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Laudano

  • Titolo
  • Laudano
  • Autore
  • Carmine Brancaccio
  • Collana
  • All’insegna di pagine lepine
  • Pagine
  • 54
  • Anno
  • 2006
  • Prezzo
  • € 8,00

Essenza di stagione

Perché o memoria
ti tocchi il ventre
e mordi il sapore
della mia lingua
per narrarti?

Prestar fede alle parole di un giovane poeta? invischiarsi nella tela dei suoi giochi mentali e verbali (uno che dice: “non sarà mai chiara la consapevolezza dell’iter poetico di un singolo uomo che scrive per rivoluzionare la fisionomia di un’arte troppo antica…”)? Brancaccio è ancora cosí entusiasta nella ricerca di ritmi e misure, cosí attento ad ascoltare la sua voce nel farsi immagine sonora e figura ammaliatrice, da meritare ancora credito e fiducia. È cosí giovane che può permettersi la faccia tosta di fare il grande e inventarsi già una nuova identità poetica, un eteronimo dal suo stesso nome ma rinnovato nel dirsi e nel darsi come autore. Gliela consente la forza della giovinezza matura, della consapevolezza di avere corde adeguate e sicura mira per puntare con decisone al bersaglio piú lontano: il libro.
Un libro di poesia nasce in diversi modi, e Carmine Brancaccio non è piú un neofita, avendo pubblicato il suo primo lavoro appena diciassettenne. Pochi o molti che siano (anagraficamente e culturalmente) questi anni che lo separano dalla sua prima prova, gli hanno comunque dato la volontà e la convinzione di poter crescere e misurarsi ancora con se stesso, con la parola, con noi.
La sfida piú alta che affronta il poeta giovane è quella con il pubblico, al quale normalmente si cerca di piacere… ma pure gli si vorrebbe, magari velatamente, offrire le qualità migliori del sé autore, la faccia piú presentabile e cioè quella piú gradevole. Cosí a volte si scrivono e in fretta si pubblicano poesie che a volte nemmeno lo sono, finendo per rimanere nell’intima sfera della confessione enfatica, lirica, ma non sempre letteraria. Chi ha una sola faccia, ha meno problemi, o non ne ha: si offre com’è; può magari offrire anche un antidoto per il sottile veleno che somministra - in tutta onestà (e generosità) intellettuale.
Il laudano è un analgesico galenico, ma forse ha piú valore, nel contesto o paratesto del libro cui dà il titolo, nella sua connotazione oppiacea e quindi abbastanza stupefacente. E se è cosí che va letto, allora anche la materia del libro assume un valore nel farsi prossima allo stordimento, anche le tracce sulle quali si finisce, cautamente, faticosamente, a muoversi diventano passi verso un paradiso diverso, come sospeso fra questa terra che nel libro è l’isola di Archimede e del suo Re e un cielo irraggiungibile, iperuranio o nirvana che sia, onirico traguardo.
Sbarcare su quest’isola, ubriacarsi di laudano, è una vacanza insolita da accettare slanciandosi ben disposti nell’animo. Qui non si possono segnare facilmente mappe e percorsi, invano si cercherebbero indicazioni e suggerimenti per orientarsi nell’isola del poeta, quasi un’isola del tesoro per chi invece sia disposto a scoprire – con difficoltà, con fatica, con cautela – i segnali che pure ci sono, sparsi e diffusi a profusione per essere individuati, raccolti, decrittati, ma da un occhio allenato o per lo meno disposto a cogliere, leggere, interpretare…
I prologhi in prosa che aprono le quattro sezioni del libro, il titolo che indica ogni sezione, l’aforisma che è il primo testo, quasi un’epigrafe per l’intero libro… sono chiavi mature per entrare non solo in questo lavoro ma nel lavoro del poeta Brancaccio: egli è sapiente organizzatore della propria materia, soltanto apparentemente magmatica e frammentaria, sinfonica e sincopatici. Vi si coglie invece un ordine mentale che sostiene una personale visione del mondo e dell’uomo, suo principe inquilino.
Qui vive il grande gioco dell’essere e dell’apparire, del nascondere e mostrare. Qui si va oltre lo specchio e dentro il sogno, ma conservando acuta la percezione del concreto quotidiano: si vuole cosí scuotere l’albero dei frutti proibiti pur sapendo che se cadono fanno male, si vuole esplorare il bordo del credibile, ma, se “s’agita sgangherata la bussola”… chi ci orienterà nell’inconcluso labirinto che è “l’elegante follia del mondo”?
Chi non vuole giocare, chi non accetta un gioco dai contorni sfuggenti (in cui sono piú le eccezioni che le regola), non ha che da non giocare – non sa che perde, ma risparmia l’arduo compito di correre su e giú per aspre vie, di smarrire anche la strada, depistato da subdole malie… Chi se la sente, invece, conquisterà può darsi pochi spiccioli di luce in un cammino eccitante attraverso l’oscuro, ma potrà dirsi soddisfatto di averci provato. L’autore del puzzle ha frammentato ad arte le diverse scene di una recita a soggetto: bisogna, per stabilire anche quale parte si vuole o si può interpretare, ricomporre attentamente ciascun elemento del gioco.
“Che ne sa il mondo di questo mondo”: è una delle tante (non)domande che l’autore pone senza forse neanche attendersi risposta. Sono rari infatti i punti interrogativi; per lo piú, retorici. “Il letargo sorride all’oceano” - estrapolare serve solo a dare la misura dell’impegno, rispettabile come ogni fatica compiuta a fin di bene. Il Laudano di Brancaccio è un lenimento alla nostra inerzia, una paradossale spinta a muoverci/partire. La chiave di tutto è forse nel testo “XXIX”, con l’augurio/rivelazione quasi una sfida alla semenza umana: “Indovinerete quanto c’è da indovinare… Il cabalistico giuoco del surrealismo è sangue ignudo”. E se “il dí ci riempie di metallo”, se manteniamo con l’esistere un rapporto di accidiosa dipendenza, allora “l’alcova è il suo telefono”… ma è solo una maniera di seguire le trame del testo. Tutto finisce per svolgersi in una sorta di sabba ipnotico, mentre “la solitudine pigola a ritmo di rumba che non sa di suonare lo schianto del cielo”.
Tra le figure strutturali, antitesi e ricorrenze caratterizzano il procedere creativo (tra il surreale e l’elettrico… con la sensazione strisciante di avventurarsi in una dimensione poco familiare). Termini ossimorici si affrontano (angelo e inferno, angelo e male) e si confrontano in una sorta di comunione verbale, mentre appaiono diversi apax che a volte stupiscono, a volte intrigano (come i ricercatissimi “alipte”, “alismo”), come “celtico”, come il verbo “fregare”… i registri espressivi mutano frequentemente sorprendentemente: il giovane apprendista pare già diventare maestro o si atteggia a tale, ma consumato già nell’uso. Ci sono i “peletti” fra “le natiche (paffute)” e c’è una “sputacchiera”, c’è “lo sperma di dèi” e un’erba “profumata di piscio”… c’è pure un “gamete” e c’è “albagia” che fa rima con “alchimia”. Il laudano del titolo è presente due volte (e c’è anche l’oppio, e c’è il “fumo”). Altre volte, l’azzardo lessicale sfiora l’arbitrio o l’abuso semantico, eppure – pur nello stupirsi all’impatto – mano a mano che si avanza nella boscaglia di un vocabolario esibito e sfacciato, lo si comincia per certi versi a comprenderne le connotazioni.
Alla fine (ammesso quindi che ci sia, una fine, o che abbia un fine…), l’autore di un simile libro può solo dire se il lettore – uno scaltro lettore che gli confessi quale percorso abbia scoperto e/o seguito – ha saputo e in che misura dipanare un ordito scrupolosamente elaborato che finge (e l’accostamento leopardiano/calviniano, che forse spiace al rivoluzionario autore, pare inevitabile) un altro mondo, un infinito possibile di cui l’autore stesso offre definizione: “il grande parallelo del reale”.

Giuseppe Napolitano

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