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  • Titolo
  • Uomini e bestie
  • Autore
  • Luigi Feliziani
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 152
  • Prezzo
  • € 12,00

L'ispirazione boccaccesca che si percepisce nella raccolta di Luigi Feliziani, laziale di Pietraforte, in provincia di Rieti, oltre che nel topos letterario della burla, della trovata a sorpresa presenti più o meno in ogni pagina, è – per così dire – confessato apertamente in quelle finali, dove sei personaggi (nel Decamerone sono dieci), alle prese non con un’epidemia di peste da cui difendersi, ma con la necessità di darsi un minimo di acculturazione di base, si offrono a narrare, ciascuno, una novella. Il risultato è una sequenza di situazioni grottesche, paradossali, estreme al punto di tirarsi fuori da ogni possibile approccio col reale, anche se del reale vogliono essere proiezioni metaforiche. E in ciascuna di esse per motivi ispiratori si evidenziano – rimesse talvolta a immagini e gergo di una comicità, eufemisticamente parlando, grossolana – storie di povertà e di fortune, di avarizia e di prodigalità, di moralità e dissolutezze, di usura e generosità, di monete false e zecchini autentici; storie, infine, di corna strutturate “a incrocio”, e tuttavia risoltesi nei confini della pura intenzionalità.
Il lavoro, sul piano dell’impianto formale, presenta due volti, dei quali il primo ne connota la prima metà, dove si riscontra un frequente uso delle perifrasi, con l’intento di sorprendere poi il lettore con l’aprosdo-keton umoristico tenuto in serbo. E accanto alle peri-frasi, un dilungarsi delle trame in vicende che esulando dal progetto iniziale determinano una diluizione del messaggio in prolissità.
Quel che invece è elemento distintivo del rimanente narrato si può riepilogare in una essenzialità narrativa che conferendo all’umorismo velocità e brio ne rende ben gradevole la fruizione.
La cornice storica appena percettibile, ma ininfluente nel compiersi delle singolari vicende, è quella che si colloca tra gli anni venti/quaranta dello scorso secolo. Quella geoetnografica si muove tra entroterra rurale (contadini, pastori, cacciatori, artigiani etc.) e ambiente cittadino con qualche sconfinamento transoceanico, anch’esso narrativamente marginale.
La finalità moralistica delle novelle è riepilogata, al concludersi di ciascuna, da motti e sentenze tratte dalla tradizione latina, dall’età classica a quella umanistico-rinascimentale.

Dalla nota introduttiva di Aldo Cervo

  • Titolo
  • Uomini e bestie stravaganti
  • Autore
  • Luigi Feliziani
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 208
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 16,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-84-6


L’ispirazione boccaccesca che si percepisce nella raccolta di Luigi Feliziani, laziale di Pietraforte, in provincia di Rieti, oltre che nel topos letterario della burla, della trovata a sorpresa presenti più o meno in ogni pagina, è – per così dire – confessato apertamente in quelle finali, dove sei personaggi (nel Decamerone sono dieci), alle prese non con un’epidemia di peste da cui difendersi, ma con la necessità di darsi un minimo di acculturazione di base, si offrono a narrare, ciascuno, una novella. Il risultato è una sequenza di situazioni grottesche, paradossali, estreme al punto di tirarsi fuori da ogni possibile approccio col reale, anche se del reale vogliono essere proiezioni metaforiche. E in ciascuna di esse per motivi ispiratori si evidenziano – rimesse talvolta a immagini e gergo di una comicità, eufemisticamente parlando, grossolana – storie di povertà e di fortune, di avarizia e di prodigalità, di moralità e dissolutezze, di usura e generosità, di monete false e zecchini autentici; storie, infine, di corna strutturate “a incrocio”, e tuttavia risoltesi nei confini della pura intenzionalità.
Il lavoro, sul piano dell’impianto formale, presenta due volti, dei quali il primo ne connota la prima metà, dove si riscontra un frequente uso delle perifrasi, con l’intento di sorprendere poi il lettore con l’aprosdo-keton umoristico tenuto in serbo. E accanto alle peri-frasi, un dilungarsi delle trame in vicende che esulando dal progetto iniziale determinano una diluizione del messaggio in prolissità.
Quel che invece è elemento distintivo del rimanente narrato si può riepilogare in una essenzialità narrativa che conferendo all’umorismo velocità e brio ne rende ben gradevole la fruizione.
La cornice storica appena percettibile, ma ininfluente nel compiersi delle singolari vicende, è quella che si colloca tra gli anni venti/quaranta dello scorso secolo. Quella geoetnografica si muove tra entroterra rurale (contadini, pastori, cacciatori, artigiani etc.) e ambiente cittadino con qualche sconfinamento transoceanico, anch’esso narrativamente marginale.
La finalità moralistica delle novelle è riepilogata, al concludersi di ciascuna, da motti e sentenze tratte dalla tradizione latina, dall’età classica a quella umanistico-rinascimentale.

Aldo Cervo

Foglio Volante n°7 Anno XXXI Luglio 2016


Fonetismo ed esperanto

Spesso a noi italiani, parlando con gli stranieri, capita di dire – nell’intento di elogiare la nostra lingua – che l’italiano come si scrive cosí si legge. Sarebbe meglio se parlassimo dell’eufonia dell’italiano, se dicessimo che è una lingua eufonica, bella, tra le piú belle, se non la piú bella del mondo. Soprattutto per la fonetica, con un giusto equilibrio tra vocali e consonanti. E poi l’italiano ha un retroterra culturale che altre lingue non possono vantare. A partire dal latino, di cui la lingua italiana è figlia, lungo la storia di una dozzina di secoli da quel Sao ka kelle terre del X secolo, attraverso il volgare della Divina Commedia, e poi le opere letterarie di Petrarca, Ariosto, Tasso, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni e le altre centinaia e centinaia di autori che hanno lasciato opere memorabili nella storia della letteratura universale.
Dire che una lingua come si scrive cosí si legge (o viceversa) è come dire che una lingua è fonetica, vale a dire che a ogni fonema (suono semplice) corrisponde un grafema (segno grafico) e viceversa: “casa”, quattro fonemi, due suoni vocalici e due consonantici, quattro grafemi; “libro”, cinque fonemi, cinque grafemi. In questo senso l’italiano è molto piú vicino al fonetismo di quanto lo siano altre lingue. In francese, si scrive “eau” (tre grafemi), si legge “o” (un fonema); in tedesco, si scrive “deutsche” (otto grafemi), si legge “doic’” (quattro fonemi); in inglese si scrive “food” (quattro grafemi) e si legge “fud” (tre fonemi); viceversa, si scrive “I” (un grafema) e si legge “ai” (due fonemi). E si potrebbe continuare all’infinito.
Ma anche nella fonetica italiana ci sono molte irregolarità. Solo qualche esempio: c’è un grafema a cui non corrisponde alcun fonema (la H); ci sono grafemi a cui corrispondono fonemi diversi (C e G, che possono essere palatali, come in “cena”, “gente” e gutturali, come in “cane”, “gatto”); c’è un fonema che può essere rappresentato da quattro grafemi diversi: C(h), K, Q e un pezzo di X; c’è un grafema (X) a cui corrispondono due fonemi (KS); ci sono fonemi come “gl” di “aglio” e “gn” di “gnocco”, rappresentati da due grafemi (digramma) e cosí via.
La nostra grammatica non è particolarmente facile, ma è anzi piuttosto complessa. In particolare per i verbi. Proviamo a esaminarli: esistono i tempi presente, imperfetto, passato remoto, futuro semplice, passato prossimo, trapassato prossimo e futuro anteriore, per l’indicativo; poi c’è il modo congiuntivo con quattro tempi, il condizionale con due. Per ogni tempo ci sono sei desinenze, una per ogni persona (prima, seconda e terza, singolare e plurale), e poi l’imperativo, il gerundio, l’infinito, il participio. Se proviamo a calcolare il numero delle desinenze, ne possiamo contare non meno di una ottantina, che dobbiamo moltiplicare per tre, ovvero per le tre coniugazioni -are, -ere, -ire, e che diventano quindi qualcosa come duecentocinquanta. E quando abbiamo imparato tutte le desinenze, ci accorgiamo che ne abbiamo imparato solo una parte, perché gran parte dei nostri verbi è irregolare: “andare”, non fa “io ando, tu andi, egli anda”, ma “io vado, tu vai, egli va”, dove è addirittura la radice a cambiare; il verbo “avere” non fa “io avo, tu avi, egli ava”, ma “io ho, tu hai, egli ha”; il verbo “essere”, non fa “io esso, tu essi, egli essa”, ma “io sono, tu sei, egli è”; il presente del verbo “morire” non è “io moro”, ma “io muoio”; del verbo “finire” non è “io fino”, ma “io finisco”; dal verbo “dire”, abbiamo “dico”; da “fare”, “faccio”; da “dovere” abbiamo “io devo, noi dobbiamo”; il participio passato di “esigere” è “esatto” e non “esigiuto”; il participio passato di “espellere” è “espulso”; il participio passato di “dirimere” non esiste; eccetera eccetera. Verbi perfettamente regolari in italiano non sono che una minoranza.
Ma in tutte le lingue esistono eccezioni e controeccesioni, casi e sottocasi e nessuna lingua è rigorosamente fonetica. Tutte le lingue eccetto una: l’esperanto. L’esperanto è rigorosamente fonetico: a ogni fonema corrisponde sempre un grafema e viceversa. E non esistono eccezioni. La grammatica si compone di sedici sole regole, senza alcuna eccezione. Le desinenze verbali sono in tutto sei: -as (presente), -is (passato), -os (futuro), -us (condizionale), -u (imperativo), -i (infinito). Ecco un esempio: diri (dire), diras (presente indicativo, per tutte le persone: dico, dici, dice, diciamo, dite, dicono), diris (passato: dicevo, dissi, ho detto), diros (dirò, dirai, ecc.), dirus (direi, diresti, ecc.), diru (imperativo: di’, dite).
Provare per credere, mettendo da parte i pregiudizi.

Amerigo Iannacone


Ritratto

Garza di nebbia
avvolge il mio pensiero,
un accenno d’ala
nel canto d’uccello,
che si erge e rifluisce
tra gli argini placidi
nell’incontro segreto d’altro mondo.
C’è il ricordo di uno scorrere
che va sotto arcate d’acqua,
con onde lievi nell’ora
che narra la storia di una vita,
e poi sarà quel che sarà.


Adriana Mondo
Reano (Torino)