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Foglio Volante n°6 Anno XXXII Giugno 2017


Ricorre quest’anno il centenario della morte di Zamenhof uno dei grandi benefattori dell’umanità

Ricorre quest’anno il centenario della morte di Ludwik Lejzer Zamenhof, l’iniziatore dell’esperanto, che, nato a Bialystok il 15 dicembre 1859 morí a Varsavia 14 aprile 1917.
Il 14 aprile 2017, nel giorno del centenario, La Stampa di Torino dedica a Zamenhof e all’esperanto un’intera pagina, a firma Diego Marani, il che poteva essere una bella cosa se non fosse che nell’articolo si trovano piú che delle inesattezze, delle affermazioni molto discutibili e una conclusione subdola.
Cominciamo dal titolo. “Esperanto, l’utopia fallita della lingua unica europea”; in otto sole parole almeno tre espressioni volutamente fuorvianti. 1) “Utopia”: che cos’è un’utopia? Chi lo stabilisce che si tratti di utopia? Tutte la grandi invenzioni e i grandi progressi dell’umanità erano considerati “utopia” prima che si realizzassero. Utopia era l’abolizione della schiavitú, utopia era che l’uomo potesse volare, utopia era che si potesse inviare una lettera, un’immagine, una musica, in tutto il mondo in tempo reale e senza costi, utopia erano il telefono, la radio, la televisione; lo era la vittoria su malattie come la peste, il vaiolo, la polio; lo era anche la “carrozza senza cavalli” e tutto ciò che fa oggi comoda la nostra vita. Ma “utopia” diventa una parola-alibi per respingere e rigettare pregiudizialmente una cosa per la quale non ci va di impegnarci, o che va a intaccare un nostro preconcetto o dei nostri interessi.
2) “Fallita”: chi l’ha detto che è fallita? L’esperanto è una realtà ed è pronta per l’uso. Ha una sua storia, una sua letteratura, un elevato numero di esperantofoni in tutto il mondo. Basterebbe solo che si provasse il rispetto della propria dignità e l’orgoglio di sentirsi liberi, affrancandosi dalla schiavitú ideologica della necessità di seguire masochisticamente la legge del sopraffattore.
3) (E questa mi sembra la cosa piú grave): “lingua unica europea”. Significa non aver capito nulla (o far finta di non aver capito nulla) dell’esperanto. L’esperanto non vuole diventare lingua unica né mondiale né europea, ma sostiene anzi che tutte le lingue, tutte le identità, tutte le etnie hanno pari dignità e hanno pari diritto ad esistere. Ogni popolo, ogni nazione, ogni etnia ha diritto di conservare la propria lingua e l’esperanto dovrebbe diventare seconda lingua di tutti e prima di nessuno, per la comunicazione soprannazionale (senza interpreti e senza traduttori). Sostenere che l’esperanto aspiri a diventare “lingua unica” è come dire che esso minacci le identità nazionali, mentre è tutto il contrario: l’esperanto difende le identità nazionali, contro l’invadenza e la sopraffazione del piú forte. Ogni popolo ha diritto di conservare la propria lingua e affiancarvi l’esperanto come seconda lingua per la comunicazione soprannazionale.
Alla fine dell’articolo, Diego Marani esce allo scoperto: liquida l’esperanto come un «intellettuale passatempo per pochi appassionati». No, caro Marani. L’esperanto è una cosa seria, non è un passatempo: è una lingua che non ha eguali per praticità didattica, per la fonetica, per la duttilità e per altre caratteristiche che ne fanno una lingua superiore, che permette piú di qualsiasi altra, ogni sfumatura di significato, con 130 anni di sperimentazione, con una ricca letteratura. Le vorrei dire: provare per credere.
«Ma se lo volessimo, – scrive Marani – un nuovo Esperanto ce l’abbiamo a portata di mano. È l’inglese che i britannici ci hanno imposto e che ora ci lasciano andandosene. Prendiamocelo dunque, e facciamone la lingua condivisa della nuova Europa. Nostro, non britannico, piú nessuno a dirci come si pronuncia, un inglese europeo, nato dal miscuglio e dalla contaminazione, come del resto è già diventato.»
Cioè: gli inglesi (e, io aggiungerei, gli americani) ci “hanno imposto” una lingua che ci costa fior di quattrini, per l’apprendimento, per i diritti d’autore, ecc., ci espropria della nostra identità, ci fa diventare cittadini di serie B, ci mette nella condizione di cittadini subordinati, (solo per fare un esempio, nei concorsi europei, dove sarà dura per un concorrente, mettiamo di Roma, prevalere su uno di Londra) e noi dovremmo considerarlo come un regalo.
Aggiunge poi subdolamente Marani: «se il vecchio Zamenhof potesse sentirci parlarlo, sarebbe fiero di noi», come dire che Zamenhof sarebbe contento se noi facessimo in modo che tutta la sua vita risultasse una vita inutile.
Ma Zamenhof è uno dei grandi benefattori dell’umanità: il tempo gli darà ragione.
Amerigo Iannacone


Il fiore è piú felice...

Il fiore è piú felice
se rimane sulla pianta,
o se è colto, donato,
messo in un vaso
ad allietare la casa?
Forse il fiore è contento
nell’uno e l’altro caso.

(14 febbraio 2017)
Gerardo Vacana
Gallinaro (FR)


Appunti e spunti
Annotazioni linguistiche
di Amerigo Iannacone

Fare, soddisfare e strafare

Leggo nella pagina culturale di un importante quotidiano: «Cinquant’anni fa moriva l’artista che soddisfò la fame di risate con lo stile del vero aristocratico, Totò» (il corsivo è mio). Ma il passato remoto del verbo soddisfare è forse soddisfai, soddisfasti, soddisfò...? Certamente no (fa pure rima), ma è soddisfeci, soddisfacesti, soddisfece, ecc., perché il verbo soddisfare, si coniuga come fare, di cui è un composto.
È pur vero, però, che in alcuni tempi e modi, l’uso ha finito per far accettare una duplice (o, a volte, triplice forma). Per cui abbiamo: ind. pres. soddisfàccio o soddisfò [raro e che, comunque, non è passato remoto] o soddìsfo, soddisfài o soddìsfi, soddisfà o soddìsfa [arc. soddisfàce], soddisfacciàmo [fam. soddisfiàmo], soddisfàte, soddisfànno o soddìsfano; fut. soddisfarò o soddisferò, ecc.; cong. pres. soddisfàccia o soddìsfi, ... soddisfacciamo, soddisfacciate, soddisfàcciano o soddìsfino; cond. soddisfarèi o soddisferèi, ecc.; per tutto il resto è coniugato come fare. Analogo discorso vale per gli altri composti come rifare, contraffare, sopraffare, disfare, liquefare, assuefare, strafare, ecc.
Riepilogando: la via maestra è quella di coniugare i verbi composti con fare, appunto come fare. In alcuni casi c’è una doppia forma: è lo scotto che la grammatica paga all’uso.


VERSETTI E VERSACCI
di Bastiano

Sedicente poeta
Immagino i tuoi pensieri.
Lo so che ti chiami Dante,
ma non sei Alighieri.

12.4.17

Foglio Volante n°5 Anno XXXII Maggio 2017


Giorgio Bàrberi Squarotti ci ha lasciati
Un grande uomo e un fine intellettuale

Il 9 aprile scorso è morto a Torino Giorgio Bàrberi Squarotti. Il 14 settembre avrebbe compiuto 88 anni, essendo nato nel 1929.
Critico letterario, poeta, professore universitario, italianista, direttore del “Battaglia”, il Grande Dizionario della Lingua Italiana, la maggiore impresa lessicografica dopo il “Tommaseo”, per la Utet, autore di testi di letteratura su cui si sono formate generazioni di studenti, Squarotti è stato un punto fermo, imprescindibile, per la letteratura italiana. È stato professore all’Università di Torino, dove ha insegnato dal 1967 al 1999, titolare della cattedra di Letteratura Italiana, ereditata dal suo Maestro, Giovanni Getto.
La sua competenza abbracciava praticamente tutta la storia della letteratura italiana dagli esordi ai nostri giorni. Molto spesso i critici letterari, anche i piú bravi, finiscono per specializzarsi su un periodo storico particolare, e cosí abbiamo i novecentisti, gli ottocentisti, i trecentisti, i dantisti e cosí via. Squarotti conosceva in modo approfondito tutta la storia della letteratura dal Placito capuano del X secolo a oggi.
Ecco alcuni autori dei tanti, sui quali ha scritto saggi o monografie: Giosuè Carducci, Carlo Goldoni, Dante Alighieri, Torquato Tasso, Francesco Petrarca, Francesco Berni, il nostro Francesco Jovine, Niccolò Machiavelli, Giuseppe Bonaviri, Guido Gozzano, Igino Ugo Tarchetti, Italo Svevo, Vittorio Alfieri, Giovanni Arpino, Carlo Emilio Gadda, Leonida Rèpaci, Giordano Bruno, sul quale ha curato diverse opere.
Dirò di piú. Conosceva anche tutti i poeti e gli scrittori contemporanei, a tutti i livelli, anche i piú giovani, e conosceva, diciamo cosí, la geografia poetica di tutta l’Italia. Nel senso che, trovandosi a passare per una città, per un paese, sapeva che lí c’era, per esempio, un certo poeta, un certo scrittore.
Quando lo si conosceva di persona, colpiva la sua gentilezza, la sua signorilità, la sua cortesia, il suo garbo. Era una persona dalla gentilezza squisita e sincera che non faceva mai pesare all’interlocutore l’autorevolezza che aveva nel campo delle lettere.
A chi gli mandava un libro – e si può immaginare quanti libri ricevesse – scriveva sempre, ringraziando e, se anche fossero state due sole righe, in quelle due righe c’erano sempre una frase, un paio di aggettivi ben appropriati, che tra l’altro dimostravano che il libro lo aveva letto davvero.
Il suo ultimo libro di poesie, la silloge Le finte allegorie, è uscita nelle nostre Edizioni Eva nell’agosto 2016, con prefazione di Giuseppe Napolitano, ed è stato presentato a Venafro il 3 settembre 2016. La precedente raccolta di poesie era uscita nel 2016, con le edizioni Achille e la Tartaruga, titolo Le domande (e qualche scherzo).
Giorgio Bàrberi Squarotti, un grande uomo e un fine intellettuale, che continuerà a vivere nelle sue innumerevoli opere.
Amerigo Iannacone


Lo scoiattolo

Lo scoiattolo fulvo balzò giú
dal pino, quello un po’ malato ormai,
stette un poco diritto in mezzo all’edera:
curiosamente fra le zampe aveva
non la nocciola, ma la sfera lucida
di acciaio. La posò davanti a sé,
la contemplò con dubitosa cura,
poi la sospinse fra le foglie e l’erba
avanti e indietro, come per un gioco
ma accurato e preciso, molto meno
gratuito del piacere del ragazzo
che inventa vento e calma, nubi e sole
per provare le infinite venture
del tempo, della vita, della storia.

Giorgio Bàrberi Squarotti
[Da Le domande (e qualche scherzo)]


Appunti e spunti
Annotazioni linguistiche
di Amerigo Iannacone

E la cella diventò camera di pernottamento

Tanti i problemi delle carceri italiane. Sta cambiando qualcosa? Sí, cambia (in peggio, ovviamente) la terminologia. Non è uno scherzo, una circolare del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria - Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento, con assoluto sprezzo del ridicolo impone di non chiamare più celle le celle, ma “camere di pernottamento”. E la domandina diventa “modulo di richiesta”, il portavitto “addetto alla distribuzione pasti”, il piantone “addetto alla persona”, lo spesino “addetto alla spesa detenuti” e cosí via.
Chissà come saranno contenti i detenuti! Vuoi mettere la differenza: dormire in una cella e dormire in una “camera di pernottamento”!


Foglio Volante n°4 Anno XXXII Aprile 2017


Tommaso Landolfi: il piú grande

Narratore e scrittore (annullata in lui ogni distinzione o differenza tra l’uno e l’altro), dal tono antico e dal piglio moderno; austero e ilare; solitario e generoso; inventore instancabile di storie assurde e inquietanti; di linguaggi raffinati e beffardi; voce italiana a gara con quella russa di un Dostoevskij o di un Gogol: tutto questo, e oltre e altro, Tommaso Landolfi (Pico, Frosinone, 1908 - Roma 1979).
Poeta, se mai ce ne furono, in ogni sua opera, in ogni sua frase e in ogni parola: nessuno seppe come lui ridare linfa vitale ad un linguaggio che l’aveva perduta, e rivestire di classica regalità termini o blasfemi o plebei. In questo, e fortunatamente solo in questo, un nuovo D’Annunzio: nella sapiente e disinvolta capacità di esternare le parole più armoniose della lingua e l’armonia più profonda delle parole.
Ma mentre D’Annunzio sprecava un tale virtuosismo linguistico giuocando con la sicura e rassicurante esistenza del nulla, Landolfi fu fino all’ultimo impegnato a esorcizzare la possibilità che il nulla nasconda il suo contrario.
Piú grande, perciò, del D’Annunzio. Ma non solo. Piú grande di tutti gli autori, in prosa e in versi, del nostro Novecento. In questo primato, insidiato forse soltanto da un altro creatore come lui di mondi e di linguaggi straordinari: Carlo Emilio Gadda.
Tommaso Lisi


A Tommaso Landolfi

La bocca di certi critici ha una lingua che non perdona!
Cosí di te va dicendo ch’eri soltanto
un trapezista del linguaggio, un acrobata
della parola. Ma tu “volavi senza rete”,
mentre chi di te cosí parla lo fa stravaccato in poltrona.
Tommaso Lisi


La magia

Voglio questa sera
pensarti,
ma la magia della notte
ti allontana da me
come il tempo dai meridiani.
Vorrei fermare la terra,
per poi fermare il tempo,
e il giro delle coincidenze terrestri.
Così, ferma, mi aspetterai.

Arjan Kallço
Korcë (Albania)


Appunti e spunti
Annotazioni linguistiche
di Amerigo Iannacone

Il virus anglogeno

Mi scrive un amico del Foglio volante: «Ciao Amerigo, mi piacerebbe che tu facessi, con la solita verve, un articolo su open day, la scritta che campeggia in tutte le scuole, perfino sulle inferriate del Liceo “Pollione” formiano. Magari lo avessero scritto in latino, capirei l’antifona, ma studiano le lettere classiche e non trovano un’espressione equivalente a quest’inglese che se ne esce dall’Europa per restarci attaccato alle meningi! Cordiali saluti, A. Villa».
L’espressione equivalente c’è sempre (in questo caso basterebbe “inaugurazione”) e qualora non esistesse già, si potrebbe sempre coniare. Quello che non funziona sta nella nostra testa: si tratta di una sorta di virus che sopravvive nutrendosi di pigrizia intellettuale, di servilismo o piaggeria verso quelli che si considerano i padroni, di un provinciale e rozzo tentativo di sprovincializzarsi. Con il beneplacito di chi ci governa che non solo avalla, ma incentiva la mania anglofila coniando espressioni come “jobs act”, “day hospital”, “social housing”, “premier”, “welfare”, “stepchild adoption” e via farneticando. Il morbo è purtroppo cronicizzato: difficile da curare. Pure, direi, seppure debilitati, non abbandoniamo la speranza.


Foglio Volante n°2 Anno XXXII Febbraio 2017


La fanciullesca gioia di Diego Valeri

Diego Valeri nacque nel 1887 a Piove di Sacco (Padova) e visse prevalentemente nel Veneto, tra Padova e Venezia. Insegnò nei licei e fu poi professore di Letteratura francese e di Letteratura italiana moderna e contemporanea nell’università di Padova.
Nel 1943, dopo l’8 Settembre fu condannato per antifascismo, ma riuscí a riparare in Svizzera, da cui ritornò alla fine del conflitto.
Tranne questo doloroso episodio, la vita di Valeri trascorse, senza accadimenti rilevanti, tutta nella scuola; e come egli stesso ha detto, «la scuola, si sa, non è un luogo di avventure drammatiche o romanzesche». Ma ha anche confessato di non essersi mai pentito, in tanti anni, di aver scelto «l’umile lavoro scolastico», preferendolo ad altri piú redditizi e meno faticosi, aggiungendo di aver lavorato sempre con piacere.[1]
Come poeta, Valeri si è tenuto lontano dalle mode. La silloge Poesie vecchie e nuove, del 1930, verrà ristampata sino al 1952; il volume Poesie fu pubblicato nel 1962 e Poesie scelte negli Oscar Mondadori, nel ’76; non vanno dimenticate le poesie per bambini e ragazzi de Il campanellino - S.E.I. Torino, 1928 e 1951.
La poesia di Valeri si presenta facile, sebbene soltanto in apparenza; essa s’è mantenuta «aliena dalle corrosioni intellettualistiche e dalla poesia al quadrato», come ha rilevato Pier V. Mengaldo.
Il Nostro ha sentito l’influsso di Alcyone, opera in cui D’Annunzio ha gioito per il ritorno inaspettato, nella sua anima; della lontana infanzia ed ha definito il fanciullo rinato – anche se per poco – in lui, e cosí amato, «intimo fiore dell’animo... fiore della divina arte innocente...»
Come il D’Annunzio alcionio, Valeri ha trovato rifugio nella natura.
Il Nostro, avendo saputo conservare nell’uomo maturo un’antica, serena meraviglia, ha accolto a lungo dentro di sé, il “fanciullino” pascoliano, sempre cosí curioso e capace di freschi stupori.
Valeri è andato a ricercare le minute sorprese che può riservare la natura, ricevendone una candida letizia: «Oh, la mia vecchia gioia fanciulla!»
A lui non è sfuggito, ad esempio, il luccicare d’un coccio abbandonato sulla terra bruna d’un orto. S’è incantato, aggirandosi in piazza, tra le bancarelle delle erbivendole, a contemplare «i giochi magici del sole» tra gli ombrelloni di nuovo aperti dopo un acquazzone. In uno squallido vicolo, il suo sguardo s’è rallegrato alla vista delle rose, che, sul davanzale d’una finestra, «ridevano come spose / preparate per la festa». Il poeta, proprio come un fanciullo, ha tante volte trasfigurato la realtà. Una colomba «tutta nitida e bionda», che risale lentamente lo spiovente d’un tetto, gli è sembrata «una dolce regina / di Saba / che rimonti le silenziose scale / della sua fiaba»; e cosí, in un canale di Venezia, un barcone pieno di zucche e di cipolle, lo ha visto splendere «fastoso come un bucintoro»...
Nella poesia dal titolo Annunciazione[2] Valeri presenta un ragazzino che, in una domenica mattina di primavera, se ne va gironzolando «con la sua cara e strana felicità segreta / d’andar e di guardare: prendere un po’ di gioia / da tutto, o un po’ di pena, vagando senza meta». Ed è proprio quello che lui stesso è solito fare...
In tal modo il fanciullo rivolge lo sguardo a dei vasi fioriti a una finestra; a un improvviso volo di colombi, al chiaro viso d’una ragazza, a un cane, brutto nell’aspetto, ma dagli occhi soavi
Quasi senza accorgersi, egli arriva in cima ad un colle, dove sorge una chiesetta. Il panorama che si gode da lassú è vastissimo e luminoso.
Il fanciullo, che si ferma assorto, d’un tratto, avverte dentro di sé, per un attimo, ma un «attimo immenso», come un annuncio per lui del tutto nuovo... E lo interpreta cosí il poeta: «Ecco: e nel cuor fanciullo nasce improvviso un senso / d’universo e d’eterno, e un nuovo amore pio della vita.»
Valeri si spense quasi novantenne a Roma, nel 1976.

Franco Orlandini


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[1]Dall’Antologia popolare di poeti del Novecento, a cura di Masselli-Cibotto, Vallecchi, 1973.
[2]Dalla raccolta Ariele, 1924, poi confluita in Poesie vecchie e nuove.


Appunti e spunti
Annotazioni linguistiche
di Amerigo Iannacone

Lenzuoli e lenzuola

Nella nostra bella e capricciosa lingua ci sono parole che hanno due distinti plurali con due diverse accezioni, tra le quali a volte non è facile districarsi, perché ogni vocabolo e ogni forma del vocabolo ha sue proprie peculiarità. Esaminiamo qualche caso.
“Grido” al plurale può fare “grida” e “gridi”: le grida sono dell’uomo, i gridi degli animali o anche dell’uomo se isolati o comunque non considerati nel loro susseguirsi. “Urlo” al plurale può fare “urli” e “urla”. Stessa cosa che per “grido”? Sarebbe troppo facile. “Gli urli”, dicono i vocabolari, è forma singolativa, cioè forma che oppone l’individuo alla massa (opposto a collettivo), come per es. frutto è la forma “singolativa” rispetto a frutta e la forma “singolare” rispetto a frutti.
“Braccio”, semplificando, al plurale fa “braccia” se si intendono la due braccia umane, “bracci” se si intendono p. es. i bracci di un lampadario, di giradischi e simili, o bracci meccanici di macchine come una gru, un escavatore e sim. Ma anche i “bracci” umani, se presi singolarmente, p. es. “tutti i bracci sinistri dei ragazzi”.
Il plurale normale di “filo” è “fili”, mentre “le fila” ha valore collettivo e in locuzioni particolari, es.: “Ha in mano lui le fila della congiura”.
Il plurale di “calcagno” è “i calcagni” in senso proprio e “le calcagna” in senso figurato.
Il plurale normale di “lenzuolo” è “lenzuoli”, mentre il plurale “lenzuola” indica il paio che si stende sul letto. Molti – sarei tentato di dire tutti – usano erroneamente “lenzuola” per tutti i casi e non solo per la coppia.
Un po’ di anni fa, eravamo alla fine degli anni Ottanta, scoppiò uno scandalo che fu chiamato delle “lenzuola d’oro” e riguardava le forniture di biancheria per i treni notturni, ovvero i lenzuoli per le cuccette e i vagoni letto, che vennero pagati a prezzi gonfiati e fuori mercato. Raccontò Gaetano Afeltra, allora collaboratore delle pagine culturali del Corriere della Sera, che lui mandava i pezzi al giornale scrivendo “lenzuoli d’oro” e gli stenografi (sì, all’epoca c’erano ancora gli stenografi) gli correggevano inesorabilmente “lenzuola d’oro”. E in effetti il caso rimase con il nome di “scandalo delle lenzuola d’oro” e non “dei lenzuoli d’oro”. Il plurale “lenzuola” è tanto diffuso che se uno usa la forma “lenzuoli”, in qualunque caso, viene percepito come un povero ignorante.


È morto Tullio De Mauro, amico dell’esperanto

Il 5 gennaio scorso è morto a Roma Tullio De Mauro, linguista di chiara fama e da molti decenni amico dell’esperanto. Aveva 85 anni, essendo nato a Torre Annunziata nel 1932. È stato anche Ministro della Pubblica Istruzione, nel 2000-2001, col Governo Amato II.
Altri hanno illustrato e illustreranno i suoi meriti scientifici. Noi vogliamo ricordare i numerosi testi in cui si è espresso favorevolmente all’esperanto, a partire dalla sua introduzione alla edizione moderna del Manuale di Esperanto di Bruno Migliorini negli anni ’90 del secolo scorso.
De Mauro riteneva che l’esperanto potesse essere usato con profitto a livello europeo. Per usare le sue parole: «Una comune lingua senza base etnica definita può essere (come già è tra gli esperantisti) una chiave facilitante, transglottica, dei sempre piú necessari rapporti tra culture. E, in molti casi (redazione di testi e codificazioni di rilievo internazionale), potrebbe assumere una importante funzione di riferimento giuridicamente primario e nazionalmente neutro. Si pensi alla complessa esperienza in atto nell’Unione Europea, su cui si è soffermato da ultimo Claude Piron (Le dèfi des langues. Du gauchis au bon sens, Parigi 1994)».
Lo stesso favore per l’esperanto De Mauro ha ribadito in una delle sue ultime presentazioni pubbliche, il 15 novembre scorso, intervenendo ad una giornata in onore di Renato Corsetti all’Università di Roma.


Il poeta e Dio
(o il poeta è Dio?)

A Dio, solo il poeta è somigliante.

Non si dice di Dio ch’è creatore?
e del poeta che anche lui crea?

A fare l’uno dall’altro distante
c’è che il poeta muore.

Coreno Ausonio, 24/7/2016
Tommaso Lisi


Foglio Volante n°1 Anno XXXII Gennaio 2017


Gli Altavilla e le Efsiei

Riporto uno stralcio di un articolo uscito sul Fatto quotidiano del 25 novembre 2016, a firma Marco Palombi:
«Cassino era famosa per la celebre abbazia benedettina, per una lunga battaglia della Seconda guerra mondiale e i relativi cimiteri di guerra e infine per la fabbrica Fiat. Grande è stata dunque la nostra sorpresa quando Alfredo Altavilla – che è di Taranto, ma di lavoro fa il chief operating officer di Fiat-Chrysler per l’Europa – ha cominciato a magnificare dentro la fabbrica ciociara i meriti di una cosa chiamata“efsiei”. Dice: Efsiei di qua, Efsiei di là e pure “Efsiei ha lottato per ridare al sistema Italia flessibilità, velocità, innovazione”. E persino: “Efsiei assumerà 1.800 persone”. Matteo Renzi, lí accanto, annuiva convinto, Sergio Marchionne pure. Solo la consulenza di un amico con vasto uso di mondo ci ha consentito infine di capire che Efsiei sarebbe quella che noi plebei chiamiamo “Effecià”, cioè FCA, società che avendo sede legale in Olanda e fiscale a Londra può ben dirsi “Efsiei”. [...] Vabbè, la ripresa mondiale dell’auto ha dato al premier quel po’ di crescita di cui può vantarsi e allora «viva Efsiei» che è in utile e assume (senza art. 18), anche se nel 2003 aveva in Italia 45 mila occupati e a giugno 2016 neanche 29mila, parecchi dei quali in cassa integrazione, nonostante i generosi sgravi renziani».
Ho ripreso dall’articolo solo la parte che riguarda gli insulti alla nostra lingua. Tra l’altro, avrete notato da questa bella prosa ibrida che, adeguandosi, asinescamente all’inglese, ora viene anche abolito l’articolo davanti a nomi propri come FCA, Purtroppo gli Altavilla, chief operating officer, qualunque cosa questo significhi, in Italia sono tanti e aumentano sempre piú, forse si riproducono per clonazione, o per partenogenesi. E ogni giorno aggredisco sempre piú arditamente la nostra lingua, manomettendo pericolosamente sia l’italiano sia l’inglese.

Amerigo Iannacone


Trama incompiuta

Dopo aver percorso ogni sentiero,
spero di proseguire il mio viaggio
che non ha trovato ancora
la quiete del posto che cercava,
un porto dove ancorare i sogni.

Mi rincuora solo immaginare
che in un domani dell’esistenza,
questa mia trama incompiuta
possa alfine incontrare la perla
che manca finora alla collana.
Fabiano Braccini
Milano


Appunti e spunti
Annotazioni linguistiche
di Amerigo Iannacone

L’endorsement dei voltagabbana

In occasione del referendum costituzionale di dicembre ho sentito decine, centinaia di volte la parola endorsement. Sono andato a cercarla sul dizionario inglese-italiano (ma è normale che in Italia per capire chi parla bisogna prendere il vocabolario inglese?) e ho scoperto che significa – nel linguaggio commerciale – “girata” (p. es. di una cambiale). Il che fa pensare che quelli che usavano la parola endorsement, volessero dire “ripensamento”, “cambiamento”, “inversione di rotta” o anche “giravolta”, riferendosi a coloro che passavano dal “sí” al “no” o viceversa, a seconda del vento che tirava, a seconda delle promesse (pubbliche o, spesso, private). Evidentemente si usa endorsement per non chiamare voltagabbana i voltagabbana, ma facendo pensare, con un vocabolo misterioso a chissà quale struggimento interiore.

Foglio Volante n°12 Anno XXXI Dicembre 2016


Nel mondo delle scimmie

Nel mondo delle scimmie, quasi tutti gli scienziati sostenevano che la scimmia discende dall’uomo.
«Oh, mamma mia, — disse Paquita quando lo sentí per la prima volta — che brutti antenati che abbiamo. Ma allora anche noi un tempo avevamo solo due mani, e magari non sapevamo neppure salire sugli alberi!»
«Piú esattamente — spiegò Maquita, una scimmia scienziata che sapeva tutto — la scimmia e l’uomo hanno antenati comuni».
«Ma non è possibile! Per noi è un disonore, È davvero umiliante!»
«Ma è cosí. C’è stato un fumoso scienziato, pardon: un famoso scienziato, Darvin, che lo ha dimostrato scientificamente. Per la verità in principio si chiamava Dar Vino, e gli si addiceva pure, anche se in verità il vino piú che darlo se lo beveva lui. Poi si fece cambiare il nome prima in Darvino e poi per risparmiare una vocale solo in Darvin».
«Io non ci credo, — intervenne Daquita — che schifo: gli uomini tutti spelacchiati. Sono costretti a mettere della robaccia addosso per ripararsi dal freddo».
«Peggio per loro». Disse Maquita.
«E poi devono andare a lavorare, non sono liberi come noi». Disse Baquita.
«Peggio per loro». Disse Maquita.
«Devono studiare, devono andare a scuola». Disse Zaquita.
«Peggio per loro». Disse Maquita.
La cosa non piaceva a nessuno, ma era cosí e non ci si poteva fare nulla.
«Noi ovviamente siamo superiori, – disse Maquita – ma proprio per questo dobbiamo avere in alta considerazione tutti gli animali e anche gli uomini. Anzi direi soprattutto gli uomini, che con tutto quello che combinano con le loro testoline malate, rischiano l’estinzione.»
Maquita aveva una grande mente, era una grande scienziata ed era capace di trasmettere conoscenze ed emozioni. Continuò a parlare per più di due ore, spiegò scientificamente, citò dati, raccontò episodi, fu davvero convincente e a tratti commovente. E tutte le scimmie presenti ascoltarono, capirono, si convinsero. E quando Maquita tacque, scoppiò un caloroso applauso.
Da allora, anche Paquita, Daquita, Baquita, Zaquita e tutte le altre scimmie guardarono gli uomini con occhi diversi.

Amerigo Iannacone


Il tempo e il cibo

Cibo che non sfama
e tempo deludente divoriamo
nel frenetico scorrere
di giorni sempre uguali.

Lievita nei pensieri
l’insonne profilo allucinato
nello spessore di un tempo che indagava
i limiti del sogno e del miraggio.

Siamo manse anime vaganti
su tracciati di multipli affanni,
ombre insicure che rasentano muri
anch’essi feriti da sismici sussulti.

Un cosmo di vertigini attorno
e riducenti perimetri di vuoto
dove divampa il gelido respiro
di criminali indifferenze.

Non la natura soltanto è volano
sull’inflazione dei giorni che non fanno storia.
Siamo arterie pulsanti se ad altri destini
ci accostiamo con empatico slancio,
oltre le scaglie d’interessi implosi.

Roma, Novembre 2016
Rosa Amato


Appunti e spunti
Annotazioni linguistiche
di Amerigo Iannacone

La K, una lettera invadente

È un po’ presuntuosetta la lettera K (che, per inciso, si chiama “Cappa” o “Kappa” e non “Kei”), perché la troviamo sempre piú spesso in posti che non le competono. È un po’ invadente. Da un po’ di anni infatti si vede sempre piú spesso scritto “kilometro” per “chilometro”, “kilogrammo” per “chilogrammo”, “kilocaloria” per “chilocaloria”, “kilohertz” per “chilohertz” e cosí via. Gli stessi vocabolari talvolta si sono adeguati e scrivono «kilo- vedi chilo-».
Se andate in un mercato, quasi sempre trovate scritto, per esempio, “patate: 1 euro al kilo”, con la K. E poi c’è il linguaggio informatico che ci fa scrivere “Kilobyte” e simili.
Per non parlare del linguaggio dei messaggini telefonici, dove “che” diventa “ke”, e “perché” diventa “xché”. Ma qui siamo al gergo giovanilese, di cui abbiamo già parlato e di cui magari riparleremo in altra occasione.

Foglio Volante n°11 Anno XXXI Novembre 2016


Poesia ed esperanto

In Italia, è cosa risaputa, si legge poco, si legge pochissimo, e negli ultimi anni le cose sono andate addirittura peggiorando. Fino a qualche anno fa capitava anche di vedere, in treno, in aereo, in tram, in pullman, qualcuno con un libro aperto. Oggi si vedono solo ragazzi (e per la verità non solo ragazzi) che tormentano ininterrottamente i telefonini con i loro giochi obnubilanti. Vedere una persona in spiaggia, sotto l’ombrellone, o nei giardini pubblici che sta leggendo un libro è cosa altamente improbabile.
Il livello culturale medio si abbassa sempre piú e siamo a quello che chiamano “analfabetismo di ritorno”. Complice la televisione che nei canali principali e negli orari di maggiore ascolto, trasmette solo programmi demenziali. La lingua corrente diventa sempre piú piatta, ben lontana da quella della tradizione letteraria, dei poeti e degli scrittori. E spesso gli stessi scrittori si adeguano alla lingua piatta della massa.
Il mercato librario è in decrescita. È vero che il numero dei libri che si stampano è piuttosto alto, ma le tirature sono sempre piú basse. Se fino a pochi anni fa le tirature minime, anche di un autore sconosciuto al primo libro, erano di 500-1000 copie, oggi si tirano 100-200 copie e spesso anche meno. C’è la crisi economica? Certo. Ma la crisi economica è effetto di una piú grave crisi: la crisi morale. La crisi economica è partita, come è noto, dai giochi sporchi di alcuni banchieri.
Da qualche decennio c’è stata nell’uomo una sorta di “mutazione antropologica”, che ha abbassato il senso dell’etica e della morale, per cui si parla di “relativismo etico”, dove non esistono valori morali assoluti ma sono variabili in funzione dei mutamenti sociali, politici ed economici che si verificano nella società, ma anche in rapporto alla convenienza e agli interessi personali.
Perché le cose cambino deve cambiare l’uomo. Certo non è cosa da nulla, Ma non bisogna demordere. Perché si possa sperare di cambiare l’uomo, bisogna parlare alla sua sensibilità. E questo è il ruolo della cultura, e soprattutto dell’arte, di tutte le arti, e della poesia in particolare.
La poesia è qualcosa di insostituibile per la formazione dell’individuo, per toccare la sua sensibilità.
E l’esperanto che c’entra? L’esperanto è solo una lingua, penserete. Sia pure una lingua molto bella e particolarmente facile da imparare.
È vero, è una lingua, ma per come è nata e per come vive, è inevitabile che ci sia in essa quella che gli esperantisti chiamano interna ideo. Cioè un’idea in qualche modo insita ed è quella che vorrebbe l’affratellamento di tutti i popoli, di tutte le nazioni.
Tutti gli esperantisti possono vantare amicizie soprannazionali. Quello che si chiama Esperantujo, il Paese dell’Esperanto, non ha confini geografici ma è diffuso in tutto il mondo, nei cinque continenti e ha radici nei cuori degli esperantisti.
Poesia ed esperanto in fondo sono cose non molto distanti e non è una caso che l’iniziatore dell’esperanto, il russo Ludwik Lejzer Zamenhof, oltre che uno studioso di lingue, anzi direi prima che uno studioso di lingue, fosse un poeta.

Amerigo Iannacone

Stralcio della relazione tenuta a Sant’Angelo di Brolo (Messina) il 18 ottobre, in occasione della premiazione del Concorso “Poesia da tutti i cieli / Poezio el ĉiuj ĉieloj”.


Desiderio

Là nella strada,
al freddo di novembre,
guardo i piedi di anonimo ragazzo
scuro di pelle e li intravedo nudi
dentro sandali stanchi, da strapazzo.
È fermo, affascinato, a una vetrina
che propone il conforto del cammino:
scarpe costose, belle, raffinate,
già pronte per il gelo ormai vicino.
Sospira. Poi affonda nelle tasche
le mani, dentro un vuoto desolato,
e se ne va con il desío d’estate
sognando, forse, scarpe a buon mercato.

Lucia Barbagallo


VERSETTI E VERSACCI
di Bastiano

Avanzamento sociale

Prima era uno scopino
poi diventò spazzino
e quindi netturbino.
Oggi, com’è logico,
può vantarsi di essere
operatore ecologico.

Foglio Volante n°10 Anno XXXI Ottobre 2016


Il degrado del linguaggio tra volgarità e ipocrisia

Il degrado morale si misura anche dalla volgarità del linguaggio. Il cinema e la televisione e soprattutto il cinema in televisione, hanno sdoganato quella volgarità di linguaggio che una volta – neppure molti anni fa – assolutamente non si concepiva o al massimo si poteva sentire magari nelle bettolacce di terz’ordine. E nemmeno cosí disinvoltamente e spudoratamente come il linguaggio che oggi ci porta in casa a tutte le ore la televisione.
C’è qualcuno che si è preso la briga di contare i fuck e derivati, presenti nei film che ci arrivano da oltreoceano. I primi in classifica: in The Wolf of Wall Street, film di Martin Scorsese del 2013 se ne incontrano 569; 435 in Summer of Sam di Spike Lee, del 1999; 428 in Nil by Mouth, di Gary Oldman, del 1998; 422 in Casinò, ancora di Scorsese del 1995; e cosí via.
Se si aggiungono altre parole come shit e bitch e altre scurrilità come i nomi volgari degli organi sessuali, in The Wolf of Wall Street arriviamo a 687, vale a dire – visto che il film dura quasi tre ore – 3,8 al minuto. In Swearnet: The Movie, film canadese di Warren P. Sonoda del 2014, si contano 935 volgarità. Poiché il film dura un’ora e 52 minuti, possiamo calcolare una media di 8,35 parolacce al minuto, una ogni 7,18 secondi: una bella media.
Non ne sono esenti neppure i cartoni animati: è uscito lo scorso agosto il film di animazione Sausage Party, la cui prima parola è shit. Seguono una sfilza di parolacce. In pericolo il primato per i film di animazione di Suth Park, del 1989, in cui si contano 399 parolacce.
Per non parlare dalla produzione italiana, che non è certo da meno. Abbiamo imparato a importare dalle Americhe tutte (e solo) le cose peggiori. Certo che negli Stati Uniti ci sono anche cose buone, ma noi quelle gliele lasciamo.
I film italiani – direi grosso modo a partire dagli anni novanta del secolo scorso – sono infarciti di volgarità che qui non è necessario le ripeta: basta andare a cinema, per un film qualsiasi, o accendere la televisione. Non sono molte le eccezioni. In particolare per i film comici. Parrebbe che senza volgarità non ci sia comicità. Eppure in tutta la vasta filmografia (100 pellicole) del piú grande attore comico di tutti i tempi, vale a dire Totò, non ci sono mai volgarità. Una sola parola un po’ sopra le righe, si trova nel film I due colonnelli, in cui, all’ufficiale tedesco che gli urla: «Io ho carta bianche!» risponde «E ci si pulisca...».
Non hanno avuto bisogno di usare parole volgari altri grandi comici, come Massimo Troisi, Franchi e Ingrassia, Peppino De Filippo, Walter Chiari, eccetera. O, andando in campo internazionale, Stanlio e Ollio. Charlot, Jerry Lewis, Peter Sellers avevano forse bisogno di volgarità per far ridere?
La cosa curiosa è come questa moda delle parolacce, progredisca parallelamente all’altra moda ipocrita e ridicola del cosiddetto “politicamente corretto” (che poi vorrebbe significare “eticamente” corretto: la politica non c’entra per nulla). Cioè si può usare, come abbiamo visto, una parolaccia ogni sette secondi, ma non si possono usare parole come “sordo”, “cieco” e nemmeno si può dire di un alunno “respinto”, perché sono ritenute parole offensive.
Certo che è strano questo nostro mondo!

Amerigo Iannacone


Nancy

Nancy, la mia gattina
(la notte dorme al piano
sotto di noi, che siamo
un po’ la sua famiglia)
aspetta ogni mattina
che io scenda per farla uscire.
Se non muore lei prima,
un giorno non mi vedrà
piú scendere. Ma non smetterà
per questo di ritenermi
– tale e quale
ritiene se stessa – immortale.

Coreno Ausonio, 19/07/2016
Tommaso Lisi


Appunti e spunti
Annotazioni linguistiche
di Amerigo Iannacone

Inglese pigliatutto

Mi era già capitato di sentire parole latine come junior, medium, media, Venus, lette come fossero inglesi: “giunior”, “midium”, “midia”, “Vines”, e anche di vedere scritto – purtroppo da un’azienda produttrice – “albums” con un plurale all’inglese di una parola latina. Le ultime le ho sentite di recente: plus e minus che diventano nella pronuncia “plas” e “mainus”.
Ma anche parole di altre lingue, cosí, per esempio, la parola tedesca Reich pronunciata “reic’”, o la parola spagnola golpe, pronunciata senza la vocale finale, come fossero parole inglesi, perché se non è italiano, vuol dire che è inglese. Come dire : l’inglese pigliatutto.

Foglio Volante n°9 Anno XXXI Settembre 2016


Le disavventure della bellezza

È appena uscito per le Edizioni Eva la raccolta di poesie Le finte allegorie (Ed. Eva, Venafro 2016, pp. 120, €15,00. ISBN 978-88-97930-83-9. Ne riportiamo la prefazione di Giuseppe Napolitano.

...tre leggeri segni
che non vogliono dire nulla. E indica
come si può giocarci il proprio tempo
e ragione, e meglio ancora il nulla.

Ricordo che, da ragazzo, mi impressionò un quadro – non so più in quale libro lo avessi – dal titolo che mi parve stranamente inquietante: “Susanna e i vecchioni” (o qualcosa del genere). Mi chiedevo, riguardandolo, perché mai dovessero proprio i vecchi rimanere tanto abbagliati dalla nuda bellezza di quella figura femminile, la quale del resto pareva ritratta in una radiosa indifferenza. In quel tempo, peraltro, alla bellezza del corpo muliebre avevo dedicato una lirica, “Poesia della carne”, ispirata da un “nudo” del pittore Antonio Sicurezza: “corpo femmineo, immagine di Dio” – concludevo i miei versi, lontano, pur nella mia curiosa adolescenza, dall’associare tentazioni erotiche alla rappresentazione artistica (o almeno così volevo credere).
Questa premessa, volutamente privata, dovrebbe, a me in primis, chiarire il senso dell’operazione letteraria alla quale Giorgio Bàrberi Squarotti ha dedicato buona parte dei suoi ultimi anni (se crediamo alle date che segnano il succedersi continuo dei momenti creativi di questa silloge complessa). Una così lunga sequenza di immagini – ma immagini che si fanno storie – con protagonista costante il nudo femminile (parziale o integrale, offerto spesso alla violenza, anche sgradevole, ma comunque esaltato nelle sue forme, sia pure nei toni cangianti del dramma scherzoso), come dev’essere interpretata, senza cadere – ed è una sfida – nel compiaciuto rischio di un pruriginoso voyeurismo da buco della serratura?
Taccuino del vecchio cercatore? O dottrina di un estremo principiante... Volessimo parafrasare altre ben note esperienze di poeti abbastanza in là con gli anni. Ma, se è vero che la poesia non ha data di scadenza, è anche vero che non si va in pensione da poeta: finché c’è vita, si lavora – tutto qui. E il lavoro di un cercatore, per quanto vecchio, è – ancora! semplicemente – cercare (finché la continua pratica si fa gustoso esercizio dottrinario). Qui si produce in effetti l’esito sommo di una curata ricerca e se ne propone l’insieme in una scansione articolata e raffinata, e nemmeno costruita, poiché si ha la netta sensazione che le pagine (per quanto datate) abbiano avuto gestazione casuale e non preordinata – non subito, almeno – alla silloge da pubblicare.
È da credere piuttosto che si tratti di una ricorrente manifestazione della benvoluta e senz’altro opportunamente medicata ma ineluttabile malattia che è l’amore per la bellezza (o della bellezza), che nel nudo si sublima. E l’insistere sul tema non appare certo (dopo qualche iniziale perplessità) una gratuita dimostrazione di abilità descrittiva: l’autore di questa enciclopedica riflessione sulle disavventure della nudità ben conosce le sue riserve di stile – pressoché inesauribili.
Gli episodi narrati, a costruire la trama di questo libro ricco di sorprese incantevoli e incredibili sospensioni, sono frutto probabilmente di eccezionale capacità inventiva, ma è anche probabile che siano nati, in qualche misura, da sollecitazioni o suggestioni, suggerimenti o solleticazioni di origine concreta – può essere bastato, una volta, cogliere l’idea di una storia in un sorriso, un gesto, un atteggiamento, o un frammento di racconto, un aneddoto, ascoltato. È nota, a chi ben lo conosca attraverso i suoi libri di poesia, la predisposizione di Giorgio Bàrberi Squarotti a registrare (nei suoi viaggi o nelle soste in un caffè, camminando o chiacchierando con gli amici) qualunque stimolo provenga dall’esterno – e farne cosa sua che vive in lui e si fa poetica trasposizione o trasfigurazione. Le creature che vivono in queste pagine, e sono frutto – poliedrica fattura d’artista – di un misurato laboratorio dei sensi, hanno un’anima e un corpo, anche se è il corpo ad apparire, a sbattersi certe volte in prima persona, ma la fisicità è condizione dello spirito, è manifestazione di una interiore violenza che grida e chiede vita, nel farsi exemplum, nel dirsi in poesia.
Qui, di qui si dipana una trama incredibile e reale, onirica e materica insieme, di un presente incombente ingombrante “spoon river”: un viaggio di figure. Qui si coniuga infine l’esistenza di un mondo, il nostro mondo, come sospeso fuori del tempo, eppure nel tempo incastonato con le sue gemme, a splendere di piccole schegge che fanno il luminoso firmamento di una dolente (non sempre, poiché spesso è consapevolmente buffonesca) umanità: noi.
***
Già il titolo di questo libro sembra voglia mettere sull’avviso il lettore, magari quello meno smaliziato, il quale comprenda quanto ci sarà di gioco nel viaggio che sta per intraprendere: ci sono allegorie, ma sono finte, quindi è tutto reale? È così che deve intendersi, chissà. Ma dalle prime pagine si afferra il bandolo della matassa e sarà poi abbastanza facile scioglierla. Oddio, senza aspettarsi più di quello che c’è e si vede subito: la gioia di una tavola imbandita e ricca di ogni leccornia (e absit iniuria verbis, in questo caso è proprio il caso di sottolinearlo). Appena “le due cameriere, castana l’una, l’altra bionda, entrambe amabili e giustamente giovani, si siano spogliate nude” nell’oste-ria di Clusone, comincia la giostra e non la smette più di girare, fino alla fine del libro – un ritornello, un refrain, un rondò... insomma una ludica frenesia che trascina verso un finale subito atteso poiché giustamente immaginato (per parafrasare stavolta il gioco linguistico dell’autore). Ma prima di arrivarci converrà visitare stazioni di posta e sontuose abitazioni, siti archeologici e squallide dimore di mercanti... Senza dimenticare (altra subliminale dichiarazione d’intenti) che «questo istante è vero solo mentre tu lo scrivi»...
Inutile stare a segnalare episodi o figure particolari: hanno tutti, tutte, l’importanza che compete ad un campionario ideale, poiché tutti, tutte devono rispondere all’as-sunto centrale della composizione, alla volontà prima del compositore: l’unisono di un concerto nel quale ogni strumento, ogni voce ha pari dignità. Se proprio si volesse cercare lo slancio lirico più elevato, quando un po’ si distacchi dalla (voluta) voluttà descrittiva e sposi invece una più profonda linea di consapevolezza estetica, pur si potrebbero indicare alcune composizioni nelle quali più alta si leva la cifra espressiva e più esplicita si rende quindi la regola del gioco: si dichiara allora (come in “A Mondoví, veramente”) quando «si dissolvono le nubi / che decorano il culmine del sogno / dipinto», e lì, di lì, si può alzare lo sguardo verso «il rettangolo del cielo», quello puro e celeste in cui ogni immagine appare, riappare pura e scevra d’ogni malizia terrena, in un oltre che è quello della pura fantasia, la molla e la mamma dell’ispirazione, la culla del nostro sogno.

...perfetta nella forma della vera
arte, che non patisce il tempo, e ancora
eternamente nuda si mostrava
ilare, pura.

Giuseppe Napolitano
Sousse, 27-30 maggio 2016

Foglio Volante n°8 Anno XXXI Agosto 2016


Saba: il Leopardi del Novecento

Umberto Saba non viene mai citato insieme ai grandi poeti del Novecento: Ungaretti, Montale, Quasimodo. L’esclusione dipende dall’assenza di clamorose novità (che non significa mancanza di originalità) nel poeta triestino rispetto a quelli della triade.
La poesia di Saba rimanda di piú a quella del diciannovesimo che non a quella del ventesimo secolo. Chi ama la poesia di Saba non lo fa in considerazione di una sua qualche “rivoluzione” linguistica o stilistica; la ama perché trova quella poesia semplicemente autentica. «Tardiva?», rispetto a quella degli innovatori sopra ricordati. La si può chiamare anche cosí, purché cosí non si intenda al tempo stesso disconoscerla o misconoscerla.
Ma se non possiamo accostare Saba ai tre poeti maggiori del nostro Novecento (e nemmeno all’altro grande poeta, e prosatore, Vincenzo Cardarelli), a chi lo accosteremo? Lo accosteremo a uno dei piú grandi, anzi al piú grande dell’intero Ottocento – nostro e non soltanto nostro – Giacomo Leopardi.
Non c’è nella poesia del Novecento nessun poeta che ripeta e riproponga le meraviglie (come altrimenti chiamarle?) leopardiane, come le ripete e ripropone Umberto Saba. Cosí, se non possiamo accostare quest’ultimo agli Ungaretti, ai Montale e ai Quasimodo, lo possiamo accostare a Giacomo Leopardi.
Il piacere e lo stupore che suscitano in noi i versi del recanatese sono gli stessi piacere e stupore che suscitano in noi i versi del triestino.
L’accostamento di Saba al Leopardi richiede almeno una precisazione: che riguarda il già nominato Vincenzo Cardarelli. È quest’ultimo, per molti, il degno erede, il vero emulo di Leopardi. Lo è per sua stessa esplicita dichiarazione, per sua intima convinzione e formazione, e infine per la composizione stessa della sua poesia. Tutti meriti, questi, eccezionali; ma con un solo e grosso demerito: è piú un poeta leopardiano che un poeta paragonabile a Leopardi, il nostro Cardarelli!
A differenza della poesia di Saba, che fa pensare a quella di Leopardi senza però somigliarle, lo poesia di Cardarelli fa pensare a quella di Leopardi perché ad essa troppo somigliante. È una poesia, quella di Cardarelli – lo sappiamo bene, noi suoi accaniti ed estasiati lettori – bellissima ma somigliantissima a quella di Leopardi. Altrettanto bella è la poesia di Saba: non perché anch’essa somigliantissima a quella di Leopardi, ma perché all’altezza di quella di Leopardi.
Cosí il nostro Novecento annovera almeno cinque grandi poeti: Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba e Cardarelli. I primi tre, perché hanno inventato la poesia “nuova”; il quarto, perché ha ripetuto nell’appena passato secolo ventesimo il miracolo della poesia leopardiana; il quinto, perché è stato un poeta autenticamente leopardiano.

Coreno Ausonio, 11/07/2016

Tommaso Lisi


Inverno

È notte, inverno rovinoso. Un poco
sollevi le tendine, e guardi. Vibrano
i tuoi capelli selvaggi, la gioia
ti dilata improvvisa l’occhio nero;
che quello che hai veduto – era un’immagine
della fine del mondo – ti conforta
l’intimo cuore, lo fa caldo e pago.
Un uomo s’avventura per un lago
di ghiaccio, sotto una lampada storta.

Umberto Saba
(Trieste, 9 marzo 1883-Gorizia, 25 agosto 1957)