Vai al contenuto

  • Autore
  • Carlos Vitale
  • Titolo
  • Fuori di casa
  • Collana
  • Stella Verde
  • Pagine
  • 96
  • Anno
  • 2012
  • Prezzo
  • € 8,00

Il libro di un poeta traduttore

Già nel 2004 Carlos Vitale pubblicò una silloge poetica col titolo preso in prestito da Montale, che nel 1969 aveva dato alle stampe Fuori di casa, raccolta dei suoi articoli di viaggio per il Corriere della Sera. Il volume attuale ha lo stesso titolo del testo precedente e, come esso, è diviso in due parti: Interni e Vedute sul mare, ma è molto piú ricco, poiché contiene le seguenti sezioni inedite: Terra purpurea, Cartoline di Mérida, Primavera estone, Ronda ciociara. Chi si limitasse a considerare la sola opera in versi di Vitale, potrebbe cadere nell’errore di ritenerla prestigiosa come qualità ma quantitativamente piuttosto esigua. In realtà le cose non stanno cosí, se si tiene conto dell’imponente lavoro di traduttore di poesia, soprattutto italiana, che egli sta compiendo con passione e instancabilmente da oltre un trentennio. E se si tiene conto, altresì, dell’importanza che egli giustamente annette a tale sua attività, in rapporto alla propria poesia. Il tradurre anche per lui, come per i maggiori poeti, italiani e non, del Novecento, «è momento non parallelo ma interno all’opera in versi» (Antonio Prete, All’ombra dell’altra lingua).
È una tappa necessaria per affrontare in concreto, confrontandosi con altre voci, i problemi dello stile, della lingua, del ritmo, del metro, della musica, del tono, di tutte le componenti della creatività poetica. Tradurre un poeta congeniale e autentico è per Vitale parte essenziale del suo scrivere. Dalle domande che sorgono dai testi originali il poeta traduttore Vitale risale alle ragioni essenziali della propria poetica (come ha visto acutamente Luisa Cotoner nell’eccellente prefazione a Unidad de lugar). Il tradurre è diventato per lui un mezzo ineguagliabile di conoscenza e di affinamento.
Vitale ha fatto pochi discorsi teorici sulla traduzione poetica, giusta il pensiero del Leopardi: «Parla molto della traduzione chi traduce men bene». Egli ha sempre preferito che il suo modo di intendere e di praticare la traduzione come atto eminentemente creativo, della «stessa intensità di un’esperienza d’amore» (Prete), apparisse concretamente realizzato nei testi tradotti, come dire in carne ed ossa. Cosí concepite, le sue traduzioni fanno parte a pieno titolo del suo corpus poetico, che allora ci appare tutt’altro che esiguo.
Per le sue traduzioni dall’italiano, occorre fare un’altra considerazione per apprezzarne la singolare qualità. Egli conosce perfettamente sia la lingua italiana, bevuta con latte materno, sia la lingua spagnola dell’ambiente argentino in cui è nato e ha fatto i suoi studi, e della stessa Spagna (Barcellona), dove si è stabilito e risiede dal 1981, conseguendo una seconda laurea. Traducendo, non si disloca in una lingua straniera per fare ritorno a quella materna; passa da una lingua materna a un’altra. Ogni testo da lui tradotto o creato in proprio si nutre del latte di due madri, nasce da uno scrittore con piú identità e si giova di questa condizione di privilegio. Un suo testo è una cassa di risonanza, una conchiglia che conserva e trasmette sentimenti, sapienze, linguaggi, culture diverse e affini, che ne fanno un insieme inimitabile.
Dante afferma in un passo del Convivio (trattato primo, capitolo settimo): «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza e armonia». Questa autorevolissima dichiarazione di intraducibilità della poesia, ripresa piú volte durante i secoli e giunta fino a noi, contiene una parte di verità, poiché ogni traduzione è una scommessa che si accetta quando si rompe l’armonioso “legame musaico” che un testo ha nella propria lingua, per ricomporlo in un’altra, e l’esito può essere incerto. Invece nel caso di Carlos e dei pochi poeti traduttori che si trovano a godere di due lingue materne perfettamente conosciute, come non vi è vera frattura tra una lingua e un’altra, cosí non vi è vero rischio di rompere tutta «la dolcezza e l’armonia» del testo che si trasmuta.
Il presente libro è posto ironicamente sotto un’epigrafe presa da un pensiero di Pascal: «La maggior parte dei mali agli uomini capitano per non starsene a casa». L’ironia, in questo caso l’autoironia, è costitutiva della personalità di Vitale, e non sorprende il paradosso di un volume di poesie occasionate dal suo molto viaggiare, il cui esergo sembra invitare il lettore a non seguire il suo esempio. Ma l’ironia di Vitale ha carattere socratico ed è anch’essa uno strumento di conoscenza. E poi il partire implica sempre in lui il ritorno: Andata e ritorno è significativamente il titolo della sezione che chiude la prima parte del volume.
E vediamo un po’ piú da vicino quali sono queste poetiche trasferte “fuori di casa”. Sono tutti luoghi che appartengono alla geografia del cuore di Carlos, hanno a che fare con esperienze insieme umane e culturali, intensamente vissute (anche se è facile cogliere qualche sfumatura nelle simpatie e nei sentimenti). Come la poesia di Montale, quella di Vitale parte sempre da un’occasione concreta. Nulla è inventato nell’indicazione di luoghi e oggetti, da cui erompe come acqua sorgiva la creazione poetica e, quando c’è, la riflessione morale o filosofica. Nel libro è cosí disegnata una mappa poetica, che dai Paesi del Mediterraneo si allarga all’America Latina, con felici deviazioni verso la Bretagna, l’Estonia, l’Armenia, amatissima perché di essa è originaria la consorte María. Malgrado la diversità di meridiani e paralleli, il libro ha una grande “unità di luogo” (per usare un altro titolo significativo dell’autore), assicurata sia da una comune qualità di Paesi dell’anima, sia dalla circolarità di questo viaggiare, che, a differenza del viaggio lineare che conduce verso il nulla, implica sempre il ritorno a casa. Non manca talora una punta di malinconia e di inquietudine («E se sono arrivato, / che farò di me?», Itaca), come se il viaggiare fosse non solo la metafora universale dell’esistenza, ma la ragione profonda e irrinunciabile della vita stessa. E in un suo verso ama rappresentarsi «seduto e in cammino» (Primavera estone, 5). Occorre sottolineare il legame profondo di questa “posizione” con la condizione spirituale dei maggiori poeti italiani cari a Vitale? Ricordiamo solo «E come portati via / si rimane» (Nostalgia) di Ungaretti, e l’«immoto andare, oh troppo noto / delirio, Arsenio, d’immobilità...» di Montale. Sí, la poesia di Vitale, poeta traduttore, è molto dotta e, pertanto, ricca di ben assimilate e dissimulate citazioni di altri poeti, i prediletti. Lo diciamo per ribadire il concetto che ogni vera poesia si nutre sempre di altra poesia, si inserisce armoniosamente in un coro di altre voci, che segnano il clima spirituale e culturale di un’epoca. La breve composizione «Sulla barca una luce. / Orizzonte rotto.» (Taccuino dell’Escala) ha il potere di evocare fulmineamente e di condensare un piú disteso e celebre passo montaliano («Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende / rara la luce della petroliera!», La casa dei doganieri). E potere di evocare i fantasmi del poeta ligure hanno i fantasmi di Piazza dei Miracoli e di Taccuino dell’Escala, 5.
Vitale condivide con i grandi poeti dell’Otto-Novecento il senso dell’ignoto, ma piú vivo è in lui il fascino del segreto e del mistero, ciò che lo distingue da Montale, piú ossessionato dal miracolo. «Scavare finché la roccia / ti consegni il suo segreto» sono i due versi di Geghard (Terra purpurea); essi potrebbero costituire il suo motto di traduttore e la vera sigla della sua poesia. Il mistero fa la sua comparsa in Refettorio di Casamari (Ronda ciociara): «La tavola apparecchiata, / olio e sale. / Saporito mistero». Qui è necessario sottolineare la pregnanza del significante, la forza evocatrice e la ricchezza simbolica della parola di Carlos, quasi sempre pronunciata con un tono delicato e leggero. Il sorriso e la levitas sono caratteristiche della sua indole e della sua poesia. Nel testo citato ogni parola necessiterebbe di un commento. Oltre ai simboli, taciuti ma sottesi alle parole “olio” e “sale”, si ponga attenzione anche al “saporito”, che allude alla letizia e alle semplici gioie, che rallegrano l’operosa vita dei religiosi. La parola “sale” ritorna, estendendo figurativamente il suo significato, in Belle-Île-En-Mer (Vedute sul mare): «Il sale scolpisce rocce / di significato».
Leggendo il libro, non si commetta l’errore di pensare a un poeta disimpegnato sul piano dei grandi temi, quali la libertà. Cosí non è, e a provarcelo splendidamente è una composizione come Forca d’Acero:
Cavalli bradi.
Ma il leader
del branco
porta un campanaccio.
Leader con campanaccio.
Libertà vigilata.
La levità del tono nulla toglie alla verità e alla serietà, un po’ amara e dolente, della riflessione. Ma già un brevissimo testo del 2004, come Armenia («Il mestiere / di sopravvivere.»), basta a dirla molto lunga sulla sua autentica sensibilità sociale e politica a chi ha orecchie per intendere.
Vitale sa cogliere come pochi l’universale nel particolare, sa trovare le parole-oggetto piú idonee ad esprimere una verità globale, antica, perenne, pescandole anche nel repertorio piú umile. Esempio calzante è la poesia Zufolo, in Ronda ciociara: «Nella valle / risuona / l’inno / di tutte / le bandiere».
Dagli esempi addotti si comprende come la poesia di Vitale non è né narrativa né discorsiva. È poesia di illuminazione (e ci sia risparmiato di indicare il già troppo chiaro riferimento). Affonda le radici nell’istante e nel quotidiano, ma evita sempre il rischio dell’ovvietà, della banalità, di un’inerte aneddotica.

Gallinaro, 21 settembre 2012
Gerardo Vacana