Vai al contenuto

C’ero anch’io

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • C'ero anch'io
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 200
  • Anno
  • 2017
  • Prezzo
  • € 12,00

L’autobiografia di Amerigo Iannacone è il racconto della vicenda umana, e dell’avventura culturale e artistica, di un molisano che – fatta salva la parentesi del servizio militare – non ha quasi mai lasciato la terra che l’accolse infante per più di qualche settimana.
Niente viaggi, dunque, a inseguire – alfierianamente – chissà quali miraggi di gloria; ben istruito invece – a quanto sembra – dalla fallimentare ricerca del leopardiano Islandese.
Nato il 17 maggio del 1950 a Ceppagna, una frazione di Venafro seminascosta da preappenniniche gobbe collinari, in posizione defilata rispetto all’arteria stradale che dal Molise punta, risoluta, verso il nord della confinante Campania, ultimo di prole numerosa messa al mondo da genitori artigiani che non ebbero da anteporre al rito sacrale del concepimento prospettive di carriere più o meno brillanti, Iannacone ha ereditato dalla marginalità geografica del luogo natio e dall’essenzialità dei bisogni quotidiani ancora ben diffusa nell’entroterra centro meridionale italiano degli anni ’50 dello scorso secolo, un carattere riservato ma non scontroso, incline all’introspezione ma non chiuso a problematiche sociali.
Sensibile fin dagli anni dell’alfabetizzazione al fascino del libro (da leggere ma anche da scrivere), è stato subito lettore avido di testi d’autore e compositore acerbo di fanciullesche trame poetiche, spie precoci di un talento destinato a consolidarsi e a tradursi nel tempo in un imponente “esondare” di pubblicazioni.
L’autobiografia, che dagli anni della formazione da discente passa poi a quelli del ruolo docente, segue – illustrandolo – l’itinerario letterario di Iannacone, narrandone le diverse vicissitudini. E tra le vicissitudini ci trova, il lettore (accanto all’emozione della prima raccolta poetica ancora calda di tipografia), la nota introduttiva – per così dire – prudente del prefatore contattato; ed ancora l’ipocrisia boriosa delle grandi Case Editrici, che con belle parole di circostanza ti sbattono la porta in faccia; il comportamento ingannevole di sedicenti editori avvezzi alla frode; l’indifferenza della gente (anche di quella laureata) di fronte al dono di un libro. Ma accanto alle vicissitudini che diremo scoraggianti, più o meno comuni un po’ a tutti gli esordienti di periferia, s’incontrano quelle che ampiamente ripagano lo scrittore molisano con gratificanti obiettivi raggiunti. E parlo della nascita dell’Editrice Eva, della fondazione di un mensile: Il Foglio volante, della promozione del premio letterario “Venafro”, della scoperta dell’Esperanto, del proliferare di amicizie feconde, durevoli per comunanza di interessi culturali ed empatia dello spirito.
Il lavoro riporta in appendice una serie di interviste che contribuiscono, se non a completare, sicuramente ad arricchire il quadro degli elementi teoretici dei percorsi e degli esiti artistici dello scrittore venafrano.
Dire, a questo punto, che l’autobiografia è scritta bene è persino banale: come volete che sia scritto uno scritto da Amerigo Iannacone? Dirò solo (e chiudo) che la narrazione si apre con un risveglio notturno (indotto dal sogno di un bisogno insoddisfatto) e si chiude con una splendida quanto originale analogia del genere georgico che ben riepiloga la filosofia di vita dell’autore: C’è – scrive Iannacone – un proverbio del mio paese che dice addò arrive chiante glie pezzuche, letteralmente: “dove arrivo pianto il cavicchio”. Il detto non è di immediata comprensione. Deriva dal modo che si usava un tempo piantando semi col cavicchio: quando a sera si smetteva, si usava conficcare (piantare) nel terreno il cavicchio nel punto dove si era arrivati, in modo da sapere la mattina dopo da dove ripartire.
Ecco: dove arriviamo piantiamo il cavicchio: che c’importa se poi saranno altri a trovare un cavicchio solitario piantato nel maggese.
Il maggese è il genere artistico in cui si sceglie di mettere a dimora idee e creatività. Il cavicchio (ma più bella ed efficace la forma dialettale: glie pezzùche) è quella cosa che Seneca rese con terminus ultra quem mala nostra non exeunt.
Io, della cosa, il nome non ve lo dico. Vi dico solo che è allusa in gran parte della produzione poetica (specie nella più recente) di Amerigo Iannacone.

Aldo Cervo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *