- Titolo
- Autore
- Collana
- Pagine
- Anno
- Prezzo
- Isbn
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Il sogno e la realtà |
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Adriana Panza |
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Perseidi |
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128 |
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2015 |
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€ 12,00 |
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978-88-97930-41-9 |
Se non avessi letto il nome italiano dell’autrice Adriana Panza, avrei pensato che questa lunga coinvolgente narrazione era ancora la sconfinata nostalgia del gran-de perduto amore di Karen Blixen Finecke (1885-1962), la scrittrice danese che visse in Africa, precisamente nel territo-rio keniota, dal 1914 al 1931. Lei incontrò, sul suolo africa-no, un uomo della sua stessa razza, singolare, che amava re-citare poesie anche seduto su una comune cassa da imbal-laggio, anche in momenti impensati, col suo senso innato per la libertà: «Devi mutare il tuo canto luttuoso / in un ritmo gaio; / non verrò mai per pietà, / ma per piacere.» (Dal libro La mia Africa di Karen Blixen Finecke, Universale Economica Feltrinelli, Milano, Anno 2001, Euro 7,23, pag. 266). E quindi nomade – il titolo dell’opera artistica in papier collé dell’autrice nella copertina del precedente libro, Tra storia e vita di Adriana Panza è appunto Il Nomade,– avventuriero inglese spericolato col suo aeroplano leggero, Denys Finch-Hatton e si innamorarono perdutamente, poi un giorno ar-rivò la notizia del suo incidente aereo e tutto finí, anche la sua permanenza in Africa. Il suo libro che la rese celebre, riassunto della sua esperienza africana, uscí nel 1937 col ti-tolo La mia Africa (Out of Africa), e nel 1985 il regista ame-ricano Sydney Pollack ne fece un’indimenticabile e strug-gente pellicola cinematografica, con la straordinaria scelta dei due primi protagonisti, quali Meryl Streep e Robert Red-ford, tanto da meritarsi l’anno dopo ben sette premi Oscar: miglior film, regia, sceneggiatura, suono, scenografia, foto-grafia e colonna sonora composta da John Barry, le cui note riconducono inequivocabilmente verso qualcosa che si rim-piange, di annullato per sempre. Un intreccio, dunque, tra letteratura, cinema, esistenza realmente vissuta tra le gioie e il dramma che conchiude tutto, e l’ideale sogno di poter vivere su questa Terra un amore vero per lunghissimo tem-po. «I bianchi cercano in tutti i modi di proteggersi dall’i-gnoto e dagli assalti del fato; l’indigeno, invece, considera il destino un amico, perché è nelle sue mani da sempre; per lui, in un certo senso, è la sua casa, l’oscurità familiare della capanna, il solco profondo delle sue radici.» (Dalla quarta di copertina del libro La mia Africa). Invece qui, lui si chiama-va Alfredo e a lui è stato completamente destinato questo ro-manzo dove nulla è stato consegnato nelle fauci dell’oblio: ogni attimo, ogni data, ogni posto visitato o in cui si è sog-giornati per un certo periodo, in Africa, in Italia; gli incontri, gli spettacoli, la storia sociale parallela alla loro storia d’a-more, tra Alfredo e colei che adesso lo immortala, i perso-naggi teatrali, le forme teatrali – il teatro dell’Assurdo, il teatro di Luigi Pirandello –, della musica di allora – Lucio Battisti, Mina agli esordi e cosí Adriano Celentano –, della letteratura come Lev Tolstoj, Fjodor Dostojevski, Gabriele D’Annunzio; i cenni storici e l’origine leggendaria dei nomi dei paesi come Pescasseroli, in Italia, «dall’unione dei due nomi: Pesca e Serolo.» (Pag. 100). Ovvero un altro grande amore finito in tragedia, quello di Pesca, una bellissima sara-cena e il crociato Serolo. Una cronistoria che appare come un ricamo certosino dalle innumerevoli sfumature, nella quale e in parallelo si smatassa l’unione delle due esistenze incontratesi laggiú a Baidoa, posta a quasi trecento chilome-tri da Mogadiscio, la capitale della Somalia e il punto d’inizio di questa meravigliosa storia d’amore. Con Mogadiscio inizia e con essa termina la narrazione, certamente a simboleggiare il tragitto di una grande circonferenza che racchiude le pro-prie e le altrui conoscenze. Alfredo era ed ha lavorato da Pe-rito Agrario, e conosceva ogni pianta col loro specifico nome in latino e sapeva anche l’origine mitologico del nome dei «fiori del Crocus sativus limneo, meglio conosciuti con il no-me di zafferano (dall’arabo: Zaafran), una delle piú antiche spezie dalle mille qualità, usata per dare quell’inconfondibile sapore e colore a tante pietanze prelibate.» (Pag. 65). Lo zafferano, mitologicamente parlando, nacque quando il gio-vane Krokos fu scoperto dal dio Ermes che amava la ninfa Smilace, la sua preferita, e allora per vendetta venne trasfor-mato nel colorito fiore del Croco.
Diverse sono state le destinazioni d’impiego per Alfredo e conseguentemente per la sua famiglia. Il ritorno in Italia, prima dai suoi a Macerata, poi la permanenza a L’Aquila, a Cassino, e infine la tragedia di “Quel giorno”: «Era una domenica come tante altre, ma con un tempo uggioso e pieno di nebbia ed io ero impegnata al massimo nelle mille faccende di casa.» (Pag. 111). Una fioritura d’immagini che non si affollano con simultaneità, non si disturbano fra loro, non si scontornano, ma defluiscono semplicemente alla maniera di come diceva il filosofo antico greco Eràclito di Èfeso (ca520-ca460 a. C.) che tutto scorre, niente rimane inalterato anche da un attimo all’altro, anche l’acqua del fiume non è mai la stessa. L’autrice Adriana Panza era consapevole che il marito scriveva poesie, aveva scritto anche un testo teatrale, avrebbe voluto fare l’attore e per un attimo della sua breve vita si trovò ad interpretare il ruolo del protagonista de L’uomo dal fiore in bocca, uno dei capo-lavori di Pirandello, che poi venne magistralmente interpre-tato nel 1970, per la RAI, dal grande mattatore Vittorio Gass-man (1922-2000); ma invece ha svolto, sempre coscienzio-samente, quel lavoro che i genitori gli avevano consigliato da giovane, lo stesso di suo fratello maggiore Ugo, anche lui perito agrario.
Presumibilmente è stato questo il motivo trai-nante che ha dato impulso al fluido narrativo dell’autrice, la quale di fronte alla mancata realizzazione artistica del mari-to si è sentita in dovere di commemorare non solo lui, ma la sua eclettica vocazione letteraria: egli ha lasciato pubblicata una sua raccolta poetica dal titolo Frammenti e una comme-dia teatrale in tre atti, dal titolo Esistenza sbiadita. Un tributo dunque per colmare un vuoto iniziato da quel lontano 1972 con un richiamo inesistente, e quindi un presentimento ve-nuto all’improvviso quando stava da sola. Anche Karen Bli-xen scrisse di un oscuro presentimento nell’attesa del (non-avvenuto) ritorno di Denys, morto nell’incidente col suo aereo, nel suo libro di memorie: «Ogni volta che sono stata male o ho avuto delle preoccupazioni in Africa, ho sofferto di una strana idea che non potevo scacciare. Avevo la sensa-zione, in questi casi, che tutto intorno a me fosse in pericolo o in pena e che, nel dramma, io mi trovassi chissà come dalla parte sbagliata e venissi quindi guardata con diffidenza e paura da tutti.» (Da La mia Africa, pag. 270). Alfredo e il figlioletto di appena otto anni, sono adesso in quel cerchio che la moglie-madre ha disegnato, grazie alla sua compiuta opera narrativa, per loro, per proteggere il loro ricordo dalla corruttibilità, e questo cerchio è il tragitto di una vita che ha richiamato a sé nitidamente le altre vite purtroppo spezzate prematuramente, ma che galleggiano nell’amniotica attesa di un meraviglioso risveglio.
Isabella Michela Affinito