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Ghimíle Ghimilàma |
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Massimo Acciai Baggiani e Francesco Felici |
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Il Cormorano |
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256 |
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2016 |
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€ 20,00 |
Capitolo I
Che cosa contraddistingue una “lingua inventata” da una lingua che si voglia considerare “naturale”, esistente quindi prima di essere codificata come tale e dotata di un’apposita grammatica specifica che la renda comunicabile e apprendibile? È ancora praticabile il sogno settecentesco della lingua “perfetta” o co-munque “universale”? Si potrebbe ancora proporre oggi la “lin-gua finale” che ponga fine al proliferare dei linguaggi come conseguenza dell’anatema divino piovuto su Nimrod e la Torre di Babele (come narra la Bibbia collocando questo episodio alle origini dell’umanità)?
L’illusione di Ludwik Lejzer Zamenhof di aver creato una lin-gua che rendesse inutile tutte le altre e che, in questo modo, col-laborasse in maniera fattiva e decisiva all’affratel-lamento dei popoli è ancora viva come è vivo l’esperanto, anche se non ha avuto il grande successo auspicato dal suo ideatore. Una lingua che permettesse a tutti di comunicare e di evitare le secche dell’incomprensione e del misunderstanding è al centro di tanti altri tentativi successivi. Un altro esempio di aspirazione alla to-talità del dettato linguistico è il volapük di don Martin Johann Schleyer, anch’esso un tentativo di agglutinare le lingue indoeuropee per renderle comprensibili a tutti i popoli della Terra, un disegno ecumenico (il suo creatore affermò di essere stato ispirato direttamente da Dio in sogno) che voleva evitare le guerre e i conflitti legati alle incomprensioni umane. Ma l’elenco sarebbe pressoché inesauribile, data la fertilità dei tentativi e i conseguenti fallimenti successivi.
La lista delle lingue inventate, sia ausiliarie che artistiche (come pure di quelle logiche e/o filosofiche) è amplissima e non è certo possibile tener conto di tutte le versioni di linguaggi pos-sibili, verbali e non verbali, partoriti dalle fervide menti di lin-guisti, scrittori e figure di filantropi (come Zamenhof) desidero-se di aiutare l’umanità a superare i détours de Babel (per citare un celebre saggio sull’argomento ad opera di Jacques Derrida).
Le “lingue inventate”, allora, sono il tentativo di costruire un linguaggio su base comune per unificare le aspirazioni migliori dei popoli e creare una base universale di contatto tra di essi (come succede con la musica che diventa lingua cosmicamente comprensibile da tutti gli esseri viventi negli Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg).
Di conseguenze, scrivere in esperanto o in volapük significa voler sperare in un mondo migliore che arriverà quando le in-comprensioni umane legate al linguaggio saranno state spazzate via da una lingua speciale e unica che le comprenda tutte e le renda capaci di comunicare veramente.
Gli studiosi di filosofia del linguaggio e i teorici della comu-nicazione hanno sempre analizzato questo snodo del pensiero e cercato di creare soluzioni-ponte in grado di esorcizzare il vuoto di comprensione esistente tra gli uomini: la teoria del meta-linguaggio in tutte le sue varie coniugazioni da Charles Morris ad Alfred Tarski a Korzybiski è un esempio di questo sforzo ine-sausto di riconciliazione linguistica.