- Autore
- Titolo
- Pagine
- Anno
- Prezzo
- Isbn
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A.A.V.V. |
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Scuola di vita |
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128 |
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2015 |
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€ 15,00 |
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978-88-97930-62-4 |
Il Paese delle lacrime
Ho incontrato Don Salvatore Rinaldi nel Seminario di Posillipo nel 1976 ed abbiamo vissuto insieme per tre anni nella stessa comunità. Insieme ad altri giovani si aggiungeva al nostro cammino per la chiusura del Seminario di Benevento.
Aveva allora l’aria del filosofo che ama astrarre e si inerpica volentieri per i sentieri del pensiero. Ricordo che ci incrociavamo nel lungo corridoio del seminario di Napoli lui assorto nei suoi pensieri ed io con la corona del rosario: non voglio attribuirmi arie da mistico in erba, ci sono tanti modi di pregare, si prega anche col pensiero.
“Pensare è oltrepassare”. Dovetti “addomesticarlo”, questo lo ricordo bene, perché inizialmente la mia aria da “perfettino” non doveva risultargli immediatamente simpatica. Ci si “addomestica”, come insegna la volpe al Piccolo Principe, con piccoli passi, guardandosi prima da lontano, lasciando che il tempo abbatta i ponti levatoi che inizialmente sono alzati per paura dell’altro. Salvatore ed io, benché così diversi, ci siamo addomesticati. Ne è prova che a distanza di 36 anni da quando ci lasciammo, in uscita dal Seminario, nel giugno 1979, ancora siamo in contatto e ci guardiamo, pur da lontano, con “la coda dell’occhio” si dice a Napoli.
Due episodi mi va di raccontare di quegli anni ai suoi fans di oggi, ai suoi figli e figlie che lo festeggiano per i suoi sessanta anni. Sono entrambi dell’ultimo anno di Seminario e legati dal comune tema delle lacrime.
Agli inizi di novembre del 1973 stiamo vivendo gli Esercizi Spirituali annuali a Mugnano del Cardinale. Li guida don Ignazio Schinella, l’animatore del nostro gruppo, che farà confluire le riflessioni di quei giorni nella pubblicazione del suo primo libro (primo di una lunga serie!) dal titolo “Imparare il Cristo”. Siamo riuniti nella sala che allarga lo sguardo sui tetti di Mugnano e più lontano di Nola, sono le quattro del pomeriggio come nel Vangelo di Giovanni in cui si racconta la chiamata dei primi discepoli. Siamo entrati in silenzio e vi restiamo in attesa del predicatore con quel senso di mistero che pervade la mente e il cuore e inclina ogni cellula, ogni energia a Dio. Alle sedici in punto arriva Don Ignazio con i suoi fogli scritti in maniera fitta, si siede e comincia la meditazione. Salvatore non c’è. Forse è rimasto impigliato nel sonno del pomeriggio o in un una delle sue (le chiamavamo così!) “masturbazioni mentali”? Passa il tempo e ciascuno segue o insegue il predicatore, le parole che pronuncia, le parole udite che ne richiamano altre a frotte come le rondini. All’improvviso si apre la porta della sala. Non adagio, ma con violenza come il vento di Pentecoste. Entra Salvatore chiaramente sconvolto e non si cura del predicatore, né del nostro silenzio, si precipita al suo posto come una furia non risparmiando il rumore della chiusura della porta, dei passi, della sedia. Si china sul tavolo e scoppia in un pianto a dirotto. Noi ne siamo presi, imbarazzati, preoccupati, ma lo sguardo di Don Ignazio resta sui fogli, la voce non gli si incrina, continua imperterrito come se Salvatore non fosse arrivato in quello stato e non stesse piangendo. Per noi è un segnale di normalità, un messaggio non verbale a mantenere la calma, a continuare la meditazione, a fidarci del maestro che sa di ciascuno di noi quello che è bene ignorare degli altri. Salvatore rimane a lungo con le mani sul volto come l’Innominato al cospetto del Cardinal Federigo. Di quella meditazione non ricordo il tema, i capoversi, la struttura, ma quel pianto, se appena porgo l’orecchio, lo sento chiaro nonostante i trentasette anni di distanza. Non abbiamo mai saputo da dove nascesse, quale dolore di vita o di morte, lo avesse provocato, quale segnale inequivocabile di nihil obstat Salvatore comunicava all’animatore come un segnale convenuto. Erano per noi mesi decisivi, carichi di futuro, ci stavamo giocando la vita e la paura ci attendeva al varco. Salvatore continuò a singhiozzare per un po’, poi pian piano, come fanno i bambini, diminuì di volume il pianto fino a farsi respiro. C’era in quel tramonto di novembre l’aria tersa che segue a un improvviso acquazzone. Forse voler bene è permettere a un altro di piangere accogliendo in silenzio le sue lacrime senza chiedere troppe spiegazioni. Come la scia di una nave il pianto si chiuse e tutto tornò nella norma. Intanto era scesa la sera e le mille luci della piana si erano accese come lampare di pescatori in un mare di buio.
L’altro ricordo è indicato più precisamente, porta la data del 12 maggio 1979, giorno dell’Ordinazione Presbiterale di Don Salvatore Rinaldi... Siamo nella Cattedrale di Isernia a guardare il secondo fratello che tagliava il traguardo (il primo era stato Mimmo D’Alterio, ad Aversa, il 7 aprile). Noi compagni di comunità siamo assiepati sui gradini dell’altare maggiore, molti già diaconi con la stola trasversa a guardare un rito che già conosciamo a memoria e che desideriamo e temiamo che avvenga anche per noi. Si stanno concludendo i riti esplicativi con l’unzione delle mani e la consegna dei vasi sacri per il sacrificio eucaristico. L’organo a canne parte con un brano che fa piovere note dall’alto e riempie la cattedrale di suoni. Ho memoria che fosse in tonalità minore. Salvatore, appena rivestito della casula, riceve l’abbraccio di pace del vescovo e poi passa ai presbiteri. Arrivato davanti a noi alza lo sguardo e scoppia in un pianto che accompagna i nostri abbracci e ci riga il volto di lacrime. È certo un pianto liberatorio, di una tensione che è salita a mille ed ora tracima senza più margini. Senza più argini. Eppure quel pianto unito alla musica dell’organo lasciano in me un acre sapore di morte. Anche oggi, quando ci ripenso, ho la stessa netta sensazione d’allora, la stessa tristezza di una nave che rompe gli ormeggi e si allontana dal porto a sirene spiegate. Il motivo del primo pianto del mio amico filosofo mi è rimasto nascosto, ma il secondo mi veniva incontro chiaro nella sua bellezza drammatica. Riguardava te, Salvatore, ma anche noi che, dopo qualche mese, saremmo passati sopra le braci ardenti dell’Ordinazione. Avevamo poco più di vent’anni ed eravamo già vecchi (Presbitero vuol dire “anziano”), finiva quella sera la tua e la nostra giovinezza, c’era aria di partenze senza ritorno, eravamo rami fioriti recisi e gettati ad ardere nel fuoco di un Sacramento che, rendendoci Gesù per gli altri, ci chiudeva ad abbracci che non avremmo mai conosciuto. Ci abbracciammo come commilitoni in partenza per una missione ad alto rischio. Le tue lacrime mostravano la parte debole di te. Non si abbracciarono il filosofo in erba ed il piccolo mistico, ma due uomini naufraghi sull’orlo di un mistero troppo grande per le loro fragili mani.
Anche i sessant’anni per te, come per me, Salvatore, sono un avviso di garanzia, un rintocco di campane che annuncia la sera che scende e abbuia le cose, le case, le strade, poi i volti. È stato bello essere uomini! È stato bello essere preti! Ora è il tempo in cui guardare da lontano la giovinezza quando si andava dove si voleva, ora dobbiamo lasciarci cingere e portare dove non vogliamo come dice Gesù a Simone nel capitolo 21° del Vangelo di Giovanni. Ti auguro questa docilità e duttilità. Remissività. Forse bisognerebbe piangere anche oggi. È più facile farlo. I vecchi come noi sono facili al pianto.
Arturo Aiello