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  • Titolo
  • Il coraggio di vivere
  • Autore
  • Adriana Panza
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 192
  • Prezzo
  • € 15,00

In pensione da un bel po’, Adriana Panza non vuole dimenticare la sua vita da maestra. In realtà continua a raccontare la sua vita, perché ne ricorda tanti episodi, anche lontani, e pensa che possa servire (non soltanto a lei, se non altro per mettere ordine in quell’ingombrante armadio che è la sua memoria) a far riflettere altri, oggi che tutto è veramente piú facile e sembra invece addirittura difficile a qualcuno che (si direbbe con un’espressione del secolo scorso) ha la mangiatoia troppo bassa, e comoda, quindi, per prendere quello che gli serve.
Raccontando la sua vita, Adriana offre un modello di confronto che potrà pure apparire datato, specie quan-do rievoca la sua lunga permanenza in Africa (“la mia Africa”, come la chiama lei), ma è certo ricco di stimoli, se appena si fa attenzione alle componenti umane di quel modello d’esistenza. Tempi duri, quelli della Soma-lia degli anni sessanta-settanta del Novecento, e dell’Ita-lia pure, specie quella meridionale, che appena cominciava ad uscire dal periodo buio culminato nella Seconda Guerra Mondiale. Si stava un po’ meglio di prima, certo, ma i piú avveduti facevano comunque attenzione a non sprecare. Una famigliola del ceto medio poteva cominciare a concedersi un piccolo lusso, un’auto nuova, un viaggio.
E qui ritorna la maestra: come in altri suoi libri, Adriana Panza alterna la narrazione in prima persona degli eventi alla descrizione storica e geografica, e an-tropica e culturale, dei luoghi in cui quegli eventi si so-no svolti, e delle persone con le quali sono stati condivi-si. Ogni occasione è buona per una digressione storica, scientifica, geografica... Una città, un popolo, un edifi-cio, un personaggio storico, un paesaggio africano, un animale esotico, tutto si può prendere a pretesto per una piccola lezione – come se lei fosse ancora a scuola, come se avesse sempre davanti una scolaresca da interessare, da colpire, da stupire. Il lettore viene così guidato in una specie di viaggio d’istruzione, entrando in una enciclopedia condensata, in un fantastico atlante storico-geo-grafico ricco di puntine colorate.
L’autrice di queste memorie private, “tra storia e vi-ta” (Tra storia e vita è il titolo di un altro suo libro simile a questo), vuole proprio sottolineare quanto le vicende familiari siano determinate dal corso generale degli eventi, e insieme questi, i grandi fatti che fanno la Storia con la maiuscola, devono comunque tener conto dei tanti fatterelli della gente comune. La vita di una perso-na non è mai solo la sua, così la storia di un Paese è la somma di tante vite, e alla fine si deve guardare avanti e indietro al tempo stesso, e di lato anche, se si vuol cre-scere sicuri, se si vuole provare a costruire su terreno stabile.
Gli anni vissuti in Somalia – già lo sappiamo, se di Adriana abbiamo letto altre storie – furono particolar-mente intensi e ricchi di soddisfazioni (nonostante il terribile lutto da cui parte in quest’occasione la cronaca familiare della nostra autrice, sconvolta per la perdita di marito e figlioletto in un incidente di montagna). Figlia di un benemerito della cultura e della divulgazione cul-turale, in un Paese arretrato e privo di identità linguisti-ca, Adriana maestra in terra straniera si trova infatti lei stessa a combattere per la crescita dei suoi piccoli allie-vi. E dedica loro una passione moltiplicata dalla man-canza di un figlio proprio.
I primi radicali programmi governativi di “rifonda-zione” delle strutture economico-sociali della Somalia iniziarono infatti, solo nel 1970, dopo che il Paese si era costituito in Repubblica Socialista, poiché il nuovo regi-me si pose come obiettivi primari, il raggiungimento dell’autosufficienza attraverso l’adozione di tecniche adatte alle condizioni della società locale. Molto interes-sante, ad esempio, è l’osservazione che riguarda la poe-sia – essendo l’autrice per ovvi motivi attratta da questo argomento –. La poesia, nella tradizione somala, rappresenta molto piú che una semplice forma di espressione artistica: essa dà corpo e formulazione all’intero complesso di valori che caratterizzano la cultura e la storia della Somalia.
Accurate, di rilievo, sono tutte le digressioni storiche e antropiche, nelle quali la maestra Panza sciorina la sua conoscenza professionale e l’abilità comunicativa che segnava le maestre di una volta. Notevoli soprattutto le precisazioni su fatti e personaggi che conosciamo, magari dalla Bibbia, come la quasi mitica regina di Saba. Il racconto in questione – scrive Adriana – ebbe diffusione persino in Etiopia, assurgendo a tradizione nazionale perché gli si connette l’origine della dinastia salomonide: il Kebra Nagast (“Gloria dei re”, 14° sec.) narra che la regina, cui è dato il nome di Makeda, si sia recata dall’Etiopia a Gerusalemme, dove da una relazione amorosa con Salomone nacque il figlio Menelik, mitico progenitore dei negus salomonidi.
Il decennio degli anni Settanta, si diceva, è il cuore della narrazione. La protagonista attraversa fasi alterne, tra fiducia e sconforto, ma prevale la sua forza, la sua determinazione nell’accettare sempre con serena fermezza le prove a cui la vita la chiama. In queste sue pagine vivono le persone che le sono state vicino, ricordate negli episodi ai quali lei è piú legata. E che fa rivivere per noi come se ci accompagnasse in un museo personale. Il campeggio alle Tremiti e Patty Pravo, il soggiorno in Sardegna e il viaggio a Barcellona, la piccola “500” gialla e il referendum per il divorzio... Fatti privati che si incastrano nelle grandi vicende storiche: cosí va il mondo, cosí scorrono gli anni che ci è concesso di vivere.
Non tutto naturalmente va come noi vorremmo, ma con un po’ di buona volontà si può addrizzare un per-corso che si va facendo storto, si può correggere un at-teggiamento che ci ferisce. Con un po’ di coraggio, quello che non manca certo alla nostra Adriana, vittima e artefice insieme di una trama esistenziale della quale cogliere “il sugo della storia” (direbbe qualcuno) per conservarne il sapore – e farcelo provare, assaporare, invitati a un banchetto della conoscenza imbandito di sorprese.

Dalla prefazione di Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • Scienco en eroj
  • Autore
  • Ugo Intini
  • Collana
  • Tri Steloj
  • Pagine
  • 104
  • Prezzo
  • € 12,00

Antaŭparolo
En fantazia libro la leganto ofte permesas, ke oni permane gvidu lin al mir-mondo. Ĉi tiu mondo ha-vas la kolorojn de miraklaj elanoj kaj krome de ne-atenditaj strangaĵoj, kvankam iel elvenintaj el la interno. Tamen la ekzerco pri krea verkado montras aliron kaj mensan laboradon, kiu konsistas el enaj kongruoj kaj el fajnaj nervaj ĉefaj traboj, kies celo estas komunikado. Tio okazas malgraŭ la rakonta pasio, kaj krome la krea ver-kado okazas en kampo tiel riĉa je fruktoj, kiuj ridetas je la surprizita kaj foje plezurhava rigardo de naiva atendo. Tio ne malofte finfine konsistigas la kvaliton meman de la tek-sto. Jen ekzemplo de tio en la rakontoj prezentataj de la verkinto de ĉi tiu teksto: sume ni havas ĉi tie ne neeblan konan aliron, kiu vestas sin per fabela vesto. Ĉi tiu fabela vesto, kvankam ĝi havas tre vastajn horizontojn, kiuj estas ekster tempo kaj spaco troveblaj, montras sin per sia tuta forto.
Kritika pripensado de la verko de Ugo Intini ne rajtas ne kapti tiun esencan karakteron de lia verkado. Tiu karaktero trovas klaran konfirmon en la strukturo de ĉi tiu verko, kiu estas dividita en du partojn. Unu temas pri scienca disva-stigo kaj la dua pri rakontado. Mi pensas, ke tia kunordi-gita dueco, preter la instrua celo, prezentas la aŭtentecon de la mesaĝon de Ugo Intini. La mesaĝo diras, ke scienco ne estas rigora duonpatrino, kiu per sia projektado, kon-trolado kaj difinado kapto-tenas siajn anojn en kristala ĉambro. La scienco, fakte, subtenas kaj amuzas la homon pri lia enkonstruita scivolemo, lia intuicia, ellabora kaj teo-riuma kapablo, pri lia nehaltigebla deziro al materia kaj morala progreso.
La ridiga eco de rakontoj kiel tiu de la libro Hundoj kaj katoj aŭ kiel la fabelo en tiu ĉi libro Nulo kaj liaj fratoj ne naskiĝas, ekzemple, el ripetado tro ampleksa kaj eksplo-da, kvazaŭ ĝi estas ŝoko el intelekta klarvideco. Ĝi, male, havas trajtojn de plaĉo, kiu fontas el la invento de situacioj kaj rolantoj. En kelkaj okazoj (ekzemple en La magiisto de numeroj) tiuj rolantoj estas reliefaj literaturaj rolantoj. Vortoj neniam perdas la montran klarecon, ili neniam nebuliĝas pro arbitraj plur-senceco, ili, male, estas mal-kunmetitaj aŭdis duigitaj rilate al la signifo. Foje ili estas kunigitaj al fortigaj adjektivoj, kiuj substrekas radik-man-kon (terura teruro, tima timo, mistera mistero, ktp.), longi-gitaj, silabe inversigitaj. Foje ili ricevas bildan valoron, kiel se ili mem enhavus ion abstraktan, kiu ĉesas esti abs-traktaĵo kaj iĝas emocio aŭ ago de la rakonto. La luda eco estas ĉiam subtenata de racio. Mi pensas, ke la spegulo de homa naturo resendas la bildon de inteligento kaj pasio. Se estas tiel, la vasta komprenebleco de la verkostilo de Ugo Intini trovas kroman konfirmon en la tradukado, kiun la verkinto faris, de la teksto el la itala al Esperanto, kiu estas lingvo kapabla superi la malsamecojn inter la popoloj.

Riccardo Agrusti
Traduko de Renato Corsetti

  • Titolo
  • L'inebriante profumo delle zagare
  • Autore
  • Francesco Bruno
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 112
  • Prezzo
  • € 10,00

È l’amico Maurizio Zambardi che mi ha fatto conoscere l’autore di questo libro. A Maurizio mi lega un’antica cordiale amicizia, che si basa anche su quella che è reciproca stima. Con lui abbiamo collaborato in numerose iniziative di carattere culturale e inoltre dalla nostra collaborazione sono nate anche diverse pubblicazioni.
Anche tra Maurizio e Francesco Bruno, colleghi do-centi nella stessa scuola di Isernia, è nata una cordiale amicizia e per la proprietà transitiva dell’amicizia posso dire che siamo diventati amici anche Francesco ed io. E così Francesco mi ha portato in lettura il suo manoscritto (ma oggi dovremmo parlare di file) che io ho letto volentieri, trovandovi un racconto spedito e gradevole. È una narrazione che sta tra la memoria personale, il racconto e la cronaca, dove l’io narrante è ben riconoscibile nell’autore, sia pure con qualche tratto dove di proposito l’autore diversifica da sé il personaggio.
Il racconto ci porta nel periodo che va, grosso mo-do, dagli anni sessanta del secolo scorso ai giorni no-stri e fa rivivere l’infanzia del protagonista nella Sicilia di mezzo secolo fa, tra gli aranceti, col “profumo delle zagare” e i giochi infantili e poi il cinema, dove Francesco per qualche settimana ha fatto anche, insieme ala fratello, l’operatore, come il protagonista del Nuovo cinema Paradiso. Seguono poi, in età giovanile e adulta, i numerosi viaggi in Italia e nel mondo. E ogni viaggio è l’occasione per descrivere i luoghi visitati e per riportare aneddoti a volte curiosi.
E cosí il racconto ci porta “In giro per l’Italia”, come titola il secondo capitolo, e passiamo da Genova a Napoli, a Firenze, dove si consuma «la famosa bistecca alla fiorentina ricavata dal taglio, compreso l’osso, della lombata di vitellone non castrato con meno di due anni», a Venezia, a Napoli, dove «sembrava di essere nel racconto Il ventre di Napoli, scritto alla fine dell’800 dalla giornalista e scrittrice Matilde Serao».
Poi viene Montecarlo, poi il Canada e le Cascate del Niagara e gli Stati Uniti con un viaggio in pullman di «sedici ore di fila, di cui sei nei deserti del Nevada, tra canyons meravigliosi».
E poi l’Australia, da Adelaide a Melbourne a Can-berra, città «creata, ex novo per essere la capitale (non potendosi decidere gli australiani su quale scegliere tra le altre grandi città già esistenti)».
E l’Ayers Rock , «il piú grande monolite esistente (Urulu per gli aborigeni). Si tratta di una enorme roccia a forma di panettone, posata su una grande pianura desertica».
Ma c’è sempre il ritorno alla sua Sicilia e al profu-mo «inebriante e quasi pungente delle zagare», quel profumo intenso, che, scrive Bruno, «unito alla gioventú di allora, mi è rimasto impresso nella mente per sempre».
Dalla Sicilia si parte e alla Sicilia si ritorna, perché la Sicilia è bella e perché è l’amata terra madre.
Venafro, 8 maggio 2016

Dalla prefazione di Amerigo Iannacone

  • Titolo
  • Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice
  • Autore
  • Aurora De Luca
  • Collana
  • L'Albatro
  • Pagine
  • 152
  • Prezzo
  • € 10,00

METODOLOGIA

SI VUOLE, con questo lavoro, dare un contributo alla lettura dell’opera di Domenico Defelice e aggiungere una nuova voce liberamente e in piena consapevolezza delle capacità critiche di cui dispone: di lettrice romantica, appassionata.
Si va alla ricerca di un ‘principio di fondo’: si è rivelato una radice, e, in quanto tale, ben radicato nella terra.
Da tutta una coterie di scritti, pubblicazioni, saggi, let-tere, si propone di ricercare e tirare fuori il volto dell’uomo e il volto del poeta. Infine ci si accorge che i due per lo più coincidono, in quanto entrambi mossi dalla stessa spinta viscerale: l’amore.
Pertanto è l’amore l’angolo di visuale prediletto, amore che, si badi, non è cantato come sentimento elegiaco (che pure avremmo apprezzato) ma piuttosto come ‘partecipa-zione rabbiosa alla vita’. Si è compreso che per Defelice la scrittura poetica, che è quella in cui è piaciuto discendere, è scrittura sociale, conoscenza e rifiuto, adesione e contra-sto, è catarsi della vita.
È venuto, quindi, spontaneo titolare questo lavoro Aspra terra e creazione fertile, avendo ben in mente quel ‘principio di fondo’ esistenziale-poetico del nostro autore: la terra è dura, la vita è di terra; poiché è parso evidente che il legame tra Defelice e la Terra, tra Defelice e la Calabria, è un legame inscindibile, da risultare quasi ineluttabile, tale che le sofferenze dell’una si propagano nell’altro in onde d’urto fortissime. Da tale condizione di sofferenza, fisica e di coscienza, si è distillata la poesia come atto di semina e di inchiostro, così come avviene al contadino che, duramente, zappa la terra di cui conosce ritmi ed essenze, storture e avvallamenti, zone sterili e infeconde, finché da essa non riceve splendide fioriture e frutti genuini.
Nei Preludi non si sonda che questo, una panoramica da più angolazioni che possa restituire un Defelice tridimensionale: le sue origini, i suoi interessi, il suo carattere marcatamente ‘feroce e mansueto’, la sua poesia, la sua prosa, la sua pittura e ci si è valsi delle sue stesse parole, che si è ritenuto essere il nostro ‘principio di fondo’. Sicché è sembrato adeguato presentare una Miscellanea di opere poetiche, con la lettura delle quali mostrare stili e temi, originalità, forme, sviluppi, cambiamenti.
Di seguito l’Amore: sono state messe sotto la sua lente d’ingrandimento quattro opere poetiche, da quella più giovanile a quella più matura e recente. Di queste si è vo-luto – e tentato di – proporre un’analisi, stilistica, tematica e di evoluzione delle forme. Non si è mai tralasciato però l’intento principale del lavoro, quello di restituire un’im-magine più aderente possibile e a tutto tondo dell’autore, e per tanto, nello scendere sempre più a fondo tra le sue pa-role, si sono ricercati l’uomo e il poeta, indagato chi dei due fosse presente e in che misura.
Quel che è certo è che in Defelice Poesia è vita e vice-versa “Vita è poesia”; si è voluto infatti presentare la stessa biografia dell’autore – non certo anno per anno – intessendola con le sue stesse parole, rivelatrici di stati d’animo e concezioni d’esistenza, nonché con le parole di quei critici-scrittori che, prima e meglio di noi, hanno avuto modo di conoscere Defelice, sia personalmente, sia tramite le sue opere.
Per completare il lavoro si è creduto necessario esplora-re il mensile fondato da Defelice nel 1973, «Pomezia-Notizie», che ha compiuto ben 40 anni di vita senza cedere a quella che volgarmente si definisce ‘una crisi di mezza età’. Questo mensile, accompagnato dai Quaderni Letterari Il Croco, è stato un enorme delta di informazioni, in cui è confluita una quantità infinita di articoli e pubblicazioni.
Si stava ricercando il ‘principio di fondo’ di vita e di poesia; si crede di aver trovato qualcosa che lo attesti. Non avendo comunque certezza della bontà di tale impegno e di tali risultati, si è voluto scendere proprio nelle viscere di Defelice, all’interno di quegli epistolari “fraterni”, pubbli-cati con Il Croco. Per lo più si possiedono lettere di risposta e che portano la firma di amici e amiche, scrittori e scrit-trici, ugualmente importanti per il progetto proposto. Ma si possiedono anche alcune lettere manoscritte di Defelice dalle quali non può che risultare chiaramente il suo ani-mo, il suo spirito, la pasta del suo sguardo sulle cose, la sua mente.
In ultimo una passeggiata, una chiacchierata, alcune confessioni, delle saggezze, delle dichiarazioni ispirate, pa-role preziose dello stesso Defelice, per noi che ne faremo inestimabile tesoro.
Insomma, un lavoro assolutamente ‘scapigliato’– come io sono del resto –, appassionato sicuramente, si teme ma-gari caotico, assai pieno di salti e rimandi e citazioni, ma forse improvvisamente organico, limpido, trasparente da vederci attraverso.

Breve astratto dal libro

  • Titolo
  • Modellati dalla tenerezza
  • Autrici
  • Carmen Buono, Chiara Franchitti
  • Collana
  • Il nastro e la penna di una voce
  • Pagine
  • 144
  • Prezzo
  • € 16,00

Per comprendere il titolo – Il nastro e la penna di una voce – della collana che questo libro apre, bisogne-rebbe conoscere le due giovani che la curano, Carmen Buono e Chiara Franchitti, il “nastro” appunto e la “penna” di una “voce”, la voce di don Salvatore Rinaldi, portavoce di Voce piú alta. Tra i molti talenti di don Salvatore, personaggio ben noto nella sua città e nella sua provincia, c’è quello di avere la capacità di esprimere concetti elevati par-lando a braccio. Capacità di parlare – si diceva una volta – come un libro stampato. Ogni domenica don Salvatore celebra piú di una Messa e tiene piú di un’omelia, sempre a braccio, e tutte sono originali, tutte sono autentiche, tutte di grande interesse. E adatta, don Salvatore, il suo modo di parlare al pub-blico dei fedeli che ha davanti, con una lingua eleva-ta o addirittura aulica oppure con un linguaggio basso, magari inframmettendo parole o espressioni dialettali. Non si ripete, non è mai monotono, mai banale.
Partecipando alla Messa, Carmen, il “nastro”, re-gistra, Chiara, la “penna”, trascrive, le omelie di don Salvatore. Un lavoro prezioso, perché salvano dall’o-blio e consegnano alla carta stampata testi di grande interesse, che diversamente andrebbero perduti. E sono infatti proprio di grande interesse – e il lettore se ne renderà conto leggendo il libro – le omelie di don Salvatore; lo sono sia per la sua notevole prepa-razione culturale e teologica (ricordiamo che è stato per anni il chierichetto di Paolo VI), sia per le sue in-nate doti di intelligenza e anche di creatività.
È ovvio che quello del “nastro” e della “penna” è un lavoro non sempre facile, perché l’efficacia di un testo orale è legato anche all’espressività, al tono della voce, al ritmo, alla mimica ed ad altri elementi non riproducibili con la scrittura, e poi il pubblico della carta stampata è un pubblico diverso da quello che partecipa una mattina a una funzione religiosa. E quindi nel riportare per iscritto un testo che era orale e fatto a braccio c’è bisogno di un lavoro di editing e talvolta di adattamento e comunque senza mai inter-venire nei concetti e senza alterare né il contenuto, né lo spirito del testo. Un lavoro che le due giovani hanno fatto in modo eccellente pur senza mai sosti-tuirsi o sovrapporsi a don Salvatore. Di don Salvato-re infatti sono tutti i testi, anche se talvolta, leggendo delle bellissime espressioni, viene da domandarsi «possibile che abbia espresso a braccio un concetto cosí elevato e in modo cosí appropriato, con parole tanto belle?». Sí, don Salvatore ha queste capacità: sono delle doti innate, sia pure affinate da cultura e da studio.
Probabilmente c’è da rammaricarsi solo per il fatto che, per ovvi motivi, il “nastro” e la “penna” non riescono a partecipare a tutte le Messe e a registrare tutte le omelie. E d’altra parte don Salvatore non è tipo da considerare preziose le proprie parole, che in realtà quasi sempre lo sono, e quindi non si scrive mai in prima persona i testi.
Questo volume intende aprire una serie di pubblicazioni, nella collana che porta appunto il nome di Il nastro e la penna di una voce, ognuna delle quali avrà un proprio titolo e sarà legata a un periodo dell’anno liturgico. Si parte con Il tempo di Pasqua (2013-2014), seguiranno altri raggruppamenti di omelie che potranno essere sul Natale, sulla Quaresima, su Pasqua 2015, e cosí via.
Questo è quanto si ripromettono Carmen Buono e Chiara Franchitti, perché, come dicevano i nostri avi, verba volant ma scripta manent.

Amerigo Iannacone