Foglio Volante n°2 Anno XXXII Febbraio 2017
La fanciullesca gioia di Diego Valeri
Diego Valeri nacque nel 1887 a Piove di Sacco (Padova) e visse prevalentemente nel Veneto, tra Padova e Venezia. Insegnò nei licei e fu poi professore di Letteratura francese e di Letteratura italiana moderna e contemporanea nell’università di Padova.
Nel 1943, dopo l’8 Settembre fu condannato per antifascismo, ma riuscí a riparare in Svizzera, da cui ritornò alla fine del conflitto.
Tranne questo doloroso episodio, la vita di Valeri trascorse, senza accadimenti rilevanti, tutta nella scuola; e come egli stesso ha detto, «la scuola, si sa, non è un luogo di avventure drammatiche o romanzesche». Ma ha anche confessato di non essersi mai pentito, in tanti anni, di aver scelto «l’umile lavoro scolastico», preferendolo ad altri piú redditizi e meno faticosi, aggiungendo di aver lavorato sempre con piacere.[1]
Come poeta, Valeri si è tenuto lontano dalle mode. La silloge Poesie vecchie e nuove, del 1930, verrà ristampata sino al 1952; il volume Poesie fu pubblicato nel 1962 e Poesie scelte negli Oscar Mondadori, nel ’76; non vanno dimenticate le poesie per bambini e ragazzi de Il campanellino - S.E.I. Torino, 1928 e 1951.
La poesia di Valeri si presenta facile, sebbene soltanto in apparenza; essa s’è mantenuta «aliena dalle corrosioni intellettualistiche e dalla poesia al quadrato», come ha rilevato Pier V. Mengaldo.
Il Nostro ha sentito l’influsso di Alcyone, opera in cui D’Annunzio ha gioito per il ritorno inaspettato, nella sua anima; della lontana infanzia ed ha definito il fanciullo rinato – anche se per poco – in lui, e cosí amato, «intimo fiore dell’animo... fiore della divina arte innocente...»
Come il D’Annunzio alcionio, Valeri ha trovato rifugio nella natura.
Il Nostro, avendo saputo conservare nell’uomo maturo un’antica, serena meraviglia, ha accolto a lungo dentro di sé, il “fanciullino” pascoliano, sempre cosí curioso e capace di freschi stupori.
Valeri è andato a ricercare le minute sorprese che può riservare la natura, ricevendone una candida letizia: «Oh, la mia vecchia gioia fanciulla!»
A lui non è sfuggito, ad esempio, il luccicare d’un coccio abbandonato sulla terra bruna d’un orto. S’è incantato, aggirandosi in piazza, tra le bancarelle delle erbivendole, a contemplare «i giochi magici del sole» tra gli ombrelloni di nuovo aperti dopo un acquazzone. In uno squallido vicolo, il suo sguardo s’è rallegrato alla vista delle rose, che, sul davanzale d’una finestra, «ridevano come spose / preparate per la festa». Il poeta, proprio come un fanciullo, ha tante volte trasfigurato la realtà. Una colomba «tutta nitida e bionda», che risale lentamente lo spiovente d’un tetto, gli è sembrata «una dolce regina / di Saba / che rimonti le silenziose scale / della sua fiaba»; e cosí, in un canale di Venezia, un barcone pieno di zucche e di cipolle, lo ha visto splendere «fastoso come un bucintoro»...
Nella poesia dal titolo Annunciazione[2] Valeri presenta un ragazzino che, in una domenica mattina di primavera, se ne va gironzolando «con la sua cara e strana felicità segreta / d’andar e di guardare: prendere un po’ di gioia / da tutto, o un po’ di pena, vagando senza meta». Ed è proprio quello che lui stesso è solito fare...
In tal modo il fanciullo rivolge lo sguardo a dei vasi fioriti a una finestra; a un improvviso volo di colombi, al chiaro viso d’una ragazza, a un cane, brutto nell’aspetto, ma dagli occhi soavi
Quasi senza accorgersi, egli arriva in cima ad un colle, dove sorge una chiesetta. Il panorama che si gode da lassú è vastissimo e luminoso.
Il fanciullo, che si ferma assorto, d’un tratto, avverte dentro di sé, per un attimo, ma un «attimo immenso», come un annuncio per lui del tutto nuovo... E lo interpreta cosí il poeta: «Ecco: e nel cuor fanciullo nasce improvviso un senso / d’universo e d’eterno, e un nuovo amore pio della vita.»
Valeri si spense quasi novantenne a Roma, nel 1976.
Franco Orlandini
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[1]Dall’Antologia popolare di poeti del Novecento, a cura di Masselli-Cibotto, Vallecchi, 1973.
[2]Dalla raccolta Ariele, 1924, poi confluita in Poesie vecchie e nuove.
Appunti e spunti
Annotazioni linguistiche
di Amerigo Iannacone
Lenzuoli e lenzuola
Nella nostra bella e capricciosa lingua ci sono parole che hanno due distinti plurali con due diverse accezioni, tra le quali a volte non è facile districarsi, perché ogni vocabolo e ogni forma del vocabolo ha sue proprie peculiarità. Esaminiamo qualche caso.
“Grido” al plurale può fare “grida” e “gridi”: le grida sono dell’uomo, i gridi degli animali o anche dell’uomo se isolati o comunque non considerati nel loro susseguirsi. “Urlo” al plurale può fare “urli” e “urla”. Stessa cosa che per “grido”? Sarebbe troppo facile. “Gli urli”, dicono i vocabolari, è forma singolativa, cioè forma che oppone l’individuo alla massa (opposto a collettivo), come per es. frutto è la forma “singolativa” rispetto a frutta e la forma “singolare” rispetto a frutti.
“Braccio”, semplificando, al plurale fa “braccia” se si intendono la due braccia umane, “bracci” se si intendono p. es. i bracci di un lampadario, di giradischi e simili, o bracci meccanici di macchine come una gru, un escavatore e sim. Ma anche i “bracci” umani, se presi singolarmente, p. es. “tutti i bracci sinistri dei ragazzi”.
Il plurale normale di “filo” è “fili”, mentre “le fila” ha valore collettivo e in locuzioni particolari, es.: “Ha in mano lui le fila della congiura”.
Il plurale di “calcagno” è “i calcagni” in senso proprio e “le calcagna” in senso figurato.
Il plurale normale di “lenzuolo” è “lenzuoli”, mentre il plurale “lenzuola” indica il paio che si stende sul letto. Molti – sarei tentato di dire tutti – usano erroneamente “lenzuola” per tutti i casi e non solo per la coppia.
Un po’ di anni fa, eravamo alla fine degli anni Ottanta, scoppiò uno scandalo che fu chiamato delle “lenzuola d’oro” e riguardava le forniture di biancheria per i treni notturni, ovvero i lenzuoli per le cuccette e i vagoni letto, che vennero pagati a prezzi gonfiati e fuori mercato. Raccontò Gaetano Afeltra, allora collaboratore delle pagine culturali del Corriere della Sera, che lui mandava i pezzi al giornale scrivendo “lenzuoli d’oro” e gli stenografi (sì, all’epoca c’erano ancora gli stenografi) gli correggevano inesorabilmente “lenzuola d’oro”. E in effetti il caso rimase con il nome di “scandalo delle lenzuola d’oro” e non “dei lenzuoli d’oro”. Il plurale “lenzuola” è tanto diffuso che se uno usa la forma “lenzuoli”, in qualunque caso, viene percepito come un povero ignorante.
È morto Tullio De Mauro, amico dell’esperanto
Il 5 gennaio scorso è morto a Roma Tullio De Mauro, linguista di chiara fama e da molti decenni amico dell’esperanto. Aveva 85 anni, essendo nato a Torre Annunziata nel 1932. È stato anche Ministro della Pubblica Istruzione, nel 2000-2001, col Governo Amato II.
Altri hanno illustrato e illustreranno i suoi meriti scientifici. Noi vogliamo ricordare i numerosi testi in cui si è espresso favorevolmente all’esperanto, a partire dalla sua introduzione alla edizione moderna del Manuale di Esperanto di Bruno Migliorini negli anni ’90 del secolo scorso.
De Mauro riteneva che l’esperanto potesse essere usato con profitto a livello europeo. Per usare le sue parole: «Una comune lingua senza base etnica definita può essere (come già è tra gli esperantisti) una chiave facilitante, transglottica, dei sempre piú necessari rapporti tra culture. E, in molti casi (redazione di testi e codificazioni di rilievo internazionale), potrebbe assumere una importante funzione di riferimento giuridicamente primario e nazionalmente neutro. Si pensi alla complessa esperienza in atto nell’Unione Europea, su cui si è soffermato da ultimo Claude Piron (Le dèfi des langues. Du gauchis au bon sens, Parigi 1994)».
Lo stesso favore per l’esperanto De Mauro ha ribadito in una delle sue ultime presentazioni pubbliche, il 15 novembre scorso, intervenendo ad una giornata in onore di Renato Corsetti all’Università di Roma.
Il poeta e Dio
(o il poeta è Dio?)
A Dio, solo il poeta è somigliante.
Non si dice di Dio ch’è creatore?
e del poeta che anche lui crea?
A fare l’uno dall’altro distante
c’è che il poeta muore.
Coreno Ausonio, 24/7/2016
Tommaso Lisi