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- Autore
- Collana
- Pagine
- Anno
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Eppure |
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Amerigo Iannacone |
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La stanza del poeta |
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64 |
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2015 |
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€ 9,00 |
L’immagine sullo specchio
È subito chiaro il senso di questa operazione editoriale (raccolta di pagine poetiche sparse negli ultimi cinque anni), di questa confessione lirica che Amerigo Iannacone offre ai lettori. Fin dai primi testi, infatti – e si direbbe addirittura fin dal titolo, che è un manifesto d’intenti –, leggiamo le giuste chiavi per entrare nel libro, nella sua trama tematica; leggiamo le parole/emblema, gli stilemi, i versi che ci dicono come orientarci, parlandoci delle sue problematiche esistenziali – che sono le nostre –, filtrate dalla sua (ben nota, a chi lo segue ormai da sempre) arguta bonomia, dalla sua oraziana misura di vita.
Cominciamo da “Enigma”, perché è chiaro a tutti che «non ci sono spiegazioni» a quello che ci tocca vivere, malgrado certe affermazioni delle scienze o le ingiunzioni della fede (chi ce l’ha), siamo spesso costretti a brancolare nel buio e incapaci di comprendere l’enigma che noi stessi siamo. “Eppure” (e chi sa quanto c’entra Galilei e la sua determinazione scientifica nel voler sciogliere gli enigmi dell’universo), anche se «siamo l’immagine / che passa sullo specchio / siamo il vento che fugge», non possiamo evitare di guardarci in quello specchio, nei riflessi che ci dicono a che punto siamo arrivati, quanto abbiamo sprecato e quanto dobbiamo cercare di mettere a frutto per andare avanti: «Tutto / – ogni ora ogni minuto – / fu degno sempre d’essere vissuto». Questa è una reminiscenza di una lezione antica, per la quale si potrebbe ancora scomodare il buon nome di Orazio, ma sono diversi quelli che vengono alla mente. «Anche gli eterei castelli / delle attese / servono alla vita»: proporsi obiettivi aiuta a guardare avanti, mettendo da parte il passato, considerando meglio il peso del presente, che appunto serve a costruire castelli di attesa.
«Aveva forse ragione Pirandello»: non siamo mai solo quello che vediamo, nemmeno quello che ci sforziamo di essere, quando riusciamo ad aggiustare la “corda civile” per presentarci in pubblico: siamo sempre quel che gli altri vedono in noi. Eppure (è proprio il caso di parafrasare l’autore) non ci si può fermare a rimirarsi troppo, ad acchittarci come damerini o fingere aspetti insoliti per adeguarci alle mode: invece si deve mostrare la faccia che si ha, la prima che lo specchio ci rimanda, la più “normale”.
La poesia è «voce di libertà». Ed è anche «medicina la poesia» – specie quando riporta a galla, magari anche con una punta di amarezza o disillusione, momenti lontani, memorie sopite eppure vive nella cassaforte dell’animo che tutto custodisce... Così «Ritorna rinasce rivive il candore / di un amore lontano»: è solo una pallida immagine, ma per un attimo è vita vera, è rivissuta emozione, e diventa, in poesia, anche testimonianza da condividere. La libertà di esprimersi, infatti, in poesia è necessità di confronto, è apertura di squarci sereni nel quotidiano ombrarsi degli eventi. Ci si trova e ci si ritrova nel gioco delle parole che alludono, suggeriscono e incantano ma pure accendono empiti di umana partecipazione all’universale trottola dell’esistere.
Il paese natale (che è quello in cui ancora vive, il poeta) è lo sfondo ideale per contemplare il vivere dell’umanità spicciola, terreno di privilegiata analisi di un acuto osservatore. E, in quell’ambito, la famiglia – come in particolare il figlio che si sposa (nella sezione finale del libro, “Nuptiae”, interamente dedicata al suo matrimonio) – assume un ruolo di ancora maggior valore umano, da considerare e mandare ad esempio, e costituisce – come sempre per Amerigo – un vasto bacino di stimoli letterari, per la forza evocativa che ancora hanno in lui, educato ai classici, alla grande poesia del passato, i rapporti familiari nella dimensione poetica.
Un’ultima considerazione va fatta sul rapporto che mi lega – da ormai quasi tre decenni – all’amico Amerigo, fratello di avventura poetica. Ci lega appunto la comune passione per la scrittura poetica, non solo: abbiamo entrambi la ferma convinzione che la poesia (per chi la fa e per chi la usa) possa essere “medicina”, ma in senso lato, nel senso cioè che ci si possa riconoscere nelle parole di un altro, riconoscerle come proprie e provarne dunque conforto. Medicina dunque adatta a situazioni diverse, ogni volta che nel dolore dei giorni si avverta il bisogno o solo il desiderio di una voce amica, di una parola buona.
Il fatto infine che Amerigo Iannacone sia un editore non gli ha impedito, pur avendo a disposizione diverse sue collane per pubblicare un libro, di pubblicarne alcuni nella collana che ho diretto per circa dieci anni, “la stanza del poeta” (nella quale uscirono Versetti e versacci nel 2006 e Oboe d’amore nel 2009). Anche ora entra in una collana da me diretta, e mi onora della sua firma insieme a quella di tanti amici che lo hanno fatto e lo fanno convinti – come lui – che “la stanza del poeta” abbia (anche in questa nuova serie che esce sotto le insegne delle Edizioni Eva) pareti senza porte né finestre, anzi, nemmeno pareti: questa nostra stanza è in definitiva soltanto uno spazio ideale, ove riunirsi ogni volta che si ha voglia, certi di potervi trovare altri spiriti amici, partecipi del grande, serissimo gioco (un enigma da decifrare insieme) che è la poesia quando parla di vita alla vita.
Dalla prefazione di Giuseppe Napolitano