze, sia pur empiriche e irrazionali, corrispettive alle peculiarità socio-culturali dei singoli, concorre a creare l’insieme delle convinzioni solidificate, un crogiuolo di “verità”, che costituiscono la base cognitiva di una persona che ad essa attinge per le sue scelte comportamentali.
Ciascuno di noi nei vari impegni di lavoro e nelle sue proiezioni disquisitorie parte da quel crogiuolo, che, sebbene – nel migliore dei casi – in continua evoluzione, comprende un quantitativo congruo di cognizioni già assemblate (emozioni, eventi, sensazioni, errori, competenze, vicende vissute...).
A questa base si riferisce nelle sue iniziative quotidiane.
Sicché quel crogiuolo, o meglio quella base stabile e operativa, è sempre in rapporto alla ricchezza dello scibile posseduto da ogni singola entità in movimento.
Ma quel container, fonte ispiratrice di ogni forma di produzione, già di per sé frivolo e riduttivo, perché di umana pertinenza, vive e si alimenta di contingenza e provvisorietà.
E intanto il marasma delle dissertazioni, dei lavori, delle proposte operative, passa attraverso il filtro di quel crogiuolo personale che non conosce il crisma della verità obiettiva e, tuttavia, per la dabbenaggine dell’uomo, col passar del tempo, talune ipotesi rischiano addirittura di assurgere a dignità di certezze consolidate e intoccabili.
Ne consegue che spesso le regole poste in via provvisoria restano in vigore come normativa acclarata e consolidata, mentre altre proposte piú consone e lungimiranti vengono ignorate.
Tanto si evince perché l’uomo non riesce a fare diversamente, e il mondo in cui viviamo diventa l’unico possibile, sebbene infarcito di storture e manchevolezze.
Naturalmente il prodotto finito, confezionato dall’uomo, risente di quel disagio e si appalesa non sempre foriero di risultati concreti ed esaurienti.
Del resto la crisi dei valori, l’inefficacia organizzativa, il bisogno reiterato, e mai sopito, di un cambiamento etico-strutturale della società in avaria, stanno ad indicare l’incapacità dell’uomo a perseguire un modello di vita e una scuola di pensiero univoca, precisa, inconfutabile e duratura.
Le titubanze, le approssimazioni, le scelte non sempre appropriate e lungimiranti, dimostrano l’inaffidabilità delle proposte operative e l’inconsistenza della logica di umana provenienza.
In un contesto simile l’attendibilità di ogni iniziativa e/o disquisizione non è tale da rappresentare un punto di riferimento univoco e inoppugnabile, sicché, in questo mondo, le convinzioni, anche le piú rigorose, difettano nella loro elucubrazione e restano lontane dalla verità; tutt’al piú servono per dare soluzioni provvisorie ai problemi quotidiani e alle argomentazioni sulla realtà visibile.
Non riescono a conseguire un traguardo definitivo, meno che mai per ciò che riguarda l’invisibile, ovvero la sfera dell’extrasensoriale e quindi la dimensione del trascendente.
Si tratta di un vuoto, quest’ultimo, che, non essendo terreno comodo e praticabile da chicchessia, resta legato alla fantasia credula dell’uomo, che, dopo aver decifrato succintamente parvenze e minuzie aleatorie della realtà visibile, presume di poter indagare con la stessa logica anche sui grandi temi che riguardano il mistero dell’esistenza.

Giacomo Pontillo

  • Titolo
  • Attimi & gabriellate
  • Autore
  • Gabriella N.V. Napolitano
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 48
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 10,00

Volare con Gabriella

È piacevole trascorrere qualche ora a Formia e Gaeta, insieme a Gabriella.
Parliamo spesso del comportamento degli adolescenti, ed anche se non siamo delle api, improvvisamente ci ritroviamo a volare all’interno di un fiore. La poesia può essere un battito d’ali da permettere alla materia di librarsi in aria, quasi fosse un percorso leggero, un disegno nel cielo, tracciato con le dita. Ogni attimo gli adolescenti si pongono delle domande, si trovano a dover scegliere se accarezzare un profumo nuovo o dimenticarsi in quello di ieri:
Capii che il vento doveva essere lasciato libero di andare dove voleva, /e sarebbe stato un privilegio, se si fosse fermato /per accarezzarmi il viso, /prima di volare via.
La poesia degli adolescenti e preadolescenti è totale già nel proprio esserci sul Mondo. Gabriella mi fa riflettere sul diagramma cromatico delle emozioni che, negli adulti, è assorbenza e forse conoscenza, nei ragazzi genesi dei colori nuovi e chiari, come quando due fidanzatini si lasciano ma restano seduti accanto lo stesso, credendo di divenire invisibili:
E resto qualcosa che più non vedo, /e non voglio più vedere, /dopo che l’unico fiore, l’unico /che restava nel mio giardino di ortiche, / è diventato del colore dei corvi di pezza, / che volavano sulla mia maglia di pizzo nero.

Antonio Vanni