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  • Titolo
  • Ferma il tuo esodo
  • Autrici
  • Carmen Buono, Chiara Franchitti
  • Collana
  • Il nastro e la penna di una voce
  • Pagine
  • 84
  • Prezzo
  • € 12,00

Per comprendere il titolo – Il nastro e la penna di una voce – della collana che questo libro apre, bisogne-rebbe conoscere le due giovani che la curano, Carmen Buono e Chiara Franchitti, il “nastro” appunto e la “penna” di una “voce”, la voce di don Salvatore Rinaldi, portavoce di Voce piú alta. Tra i molti talenti di don Salvatore, personaggio ben noto nella sua città e nella sua provincia, c’è quello di avere la capacità di esprimere concetti elevati par-lando a braccio. Capacità di parlare – si diceva una volta – come un libro stampato. Ogni domenica don Salvatore celebra piú di una Messa e tiene piú di un’omelia, sempre a braccio, e tutte sono originali, tutte sono autentiche, tutte di grande interesse. E adatta, don Salvatore, il suo modo di parlare al pub-blico dei fedeli che ha davanti, con una lingua eleva-ta o addirittura aulica oppure con un linguaggio basso, magari inframmettendo parole o espressioni dialettali. Non si ripete, non è mai monotono, mai banale.
Partecipando alla Messa, Carmen, il “nastro”, re-gistra, Chiara, la “penna”, trascrive, le omelie di don Salvatore. Un lavoro prezioso, perché salvano dall’o-blio e consegnano alla carta stampata testi di grande interesse, che diversamente andrebbero perduti. E sono infatti proprio di grande interesse – e il lettore se ne renderà conto leggendo il libro – le omelie di don Salvatore; lo sono sia per la sua notevole prepa-razione culturale e teologica (ricordiamo che è stato per anni il chierichetto di Paolo VI), sia per le sue in-nate doti di intelligenza e anche di creatività.
È ovvio che quello del “nastro” e della “penna” è un lavoro non sempre facile, perché l’efficacia di un testo orale è legato anche all’espressività, al tono della voce, al ritmo, alla mimica ed ad altri elementi non riproducibili con la scrittura, e poi il pubblico della carta stampata è un pubblico diverso da quello che partecipa una mattina a una funzione religiosa. E quindi nel riportare per iscritto un testo che era orale e fatto a braccio c’è bisogno di un lavoro di editing e talvolta di adattamento e comunque senza mai inter-venire nei concetti e senza alterare né il contenuto, né lo spirito del testo. Un lavoro che le due giovani hanno fatto in modo eccellente pur senza mai sosti-tuirsi o sovrapporsi a don Salvatore. Di don Salvato-re infatti sono tutti i testi, anche se talvolta, leggendo delle bellissime espressioni, viene da domandarsi «possibile che abbia espresso a braccio un concetto cosí elevato e in modo cosí appropriato, con parole tanto belle?». Sí, don Salvatore ha queste capacità: sono delle doti innate, sia pure affinate da cultura e da studio.
Probabilmente c’è da rammaricarsi solo per il fatto che, per ovvi motivi, il “nastro” e la “penna” non riescono a partecipare a tutte le Messe e a registrare tutte le omelie. E d’altra parte don Salvatore non è tipo da considerare preziose le proprie parole, che in realtà quasi sempre lo sono, e quindi non si scrive mai in prima persona i testi.
Questo volume intende aprire una serie di pubblicazioni, nella collana che porta appunto il nome di Il nastro e la penna di una voce, ognuna delle quali avrà un proprio titolo e sarà legata a un periodo dell’anno liturgico. Si parte con Il tempo di Pasqua (2013-2014), seguiranno altri raggruppamenti di omelie che potranno essere sul Natale, sulla Quaresima, su Pasqua 2015, e cosí via.
Questo è quanto si ripromettono Carmen Buono e Chiara Franchitti, perché, come dicevano i nostri avi, verba volant ma scripta manent.

Amerigo Iannacone

  • Titolo
  • Il sogno e la realtà
  • Autore
  • Adriana Panza
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 128
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 12,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-41-9

Se non avessi letto il nome italiano dell’autrice Adriana Panza, avrei pensato che questa lunga coinvolgente narrazione era ancora la sconfinata nostalgia del gran-de perduto amore di Karen Blixen Finecke (1885-1962), la scrittrice danese che visse in Africa, precisamente nel territo-rio keniota, dal 1914 al 1931. Lei incontrò, sul suolo africa-no, un uomo della sua stessa razza, singolare, che amava re-citare poesie anche seduto su una comune cassa da imbal-laggio, anche in momenti impensati, col suo senso innato per la libertà: «Devi mutare il tuo canto luttuoso / in un ritmo gaio; / non verrò mai per pietà, / ma per piacere.» (Dal libro La mia Africa di Karen Blixen Finecke, Universale Economica Feltrinelli, Milano, Anno 2001, Euro 7,23, pag. 266). E quindi nomade – il titolo dell’opera artistica in papier collé dell’autrice nella copertina del precedente libro, Tra storia e vita di Adriana Panza è appunto Il Nomade,– avventuriero inglese spericolato col suo aeroplano leggero, Denys Finch-Hatton e si innamorarono perdutamente, poi un giorno ar-rivò la notizia del suo incidente aereo e tutto finí, anche la sua permanenza in Africa. Il suo libro che la rese celebre, riassunto della sua esperienza africana, uscí nel 1937 col ti-tolo La mia Africa (Out of Africa), e nel 1985 il regista ame-ricano Sydney Pollack ne fece un’indimenticabile e strug-gente pellicola cinematografica, con la straordinaria scelta dei due primi protagonisti, quali Meryl Streep e Robert Red-ford, tanto da meritarsi l’anno dopo ben sette premi Oscar: miglior film, regia, sceneggiatura, suono, scenografia, foto-grafia e colonna sonora composta da John Barry, le cui note riconducono inequivocabilmente verso qualcosa che si rim-piange, di annullato per sempre. Un intreccio, dunque, tra letteratura, cinema, esistenza realmente vissuta tra le gioie e il dramma che conchiude tutto, e l’ideale sogno di poter vivere su questa Terra un amore vero per lunghissimo tem-po. «I bianchi cercano in tutti i modi di proteggersi dall’i-gnoto e dagli assalti del fato; l’indigeno, invece, considera il destino un amico, perché è nelle sue mani da sempre; per lui, in un certo senso, è la sua casa, l’oscurità familiare della capanna, il solco profondo delle sue radici.» (Dalla quarta di copertina del libro La mia Africa). Invece qui, lui si chiama-va Alfredo e a lui è stato completamente destinato questo ro-manzo dove nulla è stato consegnato nelle fauci dell’oblio: ogni attimo, ogni data, ogni posto visitato o in cui si è sog-giornati per un certo periodo, in Africa, in Italia; gli incontri, gli spettacoli, la storia sociale parallela alla loro storia d’a-more, tra Alfredo e colei che adesso lo immortala, i perso-naggi teatrali, le forme teatrali – il teatro dell’Assurdo, il teatro di Luigi Pirandello –, della musica di allora – Lucio Battisti, Mina agli esordi e cosí Adriano Celentano –, della letteratura come Lev Tolstoj, Fjodor Dostojevski, Gabriele D’Annunzio; i cenni storici e l’origine leggendaria dei nomi dei paesi come Pescasseroli, in Italia, «dall’unione dei due nomi: Pesca e Serolo.» (Pag. 100). Ovvero un altro grande amore finito in tragedia, quello di Pesca, una bellissima sara-cena e il crociato Serolo. Una cronistoria che appare come un ricamo certosino dalle innumerevoli sfumature, nella quale e in parallelo si smatassa l’unione delle due esistenze incontratesi laggiú a Baidoa, posta a quasi trecento chilome-tri da Mogadiscio, la capitale della Somalia e il punto d’inizio di questa meravigliosa storia d’amore. Con Mogadiscio inizia e con essa termina la narrazione, certamente a simboleggiare il tragitto di una grande circonferenza che racchiude le pro-prie e le altrui conoscenze. Alfredo era ed ha lavorato da Pe-rito Agrario, e conosceva ogni pianta col loro specifico nome in latino e sapeva anche l’origine mitologico del nome dei «fiori del Crocus sativus limneo, meglio conosciuti con il no-me di zafferano (dall’arabo: Zaafran), una delle piú antiche spezie dalle mille qualità, usata per dare quell’inconfondibile sapore e colore a tante pietanze prelibate.» (Pag. 65). Lo zafferano, mitologicamente parlando, nacque quando il gio-vane Krokos fu scoperto dal dio Ermes che amava la ninfa Smilace, la sua preferita, e allora per vendetta venne trasfor-mato nel colorito fiore del Croco.
Diverse sono state le destinazioni d’impiego per Alfredo e conseguentemente per la sua famiglia. Il ritorno in Italia, prima dai suoi a Macerata, poi la permanenza a L’Aquila, a Cassino, e infine la tragedia di “Quel giorno”: «Era una domenica come tante altre, ma con un tempo uggioso e pieno di nebbia ed io ero impegnata al massimo nelle mille faccende di casa.» (Pag. 111). Una fioritura d’immagini che non si affollano con simultaneità, non si disturbano fra loro, non si scontornano, ma defluiscono semplicemente alla maniera di come diceva il filosofo antico greco Eràclito di Èfeso (ca520-ca460 a. C.) che tutto scorre, niente rimane inalterato anche da un attimo all’altro, anche l’acqua del fiume non è mai la stessa. L’autrice Adriana Panza era consapevole che il marito scriveva poesie, aveva scritto anche un testo teatrale, avrebbe voluto fare l’attore e per un attimo della sua breve vita si trovò ad interpretare il ruolo del protagonista de L’uomo dal fiore in bocca, uno dei capo-lavori di Pirandello, che poi venne magistralmente interpre-tato nel 1970, per la RAI, dal grande mattatore Vittorio Gass-man (1922-2000); ma invece ha svolto, sempre coscienzio-samente, quel lavoro che i genitori gli avevano consigliato da giovane, lo stesso di suo fratello maggiore Ugo, anche lui perito agrario.
Presumibilmente è stato questo il motivo trai-nante che ha dato impulso al fluido narrativo dell’autrice, la quale di fronte alla mancata realizzazione artistica del mari-to si è sentita in dovere di commemorare non solo lui, ma la sua eclettica vocazione letteraria: egli ha lasciato pubblicata una sua raccolta poetica dal titolo Frammenti e una comme-dia teatrale in tre atti, dal titolo Esistenza sbiadita. Un tributo dunque per colmare un vuoto iniziato da quel lontano 1972 con un richiamo inesistente, e quindi un presentimento ve-nuto all’improvviso quando stava da sola. Anche Karen Bli-xen scrisse di un oscuro presentimento nell’attesa del (non-avvenuto) ritorno di Denys, morto nell’incidente col suo aereo, nel suo libro di memorie: «Ogni volta che sono stata male o ho avuto delle preoccupazioni in Africa, ho sofferto di una strana idea che non potevo scacciare. Avevo la sensa-zione, in questi casi, che tutto intorno a me fosse in pericolo o in pena e che, nel dramma, io mi trovassi chissà come dalla parte sbagliata e venissi quindi guardata con diffidenza e paura da tutti.» (Da La mia Africa, pag. 270). Alfredo e il figlioletto di appena otto anni, sono adesso in quel cerchio che la moglie-madre ha disegnato, grazie alla sua compiuta opera narrativa, per loro, per proteggere il loro ricordo dalla corruttibilità, e questo cerchio è il tragitto di una vita che ha richiamato a sé nitidamente le altre vite purtroppo spezzate prematuramente, ma che galleggiano nell’amniotica attesa di un meraviglioso risveglio.

Isabella Michela Affinito

  • Autore
  • Giuseppina Scotti
  • Titolo
  • I porti dell'anima
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 48
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 8,00


Non l’ha fatto a caso, Giuseppina Scotti (niente succede per caso, in poesia), non ha costruito a caso questa esile raccolta di testi, dando ad essi, a tutti, un titolo morfologi-camente equivalente e disponendoli nell’ordi-ne alfabetico, appunto, dei titoli... Ora possiamo chiederci perché e cercare una chiave logica, oppure seguire il percorso poetico che la poetessa ci offre, facendoci semplicemente guidare sulla strada che ha scelto di percorrere alla ricerca – sembra – di una sua “verità” (ed è il titolo dell’ultimo testo). Una verità che potrebbe poi essere condivisibile, certo, ma è e deve restare la sua proposta, il suo gioco esistenziale.
Manca però la “bontà”, all’inizio, che avrebbe degnamente aperto la silloge – e chi conosce l’autrice, la sua disponibilità e la sua dedizione al mondo dell’arte, sa che è una delle sue più vive qualità. Come lo è del poeta che, se non è buono, non sa darsi, e la poesia è dono.
Si leggono, navigando per questi porti dell’anima, strani accostamenti e addirittura illuminanti coppie di titoli (tanto per rimanere ad esaminare la struttura dell’esile libro, comunque denso, malgrado la scarna offerta): sarà sempre un caso che ci siano affiancate “Felicità” e “Fragilità”, “Incredulità” e “Irrealtà”, “Vacuità” e “Verità”? Dobbiamo pensare che per caso l’iniziale “Complessità” vada a sfociare nella “Verità” finale?
Conoscere Giuseppina Scotti da tanto tem-po (ci incontrammo a Norcia, in una cornice poetica e mistica che subito ci fece amici e confidenti) e ritrovarla, ri-conoscerla in que-ste poesie, è il sigillo della certezza che non muta verso: con lei si va dritti al cuore, sem-pre, in un abbraccio di freschezza e bel-lezza, poiché bella e fresca è sempre la sua maniera di esprimersi.
Della poesia di Pina so tutto; nel tempo ne ho scritto e parlato, presentando alcuni dei suoi libri... il bello di questa nostra amicizia è nell’essersi mantenuta curiosa di noi, nell’aver conservato, nei lunghi anni che passano e pure ci spingono a porti diversi, la voglia di sapere le nostre cose e scambiarcene le impressioni poetiche avute in sorte.
I porti dell’anima sono quelli in cui la vita ci sospinge, a volte facendoci sbattere sul molo, incauti o distratti, a volte fortunati se ci attende un amico o un’anima buona con una lanterna nella notte buia...
Un “ciottolo lanciato a perdersi nel vuoto” è l’avventura del vivere (in “Felicità”), un dado che non smette di volteggiare facendoci ansiosi di conoscere il verdetto: la poesia scruta oltre il nostro sguardo quotidiano e vaga in cerca di approdi in cui rifugiarci.
Il dubbio è in fondo la vita stessa (come dice Pina, in “Spiritualità”): non c’è bisogno di scomodare i filosofi, ma è proprio la capacità di farsi domande sull’esistere che ce lo rende amico, e il poeta è anche capace di darsi risposte, di vincere quel dubbio e conquistare una sua ragione, una dimensione in qualche misura soddisfacente.
Se si volesse evidenziare qualche tema, le molle che spingono l’arte in versi di Giuseppina Scotti, qui troveremmo un intimo scatto, “in impeto di sentimento costruito dal nulla” (“Nullità”), verso un cielo più puro, un bene più raccolto, “in nudità d’anima immersa in pensiero divino” – per festeggiare una ricorrenza anagrafica importante (non si dice l’età di una donna, ma di un poeta sì), non si poteva fare un regalo più importante: questa silloge di versi è uno dei vertici nella produzione poetica di Pina, e avermela affidata per questa nuova collana della stanza del poeta è ancora un segno forte della nostra amicizia, del quale la ringrazio, augurando a lei un sereno anno e ai lettori di cogliere insieme a lei la tangibile manifestazione della sua generosa interpretazione dell’essere donna e poeta.

Giuseppe Napolitano
20 maggio 2015