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  • Titolo
  • Sabbia
  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Collana
  • Colibrì
  • Anno
  • 2014
  • Pagine
  • 80
  • Prezzo
  • € 10,00


Prefazione
La poesia di Amerigo Iannacone esige, da parte del lettore, buone dosi d’attenzione, impegno e dedizione, insieme con spirito di complicità e con una certa dimestichezza con la sua vasta e complessa produzione. Per capire veramente la poetica dell’Autore molisano, per compenetrarsi appieno nelle sue riflessioni sovente sottotono, sussurrate a mezza voce, occorre mettere da parte sia la magniloquenza che le istanze della nostra ingannevole persona, o “maschera individuale”. Pregi e difetti da accantonare con giudiziosa umiltà, mantenendo l’animo, tuttavia, ben aperto al confronto con testi dotati d’una sí elevata intensità e profondità di pensiero, al fine di carpirne, valutarne e apprezzarne valore e portata.
Amerigo tutto rammenta, scruta ed analizza – in ogni minimo dettaglio, con una certosina, limpida capacità di sintesi e d’inventariazione –, senza nulla omettere e, soprattutto, facendo tesoro di ciò che l’esistenza gli ha insegnato e donato e tuttora continua a proporgli.
Il suo è, e rimane, un ininterrotto percorso di “formazione”, in un crescendo di meditazioni ed emozioni che le esperienze – spesso dolorose e traumatiche – inesorabilmente hanno rimodellato e quindi trasformato, sí da imporre alla sua forma mentis, intimamente libera da condizionamenti, contegnosi atteggiamenti di moderazione e di riserbo, dove il dubbio – l’incertezza dell’essere – diviene il fulcro (ovvero, l’organon) intorno a cui ruota il suo pensiero ed attraverso il quale, di conseguenza, prendono forma i suoi versi.
Esiste, dunque, un persistente rapporto dialettico, per quanto impercettibile, che regola – a volte sconvolgendola, fino a scompaginarla – l’ispirazione di fondo: c’è la vita, là fuori, che incombe e fortemente strepita ed urla; nel mentre, il mondo interiore di Amerigo macera, soffre, confronta e freme.
È un poetare che richiede, anzi implora, il silenzio. Soltanto dai luoghi incontaminati della memoria, da quelle dimensioni misteriche ed oniriche popolate da ombre a volte rassicuranti e familiari, piú di frequente minacciose ed oscure – «luoghi insignificanti / siti senza storia», osserva il Poeta in Ogni attimo –, è possibile risalire ai tanti interrogativi del tempo presente. Sono domande che, per quanto irrisolvibili, riescono a dare un senso al nostro vivere quotidiano, ai disegni che, pur rivelandosi mendaci, stimolano il nostro sentire ed il nostro spirito critico, esortandoci a non arrenderci e ad andare avanti.
Pure, ricorrono nell’opera frequenti asserzioni che sarebbe errato spiegare come una capitolazione di fronte all’«incancellabile magma di dolore» che, come un «fiume di sabbia» – si legge in Fiume di sabbia –, ci sospinge «verso il nulla».
Uno dei meriti e delle qualità fondamentali di Amerigo Iannacone, accanto al talento poetico e ad una solida conoscenza delle problematiche proprie della letteratura contemporanea, è l’aver saputo prendere atto dei pesanti livelli d’incomunicabilità – il vero cancro della modernità – che minano il nostro sereno rapportarci con il prossimo. Partendo da questa semplice constatazione, egli s’è dimostrato capace finora, non soltanto dal punto di vista strettamente letterario ma anche sul piano della militanza e dell’impegno concreto, di combattere le terribili conseguenze della solitudine e dell’emarginazione dell’artista, mettendo in campo notevoli risorse di altruismo e coraggio.
La presente raccolta “Sabbia” si distingue, dunque, per la ferma e fiera volontà di capire e lottare, andando oltre le mere apparenze. Confessa, ad esempio, Amerigo nella lirica Ponti: «C’incontriamo / ci parliamo ancora / nel mondo iperuranio delle idee / nel sito imperscrutabile dei sogni. / Il dialogo scavalca / il muro imprescindibile dell’oltre, / dialoghi-ponti / con il passato e forse / con il futuro / duro a immaginare.»
L’impenetrabilità del mistero è intesa – con un accento, in parte, sottilmente provocatorio – come l’estremo rimedio, il piú raro e prezioso: una riedizione del leopardiano conato volto ad affratellare ed unire gli uomini, assumendo come coordinate e, nel contempo, come elementi d’aggregazione, le universali ed enigmatiche leggi della sofferenza e del dolore.
C’è, in effetti, in Iannacone una religiosità di fondo, concepita – oserei dire – come sacralità dell’inconoscibile. Questa silloge potrebbe benissimo essere interpretata come una ulteriore evoluzione, una maturazione in fieri e non definitiva – benché priva di certezze ma senza grossi inganni –, tale da comportare la compilazione d’una sorta di lezionario – laico, se vogliamo, al passo con i tempi –, prossimo a quei venerabili libri d’ore che, a partire dal Medio Evo, hanno accompagnato per millenni le tenebrose notti d’un’umanità confusa e alla ricerca di punti fermi. Un asciutto, categorico sequenziario d’inenarrabili velleità, accuse, contenziosi, lamenti, confessioni, omissioni, ingiustizie, gratificazioni, trame, destini, condanne, evoluzioni ed involuzioni…
Allo stesso modo, ma sul fronte opposto, è possibile riscontrarvi un vorticoso ed emblematico campionario di nefandezze ed assurdità, che l’“homo homini lupus” – da Plauto ad Erasmo da Rotterdam, fino a Thomas Hobbes – ancora seguita a perpetrare. Ciò lascia pensare, senza tema di smentite, al profano “Libro di sabbia” che il visionario Jorge Luis Borges realizzò all’insegna d’una nietzschiana, sprezzante e luciferina empietà: sogni, incubi, spettri ed echi, frammisti a carne, volti, luoghi, misfatti…
Sabbia, insomma, quale umanissima e completa registrazione, codice (codex, notare l’etimologia della parola: da caudex, tronco d’albero) – del perpetuo disfacimento del Creato, accompagnato e seguito dal suo portentoso, simultaneo rigenerarsi.
Una “natura naturans” – va ricordata la lectio di Giordano Bruno e, successivamente, quella di Baruch Spinoza – che, nel suo incessante divenire, assume le sembianze piú difformi, fino a quelle, infinitesimali, di granuli volatili ed impercettibili, che evocano e rimandano all’arcano del nulla eterno.
È il prodigio della materia/mater dinanzi al quale noi siamo spettatori muti ed impotenti, e che l’intelletto e la coscienza del Poeta si sforzano in qualche modo d’afferrare, di sedimentare, decantandone tristemente, mirabilmente corsi e ricorsi, flussi e riflussi, sia tangibili che incorporei.
Perché qualcuno ha insegnato che l’immaginazione può essere tragica e vera, assai piú della realtà.

Francesco De Napoli

  • Titolo
  • Quattro autori per quattro medioevi?
  • Autori
  • Buongiovanni, Franchitti, Sarra, Zullo
  • Collana
  • Colibrì
  • Anno
  • 2014
  • Pagine
  • 120
  • Prezzo
  • € 10,50

Introduzione
L’idea di Medioevo nasce con l’Umanesimo italiano, per definire un arco di tempo che si snoda tra la fine del VI e il XV secolo. Da un certo punto di vista possiamo considerare la categoria storiografica di Medioevo pertinente, perché riconosce e custodisce molti elementi di continuità in un lungo periodo; allo stesso tempo però questa etichetta risulta equivoca e ingrata, costringendo il Medioevo alla condizione subalterna di tempo intermedio e di attesa tra l’età antica e l’età moderna. Per altro, rispetto alle due età estreme, il Medioevo risulta un tempo molto più lungo e complesso. La difficoltà per l’Umanesimo a comprendere il Medioevo corrisponde al fatto che in esso la razionalità ha un ruolo di secondo piano, soprattutto nella costruzione del senso della storia e della vita. Questa caratteristica potrebbe per altro costituire un elemento capace di suscitare di per sé interesse dal punto di vista del nostro tempo, segnato da così grandi interrogativi sul significato della razionalità nella storia.
La storiografia letteraria che si dedica ai testi latini scritti da Boezio a Erasmo da Rotterdam mostra una vivacità culturale inattesa. Il Medioevo nasce dopo la guerra di Giustiniano contro gli Ostrogoti di Teoderico, dopo la sua effimera vittoria e dopo il sostanziale prevalere in Italia dei Longobardi sui Bizantini, quando tutto ciò che proveniva dalla tradizione classica e dalla romanità fu messo in discussione, in un profondo rinnovamento della cultura. Da questo momento in poi non è più la razionalità a prevalere, e interruzioni che non si ritenevano possibili si verificano nella realtà. La rottura con la cultura classica non è, però, assoluta e ciò è rivelato dal fatto che il latino rimane la lingua della cultura e i testi antichi continuano a essere letti e trasmessi, per quanto in un contesto intellettuale e spirituale del tutto nuovo, segnato dall’idea che vi è qualcosa di ulteriore alla ragione che regola i fatti storici e la natura, qualcosa che sarà rappresentato eminentemente dalle forme della cristianità.
Nello studio del Medioevo è possibile individuare quattro periodi, ognuno dei quali può essere introdotto con lo studio di un autore ritenuto particolarmente rappresentativo della temperie culturale dell’epoca di appartenenza. La prima fase (secoli VIII-IX) è successiva all’apertura di Gregorio Magno nei confronti dei Germani. Egli è il primo a dare un’interpretazione di un periodo confuso e a percepire la possibilità di senso di una storia che sembra non averne. La figura maggiormente rappresentativa di questa nuova visione storiografica, sulla scia di Gregorio, è il monaco anglosassone Beda il Venerabile, autore dell’Historia ecclesiastica gentis Anglorum, la prima storia degli Angli. Tra i secoli X-XI, con la crisi dell’impero carolingio e l’uso ideologico della tradizione germanica (che nuovamente cerca il mito dell’Impero), avviene un cambiamento. Sul piano letterario, la storiografia lascia spazio alla lirica, nasce una nuova sensibilità letteraria, emergono passioni e sentimenti, l’attenzione è rivolta al singolo individuo e la letteratura si focalizza sulla natura dei sentimenti umani. Paradigmatica di questa fase è la personalità di Letaldo di Micy, agiografo e autore in particolare del Whitin Piscator. Nei secoli XI-XII la riflessione filosofica di Anselmo di Aosta, vescovo di Canterbury, dà una nuova dignità alla ragione dell’uomo, che si rivela uno strumento utile per dimostrare l’esistenza di Dio e la verità della tradizione cristiana. In questo riconoscimento delle possibilità della ragione Dio si mostra vicino all’uomo e compare nella figura dell’amicizia. Da ciò deriva quello che è stato chiamato il Rinascimento del secolo XII, con una rinnovata fiducia nel linguaggio e nelle possibilità dell’uomo. Eloisa, nelle lettere ad Abelardo, porta alle estreme conseguenze il razionalismo anselmiano, mostrandone la forza e le criticità: la persona si sente ora capace di giustificare interamente se stessa e i propri atti. Il linguaggio che aveva trovato in sé una traccia divina, trasforma gli atti umani che narra, ponendoli in relazione all’intenzione di chi li compie e questa relazione è decisiva nel giudizio. La letteratura si impegnerà a scrivere storie nelle quali l’unico metro di giudizio è il protagonista stesso, le sue caratteristiche, i suoi amori e qui la letteratura europea scopre il romanzo.

Nei secoli XIII-XIV, con Francesco d’Assisi, nasce una nuova concezione di Dio: non è la ragione a dimostrare che Dio esiste, ma il silenzio di Dio, che lascia l’uomo libero di compiere le sue scelte. Il Dio forte della razionalità, diventa il Dio debole che ha accettato di annientarsi calandosi nell’umanità, non nel segno dell’evidenza ma della insignificanza: Dio mostra la sua onnipotenza calandosi nel nulla, accettando ciò che è del tutto altro da lui; per avvicinarsi a questo Dio, quindi, bisogna ugualmente rinunciare a tutto, fino a perdere la propria identità. In letteratura a questa nuova idea divina corrisponde una progressiva diffusione del volgare. La perfezione della persona corrisponde sempre per il Medioevo alla consapevolezza della propria vicinanza a Dio e dopo Francesco questa vicinanza si esprime compiutamente non nella lingua delle scuole, della tradizione, del potere, non nella lingua che teneva in comunicazione tutto il mondo europeo, ma in una lingua debole, all’inizio della sua storia. La lingua madre diviene la lingua della perfezione: la storia letteraria del Mediolatino qui sostanzialmente si chiude.

  • Autore
  • Athanase Vantchev de Thracy
  • Titolo
  • Dia digno de la vorto
  • Collana
  • Stella Verde
  • Pagine
  • 96
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 12,00

Dia digno de la vorto

MI ĉiam admiris la dolĉan kaj brilan klarecon de la poezio kaj la printempan roson glimantan sur la kalikoj de la vortoj. Mi amis, ekde mia infaneco, la nekredeblan kompleton de iuj versoj kaj ilian plenkompletan profundon. Adole-ska, mi intuiciis mian mizeron kaj tiun de la homoj ĉirkaŭ mi. Bal-daŭ mi ekkonsciis pri la nenio, kiu alkroĉiĝas al niaj korpoj, sen iu utilo. Mi sufokiĝis antaŭ la perspektivo de kompatinda ekzistado, en la eto de la deziroj kaj la malpleno de modestaj kontentigoj. Ĉu mi devis vivi en tiu minerala silento kiu ŝvebis en la ĉirkaŭa aero kaj trankvile resti komplico de la malesto de sankta pasio? Mi revis lumajn flagojn kaj ĝojajn oriflamojn. Mi volis esti la kanto de la najtingalo, kiu per sia voĉeto, aŭrora glavo, fendas la profundon de la ombroj. Mi deziris palpi la tempon sciante, ke neniam mi estos vidanta ĝian vizaĝon.
Mia entuziasma animo puŝis min ami la belon en ĉiuj ĝiaj for-moj, en ĉiuj ĝiaj manifestadoj. Memvole mi aprecis la netan ele-ganton de la arboj kaj de la floroj, la fantazion de la insektoj ĉiam moviĝantaj, ilian ĝojan akcepton de la ekzistado. Mi baldaŭ ko-mencis plejami la silentan saĝon de ĉio, kio estas humila kaj vera, la surdan ekzaltadon de la animoj markitaj de la mistika signo de la abnegacio, la senmovajn vorticojn de la puraj koroj.
Mi baldaŭ komprenis, ke la interna bruo, kiun lasas gravuritaj la eventoj en nia karno estas ege pli grava ol la eventoj mem. Mi devis eduki en mi mem sagacan kaj klarvida gardadon. Mi lernis naĝi en la revoj. Estas tiel ke mi spertis la mirindaĵojn de la profundoj kaj la sencesajn miraklojn de la vivo. Mi lasis miajn ĉagrenojn hejme, en mia ĉambro, ĉiam orda por iri serĉe al la poezio, tiu senlima maro plena je suno, sonoj kaj nesupozitaj trezoroj. Ĝi kaŝis en sia sino la silenton klaran kaj sen iluzioj, kiu povis levi min al la regno de la vero. Ĝi enhavis en siaj ĉiam moviĝantaj akvoj la puran esencan malĝojon tiel proksiman al la eterna ĝojo, kiu malkaŝas al ni la teorion, la vidon de Dio.

Breve estratto dall'Introduzione

  • Titolo
  • Scuola di poesia - Nicola Napolitano a cento anni dalla nascita
  • Autore
  • AA.VV.
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 113
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00


L’uomo
Vado su internet per cercare riscontri autorevoli ai miei ricordi sull’intellettuale Nicola Napolitano e resto frastornato. Compaiono varie omonimie e la prima è di un personaggio storico di due secoli or sono, soprannominato Il Caprariello (1838-1863), un brigante italiano attivo nell’avellinese che, dopo essere cresciuto come pastore di capre, è stato fucilato venticinquenne dai bersaglieri nella sua Nola. E allora con l’occasione di questa pubblicazione rievocativa nasce un obbligo doveroso verso il “nostro” protagonista: fare i dovuti inserimenti su Wikipedia, l’enciclopedia libera on line, perché compaiano la sua biografia e la sua bibliografia.
Nicola Napolitano è nato a Casale di Carinola, nella Terra di Lavoro, al di là della riva sinistra del fiume Garigliano il 17 gennaio 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale. Quando lui nasce la provincia di Caserta si estendeva a nord, nell’entroterra, sino al confine tra i comuni di Arce e di Ceprano e sulla costa sino a Monte San Biagio, alle porte di Terracina. Nuovi confini amministrativi disegnati dal fascismo che hanno ridimensionato la provincia casertana ed esteso il Lazio più a sud sino al corso del fiume Garigliano non hanno spezzato il legame culturale e storico esistente e che il parlamentare sessano Franco Compasso chiamava “civiltà aurunca”.
Nicola Napolitano nasce in una famiglia di agricoltori, suoi genitori sono Giuseppe (nome che lui, rispettoso delle tradizioni, darà al figlio primogenito) e Carolina Rossi. Sino ai ventidue anni lavora la terra, lunghe le interruzioni nei suoi studi per l’immatura morte del padre nel 1927, è lo stesso anno in cui Benito Mussolini decide di sciogliere la provincia di Terra di Lavoro, accorpando gran parte del suo territorio e le Isole Ponziane alla provincia di Napoli, alcuni comuni nei dintorni di Piedimonte e Alife vengono ripartiti tra le province di Benevento e Campobasso, mentre il circondario di Sora e quello di Gaeta passano alla provincia di Roma. Ma Nicola, solo tredicenne, è preso soltanto dall’impegno di aiutare la famiglia di appartenenza. Quando aveva appena ripreso a frequentare la scuola giunse la chiamata alle armi per la Campagna d’Africa; nel 1935 l’Italia fascista vuole un posto al sole e Nicola diciannovenne parte per l’Abissinia, almeno può aiutare ancora la famiglia con la sua modesta paga da militare. Successivamente il richiamo per la seconda guerra mondiale e l’invio in Grecia.
L’armistizio lo coglie di stanza sull’isola di Creta, i Tedeschi lo fanno prigioniero e lo deportano in Germania. È solo un numero nel campo di prigionia di Grafenwohr, una località del circondario di Neustadt an der Waldnaab, Alto Palatinato, nel Land di Baviera. Oggi Grafenwohr è conosciuto come un tranquillo paesino di meno di settemila anime, ma allora è un luogo di dolore e sofferenza, dove si pativa d’inverno il freddo e sempre la fame, le malattie per deperimento, gli oltraggi alla propria dignità di uomo e di soldato. Frammentario e difficile il cammino per tornare a casa, come, d’altronde, è avvenuto per tutti i nostri reduci dalla Germania. Da sergente a Pavia conoscerà una ventenne con la quale, lui introverso, si aprirà come non mai e racconterà questo dolce incontro in un libro pubblicato solo postumo, Disegnare il tuo nome. Ripresi finalmente gli studi, Nicola il 3 agosto 1946 a trentadue anni consegue l’agognata laurea in lettere all’Università di Roma e l’anno dopo a Castelforte inizia la sua attività di docente. Sono gli anni della ricostruzione e non appena ha un reddito, se pur modesto, si sposa con Carmelina Rotunno e ha da lei tre figli Giuseppe, Valerio e Carolina. Dopo tredici anni di dura gavetta nel 1960 diviene infine preside dell’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “G. Filangieri” di Formia e nel 1978, l’anno successivo al suo pensionamento, fonda il Liceo Linguistico “W. Shakespeare” di Formia che dirigerà sino al 1983 e anche come preside nell’anno scolastico 1991-1992.
Come dirigente scolastico si fa apprezzare per l’equilibrio e la padronanza del ruolo; sa capire i suoi allievi, dialogare con i genitori, progettare programmi, costruire soluzioni. È fondatore e segretario della Sezione di Formia dell’Association Européenne des Enseignants, dal 1962 al 1978 è stato anche componente del Comitato Centrale della stessa associazione. Insieme agli amici del Circolo Letterario “I Girasoli” è stato tra i fondatori del Premio Letterario Suio Terme e componente della giuria. In tutta la sua vita scrive incessantemente, la sua penna è un fiume in piena, la sua mente e la sua anima hanno bisogno di dare libero sfogo ai pensieri, ai sentimenti e alle sensazioni. Le sue poesie e prose sono incluse in numerose antologie, anche per ogni indirizzo scolastico. Sue poesie sono state pubblicate e tradotte in tutto il mondo: Stati Uniti d’America, Bra-sile, Francia, Grecia, Svizzera, Spagna, Romania. In lingua spagnola è stato tradotto da Carlos Vitale. Riceve numerosi e prestigiosi premi, nel 1982 gli è conferito il Premio della Cultura dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, si spegne a Formia ottantanovenne il 26 novembre 2003.
Il figlio Giuseppe, scrittore e poeta anche lui, raccoglie tutte le sue opere, anche quelle inedite, e lavora a diffonderle e soprattutto a preservarle. Nicola Napolitano è stato anche protagonista di ricerche per tesi universitarie e nella Biblioteca Comunale di Formia si sta allestendo una sezione a lui dedicata. Anche la consorte Carmelina Rotunno, in vita a volte “schiacciata” dalla forte personalità del coniuge, lascerà ai posteri poesie estremamente belle e struggenti. La cognata Licia, sorella di Carmelina, pubblica un libro di memorie delle sue esperienze belliche, assolutamente originali, che meritano il serio approfondimento degli storici. Napolitano, una famiglia di intellettuali giunta alla terza generazione, in quanto anche la consorte di Giuseppe e la loro figlia Gabriella, ancora adolescente, dimostrano grandi sensibilità e capacità intellettuali.
Chi scrive ha conosciuto Nicola Napolitano, frequentandolo e stimandolo grandemente non solo come intellettuale, ma anche come uomo. Desidero concludere questa mia memoria ricordando una serata speciale. Da vice presidente e consigliere delegato dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Minturno-Scauri supplii alcuni anni alla chiusura della Stagione Teatrale presso l’Area di Minturnae con appuntamenti alternativi nelle varie piazze di Minturno. A una serata, che si tenne dopo il tramonto, d’estate nella Piazza Santa Albina di Scauri, invitai come protagonista Nicola Napolitano. Furono ore deliziose, serene e coinvolgenti. Il nostro protagonista calamitò l’attenzione di tutti i presenti, deliziandoli, e rimasi stupefatto di come declamava le sue poesie a memoria, inserendole in un coinvolgente contesto storico, anche biografico. Una serata magica sotto le stelle, difficilmente imitabile. Sono certo che nei Campi Elisi ritroverò Nicola Napolitano intento a comporre nuove liriche e certamente organizzeremo, grazie alla disponibilità degli Angeli Celesti, nuove serate in cui la poesia sarà protagonista e, ancora una volta, nutrimento per le nostre anime.

Marcello R. Caliman