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  • Titolo
  • Senza perdere la strada
  • Autore
  • Ida Di Ianni
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 56
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 9,00

La consistenza dei sogni

È da folli essere gelosi di un poeta: perché può prendersi quello che vuole, con le sue parole, anche un cuore che non esiste e dargli vita, la sua, la vita delle sue parole. E può prendersi il cuore di chi legge le sue parole e farne il cuore di altre parole...
Ida Di Ianni, lo confessa d’altronde senza na-scondersi, è solo una che scrive per amore: ha la coscienza a posto, essendosi dichiarata. Peggio per chi le affida il suo cuore di lettore – fidandosi di poterla incontrare in queste pagine. Qui lei nemmeno c’è, poiché la voce che dice ti amo non è realmente la sua, ma quella del suo poetico (si direbbe altro da sé) sentimento che si fa parola.
Questo piccolo libro si compone di poche decine di frammenti estratti da un diario quotidiano che Ida va pubblicando on-line ormai da molto tempo. Vi si snoda un arco di pensieri di appena due mesi, poco più, ma l’idea di raccoglierli (mia) vuole comporre comunque un percorso di conoscenza che sia esemplare, da lasciare cioè alla memoria – e il libro a me (a Ida pure) sembra ancora il mezzo migliore per condividere una storia, anche inventata, per dare consistenza ai sogni.
Tagliare qui è proprio doloroso – sfrondare, an-che soltanto un po’, nelle mille ramificazioni di questa grammatica dei sentimenti, significa (ed è un arbitrio comunque necessario) strappare a Dafne le sue membra, perpetuare in contrappasso la sua pena. Ida qui si veste di sé – della creatura poetica che la abita – per donare al divino amante le vesti da lacerare nell’ideale amplesso che è il sogno celeste e terreno insieme, al quale non si sfugge, nessuno sfugge – il sogno di un oltre che sia già ora.
Tra le parole chiave di questa silloge, che si vorrebbe leggere in un fiato e che invece va lentamente assaporata, gustata, c’è l’ambiguo avverbio già – che, mentre sembra chiudere, apre verso nuovi traguardi. Io sono già il mio domani: scrive Ida, ed è poesia, ed è sequenza, ed è fine, ed è il tutto che esprimo. Perché è questo il gioco sotteso in queste sue esternazioni sentimentali che sono frutto – dichiaratamente (ma un gioco serissimo, pirandelliano) – della fantasia poetica: quello che è detto è già consegnato al passato, mentre aspetta un futuro che si sa non ci sarà (ma è già presente e posseduto nel dirsi, nell’essersi compiuto, appunto, nel suo dirsi). È lo stupore del vedere oltre, del sentirsi, dell’essere al di là di ora, del momento che è già pieno del suo domani.
Non è necessario, ma il riferimento (almeno) ad un grande modello viene spontaneo: così lavorava spesso Leopardi, componendo le note quotidiane del suo Zibaldone – qualcuna diventava poesia poiché già (è il caso di parafrasare ancora) la conteneva, era poesia in nuce, come parecchie di queste note che Ida, giorno per giorno, affida alla memoria del suo telefono e quindi invia (potenza e tentazione dei nostri mezzi mediatici!) agli amici, ai lettori di Facebook, a coloro che sapranno cogliere fra le sue parole un verso, una strofa, un canto... un desiderio di comunicare che si fa, nella smisurata grammatica dell’essersi, voce d’anima per anime in ascolto.
Alcuni dei brevissimi testi che compongono questo libro involontario (preterintenzionale, si potrebbe dire, poiché nato senza l’intenzione di farlo) possono leggersi, sezionati e scanditi, come testi poetici. Forse l’autrice – avesse avuto più che il tempo la pazienza di tornarci su – ne avrebbe tratto pagine per una nuova raccolta di poesie. Forse, ma forse no: come successe (per citare ancora un grande) al Michelangelo dei prigioni, Ida ha lasciato apposta da sbozzare i grumi di parole che le occorrevano, che le si offrivano, che le chiedevano vita, subito. E ha trascritto quel che dettava dentro il suo animo, lasciando a noi la scoperta da completare, la fiamma con la quale alimentare una passione comune.
Un abbraccio sognato mentre secoli scorro-no tra le pagine e solcano i mari parole mai udite d’amore. Ogni foglio è buono, così come ogni approdo. Caldo nella mente, così, accanto a me. Basta sentirti.
Alice finirà per incontrare uno specchio che non si lascia attraversare: sarà quello della dura realtà con la quale confrontarsi al di qua del sogno. Se ancora si può permettere un viaggio nell’oltre, chiediamole però di andare con lei... Magari ti potesse accompagnare Alice nel giardino incantato senza perdere la strada – o perderla con lei. Certo, se ce la sentiamo di rischiare di perderci, e comunque non da soli...
Ida è una donna antica, dice, ed è ben consape-vole delle nostre umane fragilità. Sa bene quante favole abbiano illuso l’umanità, quanti sogni si siano infranti nel di qua dello specchio, ma sa pure come andare oltre, senza perdere la strada. E, seppure si riconosca ebbra di mancanza, sa bene come attendere il domani, anzi: io sono già il mio domani – scrive – e poi chiarisce (rivolta all’ideale oggetto d’amore al quale è rivolto ogni suo pensiero d’amore): sei già nel mio domani... Ne può conseguire che io e tu coincidono? Avremmo risolto l’enigma a fondamento di questo libro di confessioni che non si rivolge ad altri che al proprio animo, inquieto fratello bisognoso d’affetto: desidero sentirmi amata.

Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • La sorgente del fiume Bann
  • Autore
  • Celeste Ingrosso
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 248
  • Prezzo
  • € 16,00

Una scommessa vinta

In realtà, è più di una scommessa: questo romanzo dell’esordiente Celeste Ingrosso (quasi una sfida alla pazienza dei lettori, oggi che tanto poca ne hanno per seguire tante pagine scritte) si apre con una serie di colpi di scena e si chiude... ma si chiude poi realmente?
Non è il caso di svelare non solo la chiusa ma nemmeno le trame (poiché al plurale vanno indicate) di questa storia avvincente, ai limiti dell’incredibile, scritta con apprezzabile padronanza tecnica, oltre che indubbia evidente passione per il tema affrontato. Che è un tema, anch’esso, da scommetterci per vedere chi viene a “vedere” (come quando si gioca a carte e c’è qualcuno che punta forte...
Celeste dunque si mette in gioco (poiché mette in campo le sue convinzioni profonde, forse il senso stesso della sua vita), e chiede al lettore di giocare con lei, ma seriamente, come per una caccia al tesoro in cui il tesoro è la vita che si mette in gioco. Ad apertura, infatti, propone un indovinello esistenziale che appare subito inquietante, lasciando insieme intuire chissà quali sviluppi narrativi. E ci sono, ci sono subito e ce ne saranno sempre altri, più o meno sorprendenti, fino alla conclusione – in certa misura attesa ma non del tutto prevedibile: una scommessa vinta.
Chi abbia seguito fiducioso la vicenda della giovane protagonista, si ritroverà con lei ad aver percorso un periodo fondamentale della conoscenza di sé: non si può rimanere indifferenti alle proposte – che sono semplicemente umane prima ancora di essere, come sembra, filosofiche o religiose – che l’autrice vuole farci comprendere e, magari, condividere.
I protagonisti del romanzo La sorgente del fiume Bann si muovono attraverso le vicende vissute come fossero sempre sicuri di quel che li aspetta, come sapessero che – prima o poi, magari non senza qualche impiccio – tutto si metterà a posto, anzi, tutto tornerà a posto... Qui la giovane Aidha scopre un mistero che si rivelerà la sua stessa vita. E coinvolgerà altri nel riconoscimento e le sarà d’aiuto per comprendere come più e meglio le convenga vivere, per sapere di essere non solo di passaggio in questo mondo, ma di essere una e più di una, di avere avuto e di poter avere più vite da vivere.
Intorno a lei, tutto concorre a metterla sulla strada giusta, an-che con gli intoppi che arricchiscono la curiosità del lettore, mentre ai personaggi assicurano pagine supplementari di episodi da gestire. E la curiosità cresce mentre si vedono agire – con gli occhi e con l’animo della protagonista (che narra in prima persona) – i personaggi di contorno, e soprattutto il deuteragonista (che è poi il motore primo al quale si deve l’origine stessa della ricerca esistenziale che segnerà la vita di Aidha); si vedono tutti muoversi all’u-nisono, appunto come seguissero una rotta nota, tracciata...
La struttura del romanzo è simmetrica, nella successione dei capitoli e nella stessa crescita dei personaggi attraverso quei capitoli. Ci sono ricorrenze spia, che danno la chiave per comprendere quel che succede e perché sta succedendo proprio allora e proprio a loro. I capitoli sono 23: quello centrale fa da cerniera e chiude una parte aprendone un’altra, speculare nell’ordine degli eventi. Alla fine, sapremo le ragioni di certi episodi iniziali, scopriremo le motivazioni psicologiche insite in alcuni caratteri – se avremo partecipato con attenzione e disponibilità intellettuale, saremo anche appagati dall’esito a cui giunge l’autrice.
Certo, chi abbia confidenza con le teorie orientali sulla rein-carnazione meglio riesce a penetrare le linee portanti della storia, e insieme la psicologia dei personaggi e le loro azioni (calandosi – e questo è favorito dall’abilità dell’autrice di muoversi nell’epoca tardo-ottocentesca e nella geografia nordirlandese e non solo – attraverso i meandri in cui spesso i vari capitoli trascinano il lettore). Ma il romanzo si apre, proprio grazie alla lontananza spaziotemporale in cui si snoda – o si riannoda continuamente fino allo scioglimento –, tirando inevitabilmente dentro e rimettendo fuori senza sosta: La sorgente del fiume Bann diventa un porto/approdo dal quale ci si avvia per fare scoperte impensate e al quale si torna per dar ragione di quelle scoperte, appunto “scoperte” come dovevano essere. La sorgente del fiume Bann è il luogo ideale (oltre ad essere materialmente, geograficamente, il luogo centrale e il centro motore di questo romanzo) dove si finisce per trovare – come forse già si sapeva – un ubi consistere che insieme è pure un unde procedere... Un ritorno ad una nuova vita.
La giovane spericolata scrittrice che coraggiosamente esordisce con 250 pagine fitte di cose e persone, di sogni e pensieri, e ne esce sicuramente anch’ella cresciuta con la sua Aidha, anche lei, la scrittrice in erba che dimostra scaltrezza nell’organizzare e nello scrivere, predisposizione allo studio dei caratteri, fiducia – anche, non guasta – nella disponibilità del lettore medio a credere nell’as-sunto principale all’origine di tutto: siamo chi siamo già stati, e ci tocca completare, o almeno sviluppare, percorsi segnati, insieme a coloro che insieme a noi hanno fatto in parte quei percorsi.
È il nostro karma a indicarci la strada, inevitabile per quanto si tenti di evitarla, e a condurci – a tappe, ma senza tema di perderci – dov’è segnata la nostra meta. Il vero premio per quella scommessa è trovare (ri-trovare) l’altra metà che ci fu tolta – sappiamo che ci aspetta, ci sta cercando, anela al ricongiungimento. Perché dobbiamo essere due in uno, per vivere pienamente. Perché non saremo completi e felici fino a quando avremo completato (per quanto frammentato in diverse vite) il giro di esistenza che ci è stato assegnato.

Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • Atene e Roma
  • Autore
  • Lino Di Stefano
  • Collana
  • Il Cormorano
  • Pagine
  • 80
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 10,00

Capitolo I

La “fantascienza” nel mondo classico

Nel clima di generale attenzione che varie collane stanno dedicando, in questi ultimi tempi, alla “rinascita” del mondo classico, s’impone, il libro Luciano: Una storia vera che raccoglie ben cinque opere dello scrittore, libellista e rètore siriaco di lingua greca. Una delle ultime voci più vibranti, per genialità, capacità espressive e “vis polemica”, della letteratura ellenistica della cosiddetta Seconda Sofistica e, per dirla con un critico, il Tuscano, «un gustosissimo artefice dei tipi, un fantasioso pittore di situazioni psicologiche, un peregrino alla ricerca della Verità».
La raccolta in questione, si avvale, da una parte, dell’ottima traduzione di Luigi Settembrini (1813-1876) – il geniale autore de Le ricordanze della mia vita, il patriota che marcì per otto anni nelle carceri borboniche e patì l’esilio in Inghilterra, lo scrittore definito da Francesco De Sanctis come colui «nato a patire più che a fare, nato al martirio più che alla vittoria, santo tra santi, di una fede tanto più ardente quanto più pura di ogni interesse personale» –; dall’altra, delle Introduzioni, per ciascuna opera, delle note e delle illustrazioni di Alberto Savinio che. com’è noto, si distinse come pittore, scenografo, scrittore e musicista dopo essersi formato – era fratello di De Chirico – nella temperie culturale Surrealistica di Parigi e dell’Europa intera.
E proprio le illustrazioni saviniane, di stampo surrealistico, rendono il libro più attraente, unitamente all’apparato ermeneu-tico, sempre opportuno e puntuale, vista, altresì, come s’è accennato, la bella e chiara versione settembriniana che non risente affatto dell’usura del tempo salvo l’obsolescenza di qualche termine arcaico, giustamente sostituito dal Savinio con un vocabolo più vicino ai nostri tempi. La raccolta lucianea si apre con un’opera, l’Alessandro o il falso profeta, la quale non è altro che la storia di un ribaldo e megalomane che, spacciandosi per mago e discepolo di Pitagora, anche perché dotato, dice Luciano, «d’intelligenza e di sagacia», riesce nell’intento di irretire nelle sue maglie il grosso pubblico, diremmo noi oggi, per ragioni di fama e di lucro.
Fingendo, con geniale spudoratezza, di padroneggiare gli arcani segreti della natura e le arti occulte più subdole, Alessandro, uomo temerario, riesce ad ordire tante maligne trame – anche contro Luciano medesimo, che rischia di rimanere strangolato «come un sacrilego», egli dice – fino al punto di bruciare le stesse opere di Epicuro, dal sofista di Samosata perfettamente definito «divino sacerdote della verità, del quale egli solo ha conosciuto e rivelato la bellezza, e liberatore di coloro che ne seguitano la dottrina». Altrettanto bella quanto celebre la seconda pubblicazione, intitolata Il Menippo, o la Negromanzia, libro, chiarisce Al¬berto Savinio nell’“Introduzione”, «della maturità di Luciano, scritto intorno al 167». L’opera, redatta in dialogo, di cui l’autore è maestro, racconta le vicende di Menippo, appunto, che torna, co-m’egli si esprime, «dal regno della morta gente». Il colloquio fra quest’ultimo e l’amico Filonide, che gli chiede testualmente quale bisogno lo «mosse di andare laggiù», risulta stringente ed efficace, anche perché precorrendo, lo scrittore di Samosata, di molti secoli gli autori – nella fattispecie Virgilio, Dante ed altri – che immaginarono un viaggio nell’oltretomba, egli ce ne offre un quadro quanto mai realistico e macabramente seducente. Considerato, inoltre, che le pene infernali non sono altro che la conseguenza dei comportamenti umani tenuto conto – così Filonide replica a Menippo che gli chiede «come va il mondo, e che si fa nella città» – che, appunto, nel mondo «niente di nuovo, tutto è vecchio: si ruba, si spergiura, si fa usura, si scortica a dismisura».
Parole che sembrano scritte oggi, tanto convinta è in Luciano la considerazione, rafforzatasi con gli studi, che «chi predicava spregiar le ricchezze, le teneva afferrate coi denti; (...) chi spregiava la gloria, si sbracciava per conquistarla; quasi tutti biasimavano pubblicamente il piacere, e in privato non si attaccavano che al solo piacere».
Ne viene fuori, a questo punto, un quadro di rara icasticità, con Filonide curioso di conoscere la sorte degli uomini “post mortem” e Menippo, sotto mentite spoglie Luciano, pronto a soddisfarlo non solo col racconto della visione dei grandi uomini, ma anche con l’osservazione che «a guardare quello spettacolo, io ripensavo alla vita umana, che mi pare come una lunga processione». Con la Fortuna, aggiunge lo scrittore siro, che «è il cerimoniere che ordina e distribuisce gli uffici e le vesti». Chiarito che «la vita dell’ignorante – e qui ci sembra di sentire il Leopardi – è la migliore e la più saggia», con tale raccomandazione rivolta a Filonide e all’uomo in quanto tale, Luciano si accomiata dal lettore. «Manda alla malora i filosofi e i loro sillogismi, che son tutte sciocchezze».
Dopo il fantastico viaggio in cielo, nel libro Icaromenippo, dove incontra Empedocle, innumerevoli celesti e Giove, lagnantesi con gli Ateniesi, rei di non fargli «più festa da tanti anni», e dopo il richiamo di quest’ultimo per essersi spinto così in alto, la raccolta bompianea presenta quelli che sono considerati i capolavori del sofista di Samosata, vale a dire Lucio e l’asino e Una storia vera. Il primo, tratto da un racconto di un certo Lucio di Patre, ispirò sia il nostro Apuleio con le sue Metamorfosi – ritenute, a ragione, un’opera originale nel suo genere –, sia, appunto, Luciano, il quale soprattutto in tale volume, così come in altri, per Savinio, «nella sua qualità di artista “fine civiltà” (...) è tutto e nulla». Scritte in uno stile avvincente e in una forma quanto mai fluente, Lucio e l’asino, per un lato, e Una storia vera, per l’altro, confermano non solo le particolari qualità letterarie dell’“Archistator praefecti Aegypti”, bensì pure «l’alta fantasia», direbbe Dante, con cui quest’ultimo imbastisce l’ordito. Con l’eroe impegnato ad eli-minare l’asino rimasto, son parole di Luciano, «nudo quel Lucio che ero dentro», e costretto a sopportare infinite peripezie prima che le rose gli restituiscano dimensioni umane.
Per quel che concerne, invece, la Storia vera, «una delle ultime opere di Luciano, scritta tra il 177 e il 179», son parole di Savinio, essa rimane, senza dubbio, una grande prova del Siro, per il semplice motivo che la stessa influenzò non solo uomini del calibro dell’Ariosto, Rabelais, Collodi, Verne ed altri, ma evidenziò anche le peculiari attitudini del sofista a presentarsi come uno scrittore di fantascienza “ante litteram”. Viste le vicende, quasi da guerre stellari, fra Ippogrifi, Scagliamiglio, Aglipugnanti, Struzzipinconi, Insalumati, Tritobecchi e simili e il largo uso di altri neologismi onomatopeici, quali Pulciarcieri, Nottivago, Nonsisveglia, Tutta-notte etc., che tutt’insieme rendono alla perfezione il clima sur-realistico delle situazioni. Non mancano, in tale fantastoria, le prese in giro dei filosofi, quantunque nel rispetto di Platone, che «dicevasi abitare una città che egli stesso aveva fatto, con quel governo e leggi che egli le aveva dato».
Conclusa la faticosa, intricata e fantomatica avventura nei sentieri celesti – dopo la brutta esperienza nel ventre della balena – Luciano torna, dantescamente, a riveder la terra con la soddisfazione e, dice l’autore, «il prurito di lasciar qualche cosetta ai posteri». Alberto Savinio, sapiente curatore ed illustratore delle cinque opere lucianee, conclude giustamente la sua fatica con tali espressioni che sono da condividere in “toto”. «Tanta poesia era in questo uomo “della fine”, che dalla voluta parodia venne fuori una delle più straordinarie opere di poesia».

  • Titolo
  • La rondine innamorata
  • Autore
  • Rosario Stabile
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 80
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 10,00

Già l’inizio di questa raccolta esprime particolare positività e gioia. Rosario apre il suo primo racconto con l’arrivo della primavera. È ben noto che la primavera è sinonimo di risveglio e di rinascita, espressi in questo caso con parole studiate semplici e poetiche allo stesso tempo: «Il periodo piú bello dell’anno è la primavera, quando arrivano le belle giornate, sbocciano i primi fiori, fioriscono gli alberi, gli uccelli con il loro cinguettio colorano il cielo di festa». I primi personaggi che incontriamo sono il principe e la rondine, che dà il titolo all’intera raccolta.
Velatamente sembra che Rosario voglia autoidentificarsi a volte nell’uno a volte nell’altra. Il principe, come Rosario, è circondato sempre da tante persone (che nel caso del principe sono i membri della servitú, nel caso di Rosario la famiglia e gli amici). Nonostante ciò, ci sono giorni in cui si sente solo. Ma supplisce a questa solitudine una gioia: la compagnia di un amico speciale: un tenero animale. Questo accade ne “La rondine innamorata”, ma anche nella quotidianità di Rosario. Nella storia, la sua spiccata sensibilità e il suo innato affetto fanno diventare subito il principe e la rondine amici, con spontaneità. Cosí come nel racconto “Io e Asia” saranno Rosario e il pastore tedesco Asia a diventare presto amici. E ancora nel racconto “Pedra e lo spirito del lupo”, quando il giovane Erik si avvicinò per la prima volta a Pedra e lei «affettuosamente gli leccò la mano, come a volerlo accarezzare». Subito «il nonno gli spiegò che con quel gesto Pedra aveva scelto il suo migliore amico e che [...] il giovane doveva ritenersi molto fortunato, perché di tanti cani quello era in assoluto il piú intelligente e affettuoso». Oppure nel racconto “A Stella e Luna, inseparabili amiche”, quando il piccolo Matteo si trova a dover scegliere un gattino, sceglie la dolce micetta Stella come sua migliore amica, a cui ben presto si aggiunse un’altra amica, la cagnolina Luna. Cosí avviene anche in “Leo, amico di una vita”, appunto, in cui il gattino Leo «occupa un posto speciale» nel cuore di Rosario. E ancora in “Cettina” dove Rosario afferma: «Era la migliore amica che si potesse desiderare a volte anche meglio di tante persone». E spesso usa parole che indicano emozioni o sentimenti riferiti ad animali. Ad esempio nel racconto “Io e Asia” troviamo affetto, bontà, tristezza, sofferenza, prontezza a difendere chiunque si trovi in difficoltà... O nel racconto “Il sogno” scrive che tra gli animali «regnavano pace, fratellanza e smisurato amore per il prossimo» e che una loro caratteristica innata era l’accoglienza degli ospiti. O ancora nel racconto “A Leo, amico di una vita” il suo «piccolo batuffolo di pelo grigio» è affettuoso, dolce, tenero e soffre, quando Rosario non è con lui.
Rosario nell’arco della sua vita ha avuto davvero tanti amici a quattro zampe (o a due zampe e due ali). Lui stesso scrive: «La mia casa ha ospitato cani, gatti, criceti, tartarughe, un merlo indiano, canarini», animali che nella relazione privilegiata con Rosario diventano per lui quasi persone. All’inizio del racconto “A Leo, amico di una vita” Rosario giungerà persino ad affermare di credere che anche gli animali hanno un’anima, anzi, secondo Rosario hanno piú diritto loro di averne una, rispetto a «quelle persone che li odiano e fanno loro del male, maltrattandoli o abbandonandoli per strada».
Già nel primo racconto si evince la purezza dei sentimenti di Rosario. Quando al castello giunge la bellissima principessa e il principe se ne innamora, la rondine non si rattrista, né esprime in alcun modo gelosia, anzi «era felice per il suo amato perché finalmente non sarebbe stato piú solo» e persino in punto di morte trova motivo di gioia: «Emise il suo ultimo canto e fu il piú bel canto di tutta la sua vita. Fu felice di morire tra le mani del suo amato principe».
Questo saper cogliere il bene in ogni episodio, occasione, avvenimento che la vita può presentare, anche in quelli apparentemente tristi, infelici, dolorosi è una caratteristica che consente l’autoidentificazione di Rosario – che per altri aspetti nella stessa storia si autoidentifica nel principe – nella rondine.
L’amore di Rosario per gli animali si esprime, toccando un apice, nel secondo racconto che inizia proprio dicendo che «chi ama davvero i cani, li ama tutti, non solo quelli di razza pura». E questo la dice lunga sulla personalità di Rosario. Per esprimere liberamente il suo punto di vista, cede la parola al suo orsacchiotto che nel racconto “Il sogno” dice: «Vedi perché noi viviamo in pace e armonia? Non ci arrabbiamo mai, se qualcuno ci fa del male lo perdoniamo. Ci perdoniamo a vicenda, qui la parola “guerra” non esiste nemmeno. Noi non abbandoniamo mai un amico, soprattutto se è in difficoltà e non critichiamo quello che fanno gli altri perché siamo impegnati solo ad amarci e rispettarci, cose che voi umani fate molto raramente». Anche se questa visione può apparire pessimista, Rosario non manca di lasciar presto spazio alla speranza. Infatti la sua stessa presenza nel “pianeta degli animali” e la garanzia della sua adesione a quelle regole, nonostante sia un uomo, stanno a significare che le eccezioni esistono. Subito dopo, a conferma di quanto appena detto, Rosario nel sogno chiede all’orsacchiotto di «farlo restare lí con loro per sempre». Ma l’orsacchiotto gli risponde: «Purtroppo non si può, tu sei un umano, il tuo posto è sulla terra, anche se lí ci sono molti problemi è bello viverci lo stesso e amerai gli animali che sono stati mandati laggiú». L’orsacchiotto de “Il sogno” non è l’unico animale a prendere la parola. Anche Leo, il gattino «piccolo batuffolo di pelo grigio» di Rosario, mentre lui studiava, si esprimeva talmente bene attraverso i suoi gesti che sembrava quasi volergli dire: «Basta compiti, adesso gioca con me!». E ancora Cettina, la gattina dell’omonimo racconto a detta di Rosario «aveva davvero qualcosa di speciale, aveva una particolare sensibilità, quasi umana secondo me, se ne stava per molto tempo seduta sul tavolo di fronte a me e mi guardava con uno sguardo intenso, come se volesse parlarmi, poi c’erano alcuni suoi gesti che ti lasciavano senza parole».
Nei racconti di Rosario incontriamo sia animali reali che Rosario ha conosciuto, sia animali frutto della sua immaginazione. In tutti i casi però le descrizioni sono sempre puntuali. In generale nella sua scrittura i ricordi dei dati sono estremamente precisi. Nel racconto “Pedra e lo spirito del lupo”, ad esempio, la principale caratteristica del lupo è il coraggio, che lo porta a sentirsi responsabile come guida del branco e sempre pronto a difenderne e a proteggerne i membri. Allo stesso modo ogni animale descritto da Rosario ha delle proprie caratteristiche. La speranza e la positività sono il “filo rosso” che percorre tutti i racconti di Rosario. Nulla può ostacolare la speranza. Ne è esempio simpatico il racconto, in cui Stella e Luna, una gattina e una cagnolina crescono come due sorelle, allattate dalla stessa mamma. Luna era stata abbandonata ancora cucciola, ma Tommasina, la gatta mamma di Stella e di altri quattro gattini, non ha esitato ad adottare un sesto cucciolo, che altrimenti da solo non ce l’avrebbe fatta a sopravvivere. E Rosario fa dire al padroncino Matteo, a mo’ di sentenza: «Cane e gatto? Chi l’ha detto che non si può?». E Tommasina non è l’unica mamma gatta a tempo pieno, c’è anche Cettina, la gattina protagonista dell’omonimo racconto, che, oltre ad essere «una mamma premurosa» con i suoi piccoli, tanto che Rosario afferma: «Non avevo mai visto una gatta cosí dolce e attenta come lei», è una mamma che adotta tutti i cuccioli orfani. Rosario infatti scrive: «Era la madre di tutti i gattini abbandonati».
Sempre riguardo alla speranza, che in queste storie non muore mai, nell’ultimo racconto “Silvia e Tommy”, la piccola Silvia riesce addirittura solo con la forza del suo amore ad addomesticare una volpe, Tommy, nonostante l’incredulità di tutti coloro che la circondavano.
Non mancano nei racconti di Rosario temi di piú ampio respiro sociale. La monotematicità in queste storie, reali o inventate che siano, è solo apparente. In “Le avventure di Chicco”, ad esempio, Rosario affronta in maniera esplicita e diretta il tema dell’abbandono. Ma questo racconto è emblematico anche per molto altro. Infatti al suo interno contiene numerosi temi importanti e interessanti a livello umano e sociale: la solitudine degli anziani, le nipoti che accudiscono la nonna solo per l’eredità, la vita dei senza tetto, lo sfruttamento degli animali, l’eccesso di velocità, la crudeltà dell’uomo ed altri. E lo stesso racconto è emblematico anche per un’altra caratteristica propria dei racconti di Rosario: il lieto fine. Ogni “avventura” di Chicco finisce bene. Nei racconti di Rosario, durante lo sviluppo della trama, spesso si creano situazioni di pericolo o di suspense, ma alla fine tornano sempre equilibrio e armonia. E Rosario riesce sempre a trarre il positivo, da ogni circostanza. Cosí, un libro aperto con la rinascita della primavera si chiude (nell’ultimo racconto, “Silvia e Tommy”) con un patto di eterna amicizia tra due persone tra le quali non era mai corso buon sangue. Questo sta a denotare la persona di Rosario, sempre volto al positivo, sempre fiducioso nella speranza, sempre pronto a dimostrare che «nulla è impossibile».
Grazie Rosario per la tua testimonianza di vita.

Dalla prefazione di Chiara Franchitti

  • Titolo
  • Il paese sulla scogliera
  • Autore
  • Manfredo Di Biasio
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 72
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 10,00

Scogli nella memoria

È proprio il caso di parafrasare il titolo di questo appassionato libro di racconti che Manfredo Di Biasio ha raccolto nei cassetti della memoria: in quei suoi cassetti il vecchio scrittore è andato a cercare – per proporre, e condividere con gli attenti lettori, il mondo che è stato il suo ma non è lontano dal nostro che adesso siamo – lacerti di esperienze toccanti, personali o meno, ma vissute tutte come scogli ai quali aggrapparsi tra i marosi in tempesta di un mare ostile – la vita. Tale infatti è la nostra esistenza, anche se a volte quel mare sembra accoglierci amichevole e festoso (come nel racconto che dà il titolo al libro), poiché spesso invece siamo “preda di burrascosi notturni” da cui almeno usciamo “vissuti”: se abbiamo la fortuna di uno scoglio che ci salva. Può essere una situazione che si evolve in nostro favore, o un amico che ci sorregge nel bisogno, l’appiglio consente di riprendere il cammino che si stava facendo difficile e periglioso.
Manfredo Di Biasio ha scritto e pubblicato tanto, ha cominciato giovanissimo con una raccolta di versi, ma in oltre mezzo secolo ha accumulato – oltre le numerose e varie pubblicazioni – pacchi di inediti nei quali ogni tanto va a mettere mano, forse per un’intima esigenza di mettervi ordine, di sistemare e fare i conti col passato. Così la memoria privata si fa storia collettiva, mentre si aprono scorci di vita ormai remota nel tempo. Quegli episodi e quelle persone che (ri)vivono nelle sue memorie sono al tempo stesso frammenti della grande Storia che tutto avvolge e spesso travolge. Qui gli anni cruciali sono quelli terribili del dopoguerra, gli anni cinquanta del secolo scorso, quando parecchi si videro spinti, costretti a cercare fortuna altrove, lasciando i luoghi e le (poche) sicurezze familiari per andare a soffrire un’esistenza appena più dignitosa. Alcuni fortunati hanno infine potuto ritornare a casa, lì dov’erano rimaste le care memorie, in un paese solatìo sulla scogliera.
Anche se «gli anni hanno posto una barriera in-valicabile tra quel tempo vissuto quasi inconsape-volmente e l’oggi», non è banale ricordare – come appunto fa Manfredo, apertamente o per mezzo di esempi narrati – che «la storia si ripete», perché le nuove generazioni sappiano da dove vengono, e che quanto hanno a disposizione è frutto (o colpa, certo: dà frutti, amari, anche la colpa) di coloro che li hanno preceduti, vivendo sopportando e godendo «uragani e dolci maree»… – ancora una metafora marina – che «hanno costellato il tragitto esistenziale di ognuno di noi». Di quegli anni di formazione, «resta una memoria limpida, che gli anni hanno reso dolcissima».
Se siamo eredi, è anche vero che dobbiamo ri-spetto a chi ci ha dato l’eredità di cui viviamo. E in queste pagine di Manfredo si può comprendere perché. Gli undici racconti che compongono Il paese sulla scogliera costituiscono infatti un album (di immagini) che prende vita in un paese ideale, il paese di tutti che leggono e si ritrovano. Ci hanno lasciato in custodia non solo le case nelle quali vi-vemmo un tempo (forse «inconsapevolmente» liberi di fronte alla vita, al futuro), ma la stessa esistenza vissuta da chi ci ha preceduti e si fa in noi la nostra esistenza da vivere secondo insegnamenti – per quanto non sempre condivisibili (alla luce del tempo nostro, che è diverso da quello che fu) – irrinunciabili, inalienabili.
Questi agili racconti sono scritti quasi in punta di penna (Manfredo la usa ancora), col gusto pieno di chi partecipa una confidenza, un regalo ad un amico. E vi compaiono familiari, amici, conoscenti: tutti tasselli di un mosaico variegato che vanno a costituire un affresco da guardare tutt’insieme, poiché le diverse piccole storie fanno parte della Storia con la maiuscola, e quella è possibile comprenderla soltanto se ciascuno vive e comprende la sua personale piccola storia. E la fa crescere, insieme con gli altri.
La terza persona (usata in quattro racconti) dis-simula appena la volontà di staccarsi da certe storie, che appaiono ugualmente sofferte, come quelle narrate in prima persona – e che a volte sembrano an-ch’esse costruite apposta per essere esposte a mo’ di esempio. La vena di Manfredo Di Biasio scorre in entrambi i casi con sorprendente fluidità, segno di adesione alla sua scrittura che è specchio di esistenza. In queste pagine veloci alla lettura scorrono figure e figurine di vario genere, in prevalenza di ambiente e provenienza piccolo borghese. Personaggi femminili indimenticabili, anche se tratteggiati in poche pagine: Annina, Ceschina (la stessa “Farfalla” del racconto “Via della Pineta”, inconoscibile ma verissima nella forza dell’invenzione letteraria)… e ci sono poi i ragazzini che fanno i grandi e grandeggiano in episodi che si fissano nella memoria – la loro, mentre poi crescono davvero, e quella del lettore che appunto ne coglie le smanie esibizionistiche tipiche di chi ancora non conosce del mondo altro che le regole del suo piccolo mondo.
È inevitabile, forse, in un libro come questo che si anima e si sostanzia di ricordi (e i tempi ricordati non sono più tanto vicini), una vena malinconica, nella quale peraltro – chi lo conosce poeta, lo sa – Manfredo è maestro. Maestro perché per lui quella vena non è un rifugio consolatorio, e nemmeno una bandiera di impotenza (oggi si campa anche di questo): si nasconde nel tenersi un po’ in disparte a riflettere sul bene perduto solo perché ha imparato ad apprezzare il bene che comunque ha saputo conquistarsi – una lezione che soprattutto i lettori più giovani di questi suoi racconti dovrebbero fare propria – e ringraziarlo.

Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • Ghimíle Ghimilàma
  • Autore
  • Massimo Acciai Baggiani e Francesco Felici
  • Collana
  • Il Cormorano
  • Pagine
  • 256
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 20,00

Capitolo I

Che cosa contraddistingue una “lingua inventata” da una lingua che si voglia considerare “naturale”, esistente quindi prima di essere codificata come tale e dotata di un’apposita grammatica specifica che la renda comunicabile e apprendibile? È ancora praticabile il sogno settecentesco della lingua “perfetta” o co-munque “universale”? Si potrebbe ancora proporre oggi la “lin-gua finale” che ponga fine al proliferare dei linguaggi come conseguenza dell’anatema divino piovuto su Nimrod e la Torre di Babele (come narra la Bibbia collocando questo episodio alle origini dell’umanità)?
L’illusione di Ludwik Lejzer Zamenhof di aver creato una lin-gua che rendesse inutile tutte le altre e che, in questo modo, col-laborasse in maniera fattiva e decisiva all’affratel-lamento dei popoli è ancora viva come è vivo l’esperanto, anche se non ha avuto il grande successo auspicato dal suo ideatore. Una lingua che permettesse a tutti di comunicare e di evitare le secche dell’incomprensione e del misunderstanding è al centro di tanti altri tentativi successivi. Un altro esempio di aspirazione alla to-talità del dettato linguistico è il volapük di don Martin Johann Schleyer, anch’esso un tentativo di agglutinare le lingue indoeuropee per renderle comprensibili a tutti i popoli della Terra, un disegno ecumenico (il suo creatore affermò di essere stato ispirato direttamente da Dio in sogno) che voleva evitare le guerre e i conflitti legati alle incomprensioni umane. Ma l’elenco sarebbe pressoché inesauribile, data la fertilità dei tentativi e i conseguenti fallimenti successivi.
La lista delle lingue inventate, sia ausiliarie che artistiche (come pure di quelle logiche e/o filosofiche) è amplissima e non è certo possibile tener conto di tutte le versioni di linguaggi pos-sibili, verbali e non verbali, partoriti dalle fervide menti di lin-guisti, scrittori e figure di filantropi (come Zamenhof) desidero-se di aiutare l’umanità a superare i détours de Babel (per citare un celebre saggio sull’argomento ad opera di Jacques Derrida).
Le “lingue inventate”, allora, sono il tentativo di costruire un linguaggio su base comune per unificare le aspirazioni migliori dei popoli e creare una base universale di contatto tra di essi (come succede con la musica che diventa lingua cosmicamente comprensibile da tutti gli esseri viventi negli Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg).
Di conseguenze, scrivere in esperanto o in volapük significa voler sperare in un mondo migliore che arriverà quando le in-comprensioni umane legate al linguaggio saranno state spazzate via da una lingua speciale e unica che le comprenda tutte e le renda capaci di comunicare veramente.
Gli studiosi di filosofia del linguaggio e i teorici della comu-nicazione hanno sempre analizzato questo snodo del pensiero e cercato di creare soluzioni-ponte in grado di esorcizzare il vuoto di comprensione esistente tra gli uomini: la teoria del meta-linguaggio in tutte le sue varie coniugazioni da Charles Morris ad Alfred Tarski a Korzybiski è un esempio di questo sforzo ine-sausto di riconciliazione linguistica.

  • Titolo
  • Su un muro di lapislazzuli
  • Autore
  • Ghassane Bahou Amarsal
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 98
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 10,00

Un esordio e una promessa

“fai esplodere i loro segreti con la poesia”

La vecchia collana della “stanza” aveva già ospitato poeti marocchini esordienti in lingua italiana: Mohammed el Amraoui (Una tartaruga nella testa) e Dalila Hiaoui (Brez-za del Sud). In questa nuova serie salutiamo, con una punta di orgoglio, il nuovo esordio di un poeta marocchino, Ghassane Bahou Amarsal (proposto peraltro proprio da Dalila Hiaoui - ed è un modo simpatico per legare insieme le due esperienze editoriali, grazie alla poesia del Ma-rocco).
L’avvocato Ghassane si presenta in Italia con le credenziali giuste: la sua poesia è densa di cultura ed è scritta con sentimento e attenzione. Ci sono immagini nei suoi versi che rimangono scolpite per la forza espressiva che le anima. Ci sono versi che da soli valgono la lettura di un testo. Si può senz’altro concordare con il professore El Gendy, autore di un esteso saggio critico su questo libro: è una poesia «da leggere e rileggere per scoprire tutti i sui segreti».
Leggiamola dunque, in cerca dei momenti più significativi del suo farsi messaggio, del suo divenire nostra, nella traduzione del gruppo di lavoro “Amici della poesia araba” che ci rende possibile questo incontro. E davvero servirebbero molte pagine per raccontare e interpretare l’e-sperienza poetica di Ghassane, la sua delicatezza e insieme la sua vasta conoscenza dell’animo umano.

استهلال ووعد
“فجّرْ نجواهم بالشعر”
سبق للسلسلة الشعرية القديمة “La stanza” أن استضافت تجربة شاعرين مغربيين في مستهل إصداراتهما باللغة الإيطالية، وهما: محمد العمراوي ودليلة حياوي (نسيم الجنوبBrezza del sud/). وفي هذه السلسلة الجديدة نحيّي بلمسة من الفخر البداية الجديدة للشاعر المغربي غسان باحو أمرسال باقتراح من الشاعرة دليلة حياوي. وإنها لفرصة طيبة للوصل بين تجربتي نشر بفضل الشعر المغربي).
المحامي غسان حل بإيطاليا مقدما أوراق اعتماد صحيحة: شعره المفعم بالثقافة والمنظوم بإحساس وروية. هناك تصاوير بأبياته تبقى منحوتة ومتحركة في آنٍ بقوة تعابيرها. بل هناك أبيات في حد ذاتها تختزل قراءة نص بأكمله. ويمكن الاتفاق دون شك مع الأستاذ الجندي الذي خص هذا الديوان بقراءة نقدية مستفيضة حين قال: [..تحتاج إلى إعادة قراءة حتى نستكشف كنه هذه اللغة، ونسبر أغوارها...]..
فلنقرأها إذن بحثا عن اللحظات الأكثر تعبيرا في رسائله وفي حلول هذه الأخيرة لتصير لنا من خلال ترجمات فريق العمل: أصدقاء القصيدة العربية، الذين جعلوا هذا اللقاء ممكنا. حقاً يلزمنا صفحات وصفحات لتحليل تجربة غسان الشعرية والحديث عن رقته جنبا إلى جنب درايته الواسعة بالنفس البشرية. 

Questo “muro di lapislazzuli” è infatti anche una promessa: l’autore vi dichiara tutta la sua umanità, con il fardello che la storia vi ha im-presso e la gioia che gli dà la vita quotidiana quando gli sorride e pure quando lo impegna nel lavoro e nei rapporti con gli altri. Perché è proprio “nella poesia” che esplodono i segreti della vita, e nella poesia vengono salvati e conservati – affinché altri dopo di noi ne possano godere. Ed è questo il senso – profondamente umano – dell’operazione poetica dell’avvocato scrittore Ghassane Bahou Amarsal. La sua è una promessa: se imparate a prendere la vita nel verso giusto, io vi sarò vicino con la mia parola e testimonierò insieme a voi la bellezza del mondo.
Che il libro si chiuda con un inno a Gaeta (e che la foto in copertina alluda anch’essa a Gaeta) è un omaggio non casuale, nel solco della tradizione di poesie dedicate alla città del Golfo da entusiasti visitatori. Ed è anche bello che l’uscita di questo libro di Ghassane coincida con il decennale delle pubblicazioni della collana “la stanza del poeta” (febbraio 2006), che nella sua prima serie di 111 libri è stata appunto stampata a Gaeta.

Giuseppe Napolitano