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  • Titolo
  • Scuola di poesia - Nicola Napolitano a cento anni dalla nascita
  • Autore
  • AA.VV.
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 113
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00


L’uomo
Vado su internet per cercare riscontri autorevoli ai miei ricordi sull’intellettuale Nicola Napolitano e resto frastornato. Compaiono varie omonimie e la prima è di un personaggio storico di due secoli or sono, soprannominato Il Caprariello (1838-1863), un brigante italiano attivo nell’avellinese che, dopo essere cresciuto come pastore di capre, è stato fucilato venticinquenne dai bersaglieri nella sua Nola. E allora con l’occasione di questa pubblicazione rievocativa nasce un obbligo doveroso verso il “nostro” protagonista: fare i dovuti inserimenti su Wikipedia, l’enciclopedia libera on line, perché compaiano la sua biografia e la sua bibliografia.
Nicola Napolitano è nato a Casale di Carinola, nella Terra di Lavoro, al di là della riva sinistra del fiume Garigliano il 17 gennaio 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale. Quando lui nasce la provincia di Caserta si estendeva a nord, nell’entroterra, sino al confine tra i comuni di Arce e di Ceprano e sulla costa sino a Monte San Biagio, alle porte di Terracina. Nuovi confini amministrativi disegnati dal fascismo che hanno ridimensionato la provincia casertana ed esteso il Lazio più a sud sino al corso del fiume Garigliano non hanno spezzato il legame culturale e storico esistente e che il parlamentare sessano Franco Compasso chiamava “civiltà aurunca”.
Nicola Napolitano nasce in una famiglia di agricoltori, suoi genitori sono Giuseppe (nome che lui, rispettoso delle tradizioni, darà al figlio primogenito) e Carolina Rossi. Sino ai ventidue anni lavora la terra, lunghe le interruzioni nei suoi studi per l’immatura morte del padre nel 1927, è lo stesso anno in cui Benito Mussolini decide di sciogliere la provincia di Terra di Lavoro, accorpando gran parte del suo territorio e le Isole Ponziane alla provincia di Napoli, alcuni comuni nei dintorni di Piedimonte e Alife vengono ripartiti tra le province di Benevento e Campobasso, mentre il circondario di Sora e quello di Gaeta passano alla provincia di Roma. Ma Nicola, solo tredicenne, è preso soltanto dall’impegno di aiutare la famiglia di appartenenza. Quando aveva appena ripreso a frequentare la scuola giunse la chiamata alle armi per la Campagna d’Africa; nel 1935 l’Italia fascista vuole un posto al sole e Nicola diciannovenne parte per l’Abissinia, almeno può aiutare ancora la famiglia con la sua modesta paga da militare. Successivamente il richiamo per la seconda guerra mondiale e l’invio in Grecia.
L’armistizio lo coglie di stanza sull’isola di Creta, i Tedeschi lo fanno prigioniero e lo deportano in Germania. È solo un numero nel campo di prigionia di Grafenwohr, una località del circondario di Neustadt an der Waldnaab, Alto Palatinato, nel Land di Baviera. Oggi Grafenwohr è conosciuto come un tranquillo paesino di meno di settemila anime, ma allora è un luogo di dolore e sofferenza, dove si pativa d’inverno il freddo e sempre la fame, le malattie per deperimento, gli oltraggi alla propria dignità di uomo e di soldato. Frammentario e difficile il cammino per tornare a casa, come, d’altronde, è avvenuto per tutti i nostri reduci dalla Germania. Da sergente a Pavia conoscerà una ventenne con la quale, lui introverso, si aprirà come non mai e racconterà questo dolce incontro in un libro pubblicato solo postumo, Disegnare il tuo nome. Ripresi finalmente gli studi, Nicola il 3 agosto 1946 a trentadue anni consegue l’agognata laurea in lettere all’Università di Roma e l’anno dopo a Castelforte inizia la sua attività di docente. Sono gli anni della ricostruzione e non appena ha un reddito, se pur modesto, si sposa con Carmelina Rotunno e ha da lei tre figli Giuseppe, Valerio e Carolina. Dopo tredici anni di dura gavetta nel 1960 diviene infine preside dell’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “G. Filangieri” di Formia e nel 1978, l’anno successivo al suo pensionamento, fonda il Liceo Linguistico “W. Shakespeare” di Formia che dirigerà sino al 1983 e anche come preside nell’anno scolastico 1991-1992.
Come dirigente scolastico si fa apprezzare per l’equilibrio e la padronanza del ruolo; sa capire i suoi allievi, dialogare con i genitori, progettare programmi, costruire soluzioni. È fondatore e segretario della Sezione di Formia dell’Association Européenne des Enseignants, dal 1962 al 1978 è stato anche componente del Comitato Centrale della stessa associazione. Insieme agli amici del Circolo Letterario “I Girasoli” è stato tra i fondatori del Premio Letterario Suio Terme e componente della giuria. In tutta la sua vita scrive incessantemente, la sua penna è un fiume in piena, la sua mente e la sua anima hanno bisogno di dare libero sfogo ai pensieri, ai sentimenti e alle sensazioni. Le sue poesie e prose sono incluse in numerose antologie, anche per ogni indirizzo scolastico. Sue poesie sono state pubblicate e tradotte in tutto il mondo: Stati Uniti d’America, Bra-sile, Francia, Grecia, Svizzera, Spagna, Romania. In lingua spagnola è stato tradotto da Carlos Vitale. Riceve numerosi e prestigiosi premi, nel 1982 gli è conferito il Premio della Cultura dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, si spegne a Formia ottantanovenne il 26 novembre 2003.
Il figlio Giuseppe, scrittore e poeta anche lui, raccoglie tutte le sue opere, anche quelle inedite, e lavora a diffonderle e soprattutto a preservarle. Nicola Napolitano è stato anche protagonista di ricerche per tesi universitarie e nella Biblioteca Comunale di Formia si sta allestendo una sezione a lui dedicata. Anche la consorte Carmelina Rotunno, in vita a volte “schiacciata” dalla forte personalità del coniuge, lascerà ai posteri poesie estremamente belle e struggenti. La cognata Licia, sorella di Carmelina, pubblica un libro di memorie delle sue esperienze belliche, assolutamente originali, che meritano il serio approfondimento degli storici. Napolitano, una famiglia di intellettuali giunta alla terza generazione, in quanto anche la consorte di Giuseppe e la loro figlia Gabriella, ancora adolescente, dimostrano grandi sensibilità e capacità intellettuali.
Chi scrive ha conosciuto Nicola Napolitano, frequentandolo e stimandolo grandemente non solo come intellettuale, ma anche come uomo. Desidero concludere questa mia memoria ricordando una serata speciale. Da vice presidente e consigliere delegato dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Minturno-Scauri supplii alcuni anni alla chiusura della Stagione Teatrale presso l’Area di Minturnae con appuntamenti alternativi nelle varie piazze di Minturno. A una serata, che si tenne dopo il tramonto, d’estate nella Piazza Santa Albina di Scauri, invitai come protagonista Nicola Napolitano. Furono ore deliziose, serene e coinvolgenti. Il nostro protagonista calamitò l’attenzione di tutti i presenti, deliziandoli, e rimasi stupefatto di come declamava le sue poesie a memoria, inserendole in un coinvolgente contesto storico, anche biografico. Una serata magica sotto le stelle, difficilmente imitabile. Sono certo che nei Campi Elisi ritroverò Nicola Napolitano intento a comporre nuove liriche e certamente organizzeremo, grazie alla disponibilità degli Angeli Celesti, nuove serate in cui la poesia sarà protagonista e, ancora una volta, nutrimento per le nostre anime.

Marcello R. Caliman

  • Autore
  • Giuseppe Napolitano
  • Titolo
  • Poetiche venafrane
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 80
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00

Viverne così

Leggere un’opera ed entrare nel pensiero di chi scrive, nelle e-mozioni (mi piace pen-sarle un fenomeno eruttivo), nei “moventi”, direi io, che generano, dolcezza di parto, il flusso delle parole, convogliando la piena del fiume, incidendo le pietre e lasciando segni di sé nelle geografie del lettore.
Quando questa figura si affianca anche a quella dello scrittore, come nel caso di Giuseppe Napolitano, il risultato dell’incon-tro tra le due anime non è piú solo una re-censione o una relazione, ma una creazione nuova (una creatura), un’opera altra che gemina dall’altra ed espande al mondo il suo profumo di vita nuova.
Cosí è per Giuseppe Napolitano. Per lui non è necessario conoscere il poeta o lo scrittore, perché la chiave di lettura si trova sempre e la porta si apre sí all’analisi dell’o-pera, ma ancor piú ad incisi e spaccati che, sovente, rappresentano estensioni e rifles-sioni che universalizzano il dire e nutrono sostanza per altra meditazione. Lo scrittore – in nome di sincerità, di cui ama dichiara-tamente andar vestito – dice infatti, nel suo dire, sempre la verità, anche quando questa potrebbe spiacere alla lettura, ma la realtà – anche quella poetica – quanto piú si fa bello del vero, tanto piú non deve tacerne anche il brutto. Ecco.
È proprio la verità quella che si accoglie da Poetiche venafrane, ove i poeti sono amici vecchi e nuovi dello scrittore, e “Poetiche” demarcano la “linea” lungo i cui cammini la poesia si fa voce del vivere in tutte le sue possibili attribuzioni.
“Viverne cosí”, sembra dire Giuseppe Napolitano, leggere pagine (non per diletto, ma chiaramente per amore) nelle acque amiche della verità e nella consapevolezza di saper dire parole nuove e vecchie ad un tempo, usando registri modulati ad arte e ad innesti con risultati alla fine di pace e di conciliazione, tra il dire di chi scrive e quel-lo di chi legge. Fessure aperte e tanti toni lungo i gradini delle parole ed un messaggio finale, sempre, che non vuole che aprire ad altri mondi e ad altre, non conclusive, parole.
È questo è il dono di parola, è il dono del poeta Giuseppe Napolitano.

Ida Di Ianni

  • Autore
  • Antonio Vanni
  • Titolo
  • Diario di una nuvola bassa
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 60
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00

Infanzia/adolescenza
in Diario di una nuvola bassa

La prima conquista del giovane poeta Antonio Vanni in questi recenti approdi è nella possibilità di risentirsi (quasi rifarsi) fanciullo ed entrare nell’anima della figura/tema del componimento: la sua voce diviene la voce del fanciullo protagonista. Il poeta ne rivive i momenti, le situazioni, gli affetti, le speranze, le delusioni, le sofferenze, spesso l’acerbo destino. Il fanciullo/oggetto diventa (si fonde con) l’io soggetto del canto. Il Vanni conquista cosí quella felice altezza lirico/epica nella quale, mentre si ha l’illusione di cantare/esprimere la vita dell’al-tro, si esprimono i propri sentimenti, il se stesso nell’essere dell’altro... Questi testi, la cui atmosfera affettivo/lirica rivela costante immersione nel respiro misterioso dell’infanzia/ado-lescenza, celebrano uno stato di pienezza, di meraviglia, di dolore, di incantata e tragica visione legata al primo dischiudersi della coscienza sulla vastità mutante del misterioso Creato.
La seconda conquista che Antonio Vanni ottiene con questa silloge è nell’aver superato nettamente (nella tenuta della scrittura e nella coerenza della sostanza) i limiti ai quali era pur giunto con lucido impegno nei lavori precedenti. Una forza nuova, una fantasia so-stenuta che anela a cieli alti partendo dai raggiunti orizzonti. Non abbiamo solo l’amplificazione del verso, della strofa e della composizione, ma sentiamo dentro questa nuova scrittura battere un vento nato tutto dalla sua anima dilatante semanticamente la già notevole sfera affettiva; il poeta raggiunge misure tese ad un vasto ardere di epici sentimenti. Spariscono i versi brevi, i componimenti dal respiro contratto, i moduli tonali un po’ familiari magari riecheggianti trasporti di feconde letture, e al loro posto sentiamo affermarsi con indubbia fermezza un’urgenza di voce sorgiva, alta e vasta nel contempo come, per addurre un esempio, è quella che vibra nella composizione Romanov, in cui il nostro poeta tocca vasti traguardi creativi, raccogliendo dalla Storia un momento di altissima tragicità, il feroce/crudele massacro del piccolo Alessio Romanov con tutta la sua imperiale famiglia a Ekaterinburg. Con tenerezza ammirativa l’autore dedica la grandiosa composizione alla sensibilità d’amore per l’infanzia della poetessa Maria Grazia Lenisa. Il critico nota subito che la stesura di questo scritto, sotto l’ispirazione emergente dallo storico delitto e nell’immensa pietà per la violenza perpetrata dagli adulti nei confronti dei fanciulli (infanzia/adolescenza), è stata raccolta in una attiva ubbidienza dall’intimo dettare della coscienza, dolente e trionfante per il riscatto in poesia di una figura cosí fragile, tanto innocente, travolta dagli impeti cruenti dell’u-mana storia. I mormorii che incendiano le pietre della città in cui fu consumato l’efferato massacro; la triste figura e la femminile pa-zienza; il sentirlo vincitore e vinto; il risentirsi fanciullo accanto all’innocente Alessio «che intrecciava pace col visino stinto»; il vento che riporta il mattino e accende la mente nei «verdi anni»; la morsa di lirico dolore che costringe il poeta a sentirsi «uccello sopra le cose morte»; le «foglie» (ritornante simbolo di tenerezza, di pietà e di vita rivolta alla speranza) che allietarono con il loro fruscio i giochi infantili; la luna piena che illumina gli spazi circondanti la casa; la clessidra/tempo che divora persino la terra e, poi, a conclusione della potente strofa, le «eliche di prigionia» divenute muta preghiera: queste figurazioni, questi tonali gesti, questi ampi e profondi respiri (con quanto segue del componimento che lasciamo all’intelligenza del lettore) sublimano il testo poetico in una difficile ma feconda ricchezza emotiva resa in ampia e pur raccolta scrittura. Ci siamo fermati su questa poesia che a nostro giudizio e per ampiezza e per profondità, per drammaticità della storica violenza sull’infanzia/adolescenza (cui il poeta dedica la silloge) ci è parsa altamente rappresentativa dell’attuale stato poetico del-l’autore, ma sentiamo subito il dovere di affer-mare che ogni testo di questa raccolta vibra di un intenso istintivo amore dentro la figura di un bimbo, un fanciullo, di un adolescente (di-remo dentro l’infanzia emblematizzata) colti sempre dalla realtà e nobilitati dalla purezza raggiunta del sentimento e della scrittura.
Il fascino emotivamente umano di cui la fanciullezza ha sempre avvolto l’animo di An-tonio Vanni è anche una costante della sua vocazione poetica visibile nelle raffigurazioni, udibile nelle tonalità d’innocente purezza dal suo esordio all’attuale produzione, definibile “poemetto sull’infanzia”. I due termini sono ampiamente giustificati: il primo dalla scrit-tura che, superando il passo corto e il respiro breve delle precedenti prove, si dilata ed e-spande, nel tempo e nello spazio della memo-ria, con una tenuta di ispirazione, d’invenzione verbale, con un’ampiezza d’onda di eccezionale forza; il secondo dal fatto che il nostro giovane poeta ha vissuto con queste composizioni una densa stagione nel clima di una tematica, quella dell’in-fanzia, a lui tanto cara, con fertilissimo e ammirevole stato creativo. Sintomatica è la poesia In morte di un bambino romantico: qui la fusione degli elementi reali con la creazione fantastica è perfetta. Le figure sulle quali s’innesta e si sviluppa il bellissimo testo sono il poeta, il bambino e la madre, ma queste due ultime vi-vono di rassegnato e rasserenante dolore nello spirito dell’autore: nella conclusione della liri-ca esse si fondono in modo indissolubile nell’io poetante. Il rapido cadere tra il volo dei deltaplani, le labbra che si avvivano sulla roccia, le pietre che parlano, il folto capo del bambino destinato a scendere nel vitale fiume che attraversa ininterrottamente la coscienza del poeta, il volo fantastico che sale fino alle nu-vole alte e ferme ad ascoltare l’inconsolabile pianto materno, l’adagiarsi lieve delle foglie in movimento divenute anima del poeta il quale, elevato a visione d’eternità, accetta il dolore della perdita in una purezza sorgiva dell’umano destino: questi segni verbali sono sensazioni emergenti da dentro un clima di fremiti fraterni e la misura della verità affettiva è nella resa espressiva perfettamente consonante con gli interni tremori. Il tutto si fonde nella composizione la cui unità diviene catarsi di dolore elevato a ritmo estetico.
L’accensione emotivo/lirica si ha in ogni direzione, ad ogni livello, in ogni dimensione di tempo e di spazio (sia nel diretto contat-to/stimolo fisico sui sensi proveniente dalla realtà esteriore sia nell’appropriazione memo-riale). Cosí in Paesaggio addormentato, disteso in una tensione astrale e reso in vaghezze di sogno con figure la cui felicità è tutta nell’im-pasto inscindibile di suono/colore (musi-ca/cromatismo); cosí nella lirica A Roberta tutta soffusa di intimi aneliti in un’assoluta, totale immersione nelle pulsioni del sentimento: ogni segno, ogni gesto, ogni colore, un lieve movimento, tutto quanto è at-taccato alla figura della ragazza amata si fonde in una resa musicale del linguaggio. E una confessione «dell’arden-te brama / della mia suprema dolcezza»: la vergine di gesso, i bruni capelli, l’oblio nel riposo mattutino, gli aromi d’edera, le braccia e il corpo dell’amata, il navigare su azzurre acque in cui si dissolve la fantasia dell’amante (poeta), il sentirsi cul-lato in vaghi calessi, in onde di aerei sogni, sono figure in forme e colori in movimento; sono palpitazioni che si mutano nell’armonia di una confessione fonica, di un amore asso-luto e irrinunciabile. In L’assenza il poeta celebra una proiezione emotiva fermata in pochi versi sorretti tra figure marine conservate nel tremito del ricordo e altre prodotte dall’impeto creativo proiettato verso il desiderato, bramato futuro. In Echi, tra onde musicali di foglie, fa rivivere nella realtà la figura di un fanciullo assillato dall’inelut-tabile mutare. Con commosso realismo dedica otto versi al figlio del poeta Percy B. Shelley, scolpito in una vaga figura albale come un «affascinante dialogo dimenticato». «Dinanzi alla piccola lapide di William io resto delle ore», confessa il poeta in nota, «ogni volta che sono a Roma, godendo di una profonda serenità». Una serenità raggiunta attraverso la tenerezza del ricordo e la rapita contemplazione.
Come non sentire il vigore che presiede al-la stesura di questi versi tratti da un altro capolavoro, M’attraversa un grande amore:
L’ombra del cielo che fa apparire un’eco
                                               [vagabonda
sulle mie ginocchia ferme
scheggia coi compagni il bosco nuovo,
non ha una propria età e muore felice
il bacio del fanciullo dalle ombre amiche.
La rivolta nel dolore del tramonto, la
                                                [sopraggiunta quiete dello Stige.
La stupenda vitalità che scorre in questi ampi e profondi respiri si coglie subito in quell’«ombra del cielo», nell’«eco vagabonda», nelle ginocchia ferme cui figurativamente poggia il «bosco nuovo» e poi il «bacio di fan-ciullo felice» eternizzato da «ombre amiche»; e il tramonto nel segno inequivocabile del «dolore» che si perde nella pietosa calma del mitico fiume. E vogliamo ancora fornire una ulteriore testimonianza di quanto abbiamo affermato sulla decisa, e notevole crescita del nostro poeta: ci fermiamo sull’ultimo componimento della raccolta, Il tramonto. Fedele a se stesso, a questa sua felice stagione densa di tenere memorie e di trascrizioni verbali di assoluta autonomia, Antonio Vanni resta nella prediletta tematica dell’infanzia/adolescenza e della memoria e traccia la tenera figura di Luciano, un suo compagno dí scuola rapito dal destino «nel fior degli anni». Il passo ampio, la visione at-mosferica di ricreazione memoriale, le figure reali ma rese lievi dal fluire lento e triste della fonicità, dal ritmo del ricordo; l’abbandono soggettivo alla riappropriazione di un momento vissuto e profondamente inciso nella carne della sua anima pongono a diretto confronto gli affetti veri e le speranze infrante del com-pagno adolescente stroncato dall’atrocità dell’acerbo destino e lo stato lirico/cognitivo del poeta evoluto di oggi. Nel pulsare dolente dell’io adulto sulle tenerezze perdute dell’adolescenza sorge il miracolo della poesia che offre ai cuori sensibili e alle menti ispirate l’emozione indimenticabile della totale fusione delle due anime nella indubitabile verità del vissuto (il passato) e del vivente (il presente).

Vincenzo Rossi

  • Autore
  • Vincenzina Scarabeo Di Lullo
  • Titolo
  • Il fazzoletto rosso
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 100
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 10,00

Il primo elemento connotativo, che a lettura appena ultimata mi viene in punta di penna, è che in sette racconti si riscontrano sette motivi ispiratori. Cosí tanto – dunque – offre la breve silloge di Vincenzina Scarabeo Di Lullo. E si va dall’idea di libertà dello scontroso barbone milanese alla metafora del leone nel canto – in treno – di un africano, passando poi, nell’ordine, attraverso il problema del giovane contemporaneo esposto alla tentazione di amori clandestini e del facile guadagno da spaccio di stupefacenti; allo sbandarsi generale dell’esercito italiano dopo l’armistizio di Cassibile del 3 di settembre 1943; alla “rivincita” dello studente povero che nel licenziarsi dalle Medie di primo grado legge nel sorriso del piú caro dei suoi docenti una enigmaticità piú ambigua di quella – famosissima – della Gioconda di Leonardo; al tema della morte in un ammalato terminale; al dramma – infine – di una moglie infelice che decide di sopportare le angherie di un marito geloso e manesco pur di salvare, a beneficio dei figli, l’unità della famiglia.
Una varietà di motivi, come si vede, che rende testimonianza di una pari varietà di interessi in un’autrice la cui esperienza professionale, di docente prima, poi di dirigente scolastico, ne ha fatto donna attentissima alla complessa fenomenologia socioantropologica del no-stro tempo.
Cosí oggi, dopo lungo periodo (ne sono piú che certo) di sedimentazione, vedono la luce – per le Edizioni Eva – in formato Colibrí pagine destinate a segnare le coscienze dei fruitori, specie se giovani, vista la tipologia delle tematiche sviluppate e la portata didattico-educativa delle vicende riferite.
Il testo, il cui titolo riconduce a un periodo storico terribile dell’appena trascorso Novecento, rifugge da ogni tentazione da enfasi: Chi vi cercasse elementi esornativi adottati a mo’ di vezzosi abbellimenti ne uscirebbe deluso.
L’impianto linguistico-espressivo privilegia, sintatticamente parlando, il periodo composto, ma senza eccedere in subordinate. Il che mentre evita il diluirsi in digressioni della pregnanza significante dei racconti, fa fede, nella Scarabeo, di una sobrietà di stile che consente al lettore di andare dritto al cuore del messaggio narrativo. Che è poi l’intendimento stesso dell’autrice.

Aldo Cervo

  • Titolo
  • Versi al succo di limone
  • Autore
  • Carmine Brancaccio
  • Collana
  • L'albatro
  • Pagine
  • 128
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 12,00


Prefazione alla prima edizione

Un’antologia è per definizione qualcosa di arbitrario. Lo è ancora di piú per un autore che è giovane come Carmine Brancaccio e la cui scrittura – diciamolo pure – è spesso piuttosto impermeabile. Non starò quindi a dire che la scelta di pubblicare alcuni testi anziché altri è soggettiva e se l’avesse fatta un altro sarebbe stata diversa: è scontato.
I criteri da seguire per una scelta antologica possono es-sere vari: optare per i testi piú emblematici, per quelli piú riusciti, per quelli che piú rientrano in una certa area tematica o in un certo stile, ecc. Io ho seguito il criterio piú banale, ma diciamo pure piú immediato. Ho riletto tutta l’opera di Carmine Brancaccio e ho preso quei testi che mi sono sem-brati di piú facile lettura e che ho sentito a me piú congeniali e ho voluto inserire gli ultimi due libri – che possono essere considerati dei poemetti – per intero, sia pure eliminando le sezioni e le parti in prosa.
Il titolo è venuto fuori in una conversazione fatta con l’autore e mi è sembrato confacente. Il succo di limone ha lo stesso effetto dell’inchiostro simpatico: consente una scrittura segreta, che si può decriptare scaldando il foglio. Anche i versi di Carmine Brancaccio sono da decriptare, ma poi, quando uno è riuscito ad entrarvi, vi troverà una poesia molto intensa. Forse, come il succo di limone, anche un po’ asprigna, ma proprio per questa sua caratteristica – in qual-che modo – come il limone deterge e purifica.
Carmine Brancaccio si affaccia giovanissimo sulla scena delle lettere. Il suo primo libro è infatti del 1997, quando il nostro autore aveva soltanto diciotto anni. Le poesie incluse, scritte negli anni precedenti, sono sí testi di un adolescente, ma vi si nota già una certa maturità oltre che la tendenza alla ricerca lessicale e un gusto per la metafora e il simbolismo. Questa ricerca lessicale segue un suo percorso e porta Bran-caccio anche a tentare varie strade stilistiche. Ultima delle quali è quella dei versi del poemetto Le quartine di Pierrot, uscito nel 2007, dove sperimenta l’endecasillabo, sia pure piuttosto libero, sia pure frammisto ad altri versi (decasillabo, dodecasillabo, novenario, ecc.) e, appunto, la regolarità della quartina.
La tematica, che nelle prime poesie verteva eminentemente su aspetti personali e intimistici, si allarga gradualmente al pensiero universale e alla poesia civile e sociale. Col volume Fughe, i re sono giullari, del 2002, possiamo dire che comincia una nuova stagione nella poesia di Brancaccio. C’è anche una svolta stilistica, ma la svolta è soprattutto tematica, come già il titolo ci suggerisce. I tre sostantivi “Fughe” “re” e “giullari”, sono in qualche modo parole d’altri tempi, ma sono altri tempi in cui viene proiettata la contemporaneità. E infatti sempre piú i detentori del potere non sono che giullari, menestrelli alla ricerca spasmodica di un consenso che non riescono a procurarsi coi fatti e cercano nella politica-spettacolo. Con questo libro comincia “La battaglia di Ceri-man”, come recita il titolo di una poesia e Ceriman non è altro che l’anagramma di Carmine.
Il libro successivo porta il titolo Laudano. Il “laudano” è, secondo il vocabolario, un «medicamento a base di oppio, zafferano, cannella, garofano e alcol usato come analgesico, specialmente nei dolori di origine addominale». Per Bran-caccio il “laudano” è la poesia. Quindi la poesia è un anal-gesico. Magari un analgesico del tutto naturale, ma che senz’altro lenisce il duro cammino dell’esistenza e della sof-ferenza che ne deriva. La poesia assume cosí anche, cosa di cui molti sono certi, una funzione terapeutica. Ma poesia è soprattutto un modo di essere e un modo di rapportarsi con la vita.
Nell’ultimo libro, Le quartine di Pierrot, troviamo una identificazione della maschera triste (ma già nella prima raccolta c’era una poesia intitolata “La maschera”) con quello che si trova ad essere il poeta nella società e troviamo un’identificazione poeta-clown triste-Pierrot-Brancaccio. «Mi alzai dal letto un giorno incerto / e decisi di divenire unicum / con la Arte che sgambettava furente / sottobraccio, furba, ancora zotica.»
A conclusione, abbiamo inserito alcuni recentissimi testi inediti, dove ancor piú si nota la ricerca non solo lessica-le/linguistica, ma anche tematica delle metafore (come in “Ballon d’essai”, “Simplegadi”, ecc.).
«Ma giú, dove la notte negli abissi / tormenta cuori tristi in bufera, / la balena stanca canta, mera / tragedia umana che un dí “io vi cantai”. // (Siamo pronti! / Dentro o fuori! / Sim-plegadi o la notte!)».
Come dire: gli scogli o il buio. Ma forse nel poeta è il no-vello Giasone che indicherà la rotta agli uomini/Argonauti. Per la conquista non del vello d’oro ma di una consapevolez-za etica.

Venafro, 4 novembre 2007
Amerigo Iannacone

  • Autore
  • AA.VV.
  • Titolo
  • Premio nazionale di poesia Il Presepe 2013
  • Collana
  • Premio nazionale di poesia Il Presepe
  • Pagine
  • 64
  • Anno
  • 2013
  • Prezzo
  • € 12,00


Pesche, dieci anni di poesia

Per alcuni la poesia potrebbe apparire come una pausa, un’oasi di serenità, in un mondo sempre piú concitato e in una società sempre piú ingiusta, dove i rapporti vanno sempre piú degradandosi. E forse è anche vero, ancor piú se la poesia ha per tema il presepe. Ma la poesia non è solo questo. Essa, anche quando non è poesia civile – un genere non facile – è sempre qualcosa che parla alla sensibilità dell’uomo, parla al cuore prima che all’orecchio.
La poesia, la piú umile, la piú dimessa di tutte le arti, ha una forza che sfida i secoli e che fa giungere fino a noi i testi scritti piú di due millenni e mezzo fa di Saffo e Alceo, o la poesia di duemila anni fa di Catullo e Orazio, per non citare tutti i poeti che attraverso i secoli hanno scritto una storia di civiltà, in contrapposizione alla storia fatta di guerre e di violenza.
La violenza non si combatte con la violenza, ma con l’amore. Per migliorare la società, bisogna migliorare l’uomo, parlare alla sua sensibilità.
Oggi, in una società che tende a diventare egoista, c’è bisogno piú che mai di poesia, perché «la poesia, – per citare Pascoli, di cui l’anno scorso ricorreva il centenario della morte – in quanto è poesia, la poesia senza aggettivi, ha una suprema utilità morale e sociale», perché fa riconoscere la bellezza anche in cose umili e vicine, placando “l’instancabile desiderio” e appagando un’ansia di felicità destinata altrimenti a restare vana.
Pesche, magico paese-presepe aggrappato alla montagna, da dieci anni dà il suo contributo, col Premio Nazionale di Poesia “Il Presepe”. Dieci anni non sono pochi per un premio letterario, se si pensa a tanti premi che nascono e muoiono in breve tempo. E questo, grazie in particolare all’operosità dei soci della Pro-Pesche e alla disponibilità dell’Amministrazione Comunale. In dieci edizioni sono arrivate a Pesche migliaia di poesie, di genere e di qualità varia, molte tra esse davvero valide. C’è di tutto: poesia lirica e poesia civile, poesia d’occasione e poesia intimista. Sono arrivati anche testi oleografici e talvolta un po’ retorici, ma c’è stata anche poesia davvero elevata.
E sono passati per Pesche poeti di tutte le regioni italiane. Un premio serve anche a questo. Certo serve a premiare e quindi incoraggiare i poeti, perché essi hanno bisogno di incoraggiamenti concreti, visto che i libri di poesia non si vendono. Ma serve anche a far circolare in Italia (e anche all’estero) il nome di un piccolo ma affascinante centro come Pesche e a farvi venire poeti che forse mai avevano sentito il nome del paese e mai altrimenti sarebbero venuti.
E molti dei poeti che passano per Pesche lasciano testimonianze concrete in versi dedicati al paese. Un omaggio al fascino del luogo che rimarrà nel tempo.

Amerigo Iannacone

  • Autore
  • AA.VV.
  • Titolo
  • Premio letterario Macchia d'Isernia 2013
  • Collana
  • Premio letterario Macchia d'Isernia
  • Pagine
  • 136
  • Anno
  • 2013
  • Prezzo
  • € 12,00

Sono lieto, siamo lieti, del ritorno, dopo qualche anno di sospensione dovuta a cause di forza maggiore, di un evento come il Premio Letterario “Macchia d’Isernia”, che, nato nel 2006, già nelle prime tre edizioni aveva riscosso molti apprezzamenti e un’ampia partecipazione di poeti e scrittori da varie regioni. Il Premio rinasce quest’anno, dopo l’edizione del 2008, con nuove figure e con nuovo entusiasmo, grazie in particolare al proficuo supporto dell’Associazione Maccla Saracena, oltre che all’impegno dell’insostituibile Elena Grande, che del Premio è stata l’ideatrice e l’organizzatrice.
Notevole è stata quest’anno la partecipazione, sia per la quantità sia per la qualità dei testi presentati. E a volte davvero spiace doversi limitare a tre premiati e ad alcuni segnalati e dover lasciar fuori opere valide e che magari in un’altra edizione avrebbero potuto aggiudicarsi un premio. Bisogna infatti dire che quasi tutti i racconti pervenuti si impongono per il loro valore letterario e anche per i temi che affrontano. Temi legati ora alla piú scottante attualità ora alla sensibilità dell’uomo, alla sua immutabile capacità di provare sentimenti e passioni.
Per quel che riguarda la sezione Poesia, troviamo stili diversi, forme e contenuti vari, ma quasi sempre di buon livello. Eccellente la resa poetica delle poesie premiate, ma anche di molte altre, tra quelle segnalate e anche tra quelle che non è stato possibile segnalare.
In questa quarta edizione del Premio “Macchia d’Isernia” c’è una sezione in piú, dedicata alla Fiaba e alla Favola. A questa sezione la partecipazione non è stata molto ampia, forse perché istituita quest’anno per la prima volta. E comunque validi sono i testi pervenuti.
La sezione D, riservata agli alunni di scuola elementare e media, si propone non tanto di scoprire giovani talenti (cosa che pure talvolta succede), ma piuttosto di avvicinare i bambini e i ragazzi ai valori della cultura e spingerli ad amare la poesia e la letteratura in genere, confidando anche, ovviamente, nella collaborazione degli insegnanti e, perché no?, dei genitori. Si vuole cioè sollecitare bambini e ragazzi in età evolutiva ad avvicinarsi alle opere degli scrittori e dei poeti, senza timori. Anche perché prendano consapevolezza che la bella lingua italiana, una delle piú belle al mondo, non è quella corrotta di Facebook e dei messaggini telefonici, e non è neanche solo quella dei chiacchieratori televisivi, ma è anzitutto quella della poesia e della narrativa.
Il primo intendimento di questo Premio Letterario, in tutte la sue sezioni, vuole essere quello di dare agli autori non solo un riconoscimento o una gratificazione, ma anche, soprattutto, un tangibile segno di incoraggiamento ad autori – agli scrittori e ancor piú ai poeti – che il piú delle volte vengono ignorati o sottovalutati in un mondo in cui diventano valori i disvalori e viceversa. Un mondo dove chi scrive, anche se crea opere eccellenti, trova difficoltà a conquistarsi un ruolo. Chi scrive, indipendentemente dalla qualità delle sue opere, quasi mai riesce a farsi strada in una società distratta e superficiale, del tutto disattenta ai valori della cultura. Quasi che la letteratura, la poesia, l’arte, fossero un mero passatempo, un hobby della domenica, e non presupposto di civiltà e di progresso civile e umano.
Inoltre, un Premio come il “Macchia d’Isernia”, pur coi modesti mezzi di cui dispone, ha anche una altro merito non certo irrilevante: porta il nome di un piccolo centro in tutte le regioni italiane e porta al paese poeti e scrittori, che forse mai ci sarebbero venuti, e che potranno lasciarne testimonianza nelle loro opere.

Amerigo Iannacone

  • Autore
  • Alberto Hernández
  • Titolo
  • Stravaganza
  • Collana
  • Stella Verde
  • Pagine
  • 120
  • Anno
  • 2012
  • Prezzo
  • € 12,00

Vibonati
                    a Vicente Gerbasi

Cade l’universo su Canoabo.
Il poeta modella l’argilla di un itinerario:
guarda verso il ponente degli Appennini dove Vibonati plasma il foglio della poesia.

Il pane e il vino risolvono la memoria di Giovanni Battista, l’immigrante.
L’Italia entra ed esce dal tropico febbrile.
Il bambino scopre i rumori delle ombre nelle rotaie di un treno italiano.

Fronteggia le bestie dei sogni nel viavai di qualche incubo.
Veniamo dalla notte e verso la notte andiamo.
Canoabo celebra le ossa del viaggiatore: una tomba dispersa nella polvere gialla di un vecchio cimitero.

Padre della mia solitudine.
E della mia poesia.

  • Autore
  • Carlos Vitale
  • Titolo
  • Fuori di casa
  • Collana
  • Stella Verde
  • Pagine
  • 96
  • Anno
  • 2012
  • Prezzo
  • € 8,00

Il libro di un poeta traduttore

Già nel 2004 Carlos Vitale pubblicò una silloge poetica col titolo preso in prestito da Montale, che nel 1969 aveva dato alle stampe Fuori di casa, raccolta dei suoi articoli di viaggio per il Corriere della Sera. Il volume attuale ha lo stesso titolo del testo precedente e, come esso, è diviso in due parti: Interni e Vedute sul mare, ma è molto piú ricco, poiché contiene le seguenti sezioni inedite: Terra purpurea, Cartoline di Mérida, Primavera estone, Ronda ciociara. Chi si limitasse a considerare la sola opera in versi di Vitale, potrebbe cadere nell’errore di ritenerla prestigiosa come qualità ma quantitativamente piuttosto esigua. In realtà le cose non stanno cosí, se si tiene conto dell’imponente lavoro di traduttore di poesia, soprattutto italiana, che egli sta compiendo con passione e instancabilmente da oltre un trentennio. E se si tiene conto, altresì, dell’importanza che egli giustamente annette a tale sua attività, in rapporto alla propria poesia. Il tradurre anche per lui, come per i maggiori poeti, italiani e non, del Novecento, «è momento non parallelo ma interno all’opera in versi» (Antonio Prete, All’ombra dell’altra lingua).
È una tappa necessaria per affrontare in concreto, confrontandosi con altre voci, i problemi dello stile, della lingua, del ritmo, del metro, della musica, del tono, di tutte le componenti della creatività poetica. Tradurre un poeta congeniale e autentico è per Vitale parte essenziale del suo scrivere. Dalle domande che sorgono dai testi originali il poeta traduttore Vitale risale alle ragioni essenziali della propria poetica (come ha visto acutamente Luisa Cotoner nell’eccellente prefazione a Unidad de lugar). Il tradurre è diventato per lui un mezzo ineguagliabile di conoscenza e di affinamento.
Vitale ha fatto pochi discorsi teorici sulla traduzione poetica, giusta il pensiero del Leopardi: «Parla molto della traduzione chi traduce men bene». Egli ha sempre preferito che il suo modo di intendere e di praticare la traduzione come atto eminentemente creativo, della «stessa intensità di un’esperienza d’amore» (Prete), apparisse concretamente realizzato nei testi tradotti, come dire in carne ed ossa. Cosí concepite, le sue traduzioni fanno parte a pieno titolo del suo corpus poetico, che allora ci appare tutt’altro che esiguo.
Per le sue traduzioni dall’italiano, occorre fare un’altra considerazione per apprezzarne la singolare qualità. Egli conosce perfettamente sia la lingua italiana, bevuta con latte materno, sia la lingua spagnola dell’ambiente argentino in cui è nato e ha fatto i suoi studi, e della stessa Spagna (Barcellona), dove si è stabilito e risiede dal 1981, conseguendo una seconda laurea. Traducendo, non si disloca in una lingua straniera per fare ritorno a quella materna; passa da una lingua materna a un’altra. Ogni testo da lui tradotto o creato in proprio si nutre del latte di due madri, nasce da uno scrittore con piú identità e si giova di questa condizione di privilegio. Un suo testo è una cassa di risonanza, una conchiglia che conserva e trasmette sentimenti, sapienze, linguaggi, culture diverse e affini, che ne fanno un insieme inimitabile.
Dante afferma in un passo del Convivio (trattato primo, capitolo settimo): «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza e armonia». Questa autorevolissima dichiarazione di intraducibilità della poesia, ripresa piú volte durante i secoli e giunta fino a noi, contiene una parte di verità, poiché ogni traduzione è una scommessa che si accetta quando si rompe l’armonioso “legame musaico” che un testo ha nella propria lingua, per ricomporlo in un’altra, e l’esito può essere incerto. Invece nel caso di Carlos e dei pochi poeti traduttori che si trovano a godere di due lingue materne perfettamente conosciute, come non vi è vera frattura tra una lingua e un’altra, cosí non vi è vero rischio di rompere tutta «la dolcezza e l’armonia» del testo che si trasmuta.
Il presente libro è posto ironicamente sotto un’epigrafe presa da un pensiero di Pascal: «La maggior parte dei mali agli uomini capitano per non starsene a casa». L’ironia, in questo caso l’autoironia, è costitutiva della personalità di Vitale, e non sorprende il paradosso di un volume di poesie occasionate dal suo molto viaggiare, il cui esergo sembra invitare il lettore a non seguire il suo esempio. Ma l’ironia di Vitale ha carattere socratico ed è anch’essa uno strumento di conoscenza. E poi il partire implica sempre in lui il ritorno: Andata e ritorno è significativamente il titolo della sezione che chiude la prima parte del volume.
E vediamo un po’ piú da vicino quali sono queste poetiche trasferte “fuori di casa”. Sono tutti luoghi che appartengono alla geografia del cuore di Carlos, hanno a che fare con esperienze insieme umane e culturali, intensamente vissute (anche se è facile cogliere qualche sfumatura nelle simpatie e nei sentimenti). Come la poesia di Montale, quella di Vitale parte sempre da un’occasione concreta. Nulla è inventato nell’indicazione di luoghi e oggetti, da cui erompe come acqua sorgiva la creazione poetica e, quando c’è, la riflessione morale o filosofica. Nel libro è cosí disegnata una mappa poetica, che dai Paesi del Mediterraneo si allarga all’America Latina, con felici deviazioni verso la Bretagna, l’Estonia, l’Armenia, amatissima perché di essa è originaria la consorte María. Malgrado la diversità di meridiani e paralleli, il libro ha una grande “unità di luogo” (per usare un altro titolo significativo dell’autore), assicurata sia da una comune qualità di Paesi dell’anima, sia dalla circolarità di questo viaggiare, che, a differenza del viaggio lineare che conduce verso il nulla, implica sempre il ritorno a casa. Non manca talora una punta di malinconia e di inquietudine («E se sono arrivato, / che farò di me?», Itaca), come se il viaggiare fosse non solo la metafora universale dell’esistenza, ma la ragione profonda e irrinunciabile della vita stessa. E in un suo verso ama rappresentarsi «seduto e in cammino» (Primavera estone, 5). Occorre sottolineare il legame profondo di questa “posizione” con la condizione spirituale dei maggiori poeti italiani cari a Vitale? Ricordiamo solo «E come portati via / si rimane» (Nostalgia) di Ungaretti, e l’«immoto andare, oh troppo noto / delirio, Arsenio, d’immobilità...» di Montale. Sí, la poesia di Vitale, poeta traduttore, è molto dotta e, pertanto, ricca di ben assimilate e dissimulate citazioni di altri poeti, i prediletti. Lo diciamo per ribadire il concetto che ogni vera poesia si nutre sempre di altra poesia, si inserisce armoniosamente in un coro di altre voci, che segnano il clima spirituale e culturale di un’epoca. La breve composizione «Sulla barca una luce. / Orizzonte rotto.» (Taccuino dell’Escala) ha il potere di evocare fulmineamente e di condensare un piú disteso e celebre passo montaliano («Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende / rara la luce della petroliera!», La casa dei doganieri). E potere di evocare i fantasmi del poeta ligure hanno i fantasmi di Piazza dei Miracoli e di Taccuino dell’Escala, 5.
Vitale condivide con i grandi poeti dell’Otto-Novecento il senso dell’ignoto, ma piú vivo è in lui il fascino del segreto e del mistero, ciò che lo distingue da Montale, piú ossessionato dal miracolo. «Scavare finché la roccia / ti consegni il suo segreto» sono i due versi di Geghard (Terra purpurea); essi potrebbero costituire il suo motto di traduttore e la vera sigla della sua poesia. Il mistero fa la sua comparsa in Refettorio di Casamari (Ronda ciociara): «La tavola apparecchiata, / olio e sale. / Saporito mistero». Qui è necessario sottolineare la pregnanza del significante, la forza evocatrice e la ricchezza simbolica della parola di Carlos, quasi sempre pronunciata con un tono delicato e leggero. Il sorriso e la levitas sono caratteristiche della sua indole e della sua poesia. Nel testo citato ogni parola necessiterebbe di un commento. Oltre ai simboli, taciuti ma sottesi alle parole “olio” e “sale”, si ponga attenzione anche al “saporito”, che allude alla letizia e alle semplici gioie, che rallegrano l’operosa vita dei religiosi. La parola “sale” ritorna, estendendo figurativamente il suo significato, in Belle-Île-En-Mer (Vedute sul mare): «Il sale scolpisce rocce / di significato».
Leggendo il libro, non si commetta l’errore di pensare a un poeta disimpegnato sul piano dei grandi temi, quali la libertà. Cosí non è, e a provarcelo splendidamente è una composizione come Forca d’Acero:
Cavalli bradi.
Ma il leader
del branco
porta un campanaccio.
Leader con campanaccio.
Libertà vigilata.
La levità del tono nulla toglie alla verità e alla serietà, un po’ amara e dolente, della riflessione. Ma già un brevissimo testo del 2004, come Armenia («Il mestiere / di sopravvivere.»), basta a dirla molto lunga sulla sua autentica sensibilità sociale e politica a chi ha orecchie per intendere.
Vitale sa cogliere come pochi l’universale nel particolare, sa trovare le parole-oggetto piú idonee ad esprimere una verità globale, antica, perenne, pescandole anche nel repertorio piú umile. Esempio calzante è la poesia Zufolo, in Ronda ciociara: «Nella valle / risuona / l’inno / di tutte / le bandiere».
Dagli esempi addotti si comprende come la poesia di Vitale non è né narrativa né discorsiva. È poesia di illuminazione (e ci sia risparmiato di indicare il già troppo chiaro riferimento). Affonda le radici nell’istante e nel quotidiano, ma evita sempre il rischio dell’ovvietà, della banalità, di un’inerte aneddotica.

Gallinaro, 21 settembre 2012
Gerardo Vacana

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • ...E poi il Fiume Giallo
  • Collana
  • I Colibrì
  • Pagine
  • 92
  • Anno
  • 2012
  • Prezzo
  • € 9,50

Il giornalista racconta i fatti. Un giornalista onesto e intelligente non li strumentalizza e gli dà misura. Un giornalista vero ci ragiona, medita alla luce del suo amore di giustizia, la quale trova il suo apice nella libertà. Amerigo Iannacone fa questo indefesso lavoro di leggere i fatti, elaborarli dentro l’anima e soffrirli, da una vita, per poi con semplicità e pacatezza, senza ira e senza disgusto o cipiglio da spadaccino, espone il frutto maturo asciutto e senza resa in brevi, inconfutabili e lievi, pur dal fondo drammatico, articoli quasi dimessi che finiscono con l’avere voce potente.
Passo dopo passo, voglio dire: Flugfolio dopo Flugfolio, affronta i segni di una decadenza di civiltà, mostrandone l’assurdità, l’inutilità, la poca convenienza, confermandoci la nostra impressione di un vortice di ineluttabilità insensata in cui siamo coinvolti. Egli, fra i pochi, oppone il suo remo, trovandoci consenzienti e volgendoci al desiderio di aiutare; e cosí, in noi, sorge una piccola speranza.
Questa controcorrente di speranza lambisce l’esperanto, la salvezza delle lingue dal dominio oppressivo delle potenze, l’assurdità dell’adeguarsi alla corruzione grammaticale della nostra lingua. Con estrema pazienza puntualizza le sgrammaticature televisive, giornalistiche e del parlare comune, ricordandoci le forme corrette e logiche, con ironia dolce e rispettosa. Segnala le assurdità della burocrazia e gioca un po’ su quei vezzi del progresso che tali non sono, riuscendo, da buon professore, a insegnare divertendoci. Delizioso quando fa capolino, per rendersi ridicola, la democrazia fra gli appunti grammaticali: “avrà vinto l’ignoranza, ma i linguisti sono pochi, gli ignoranti tanti”.
L’ignoranza, fa vedere, è sparsa dappertutto, istituzioni comprese. Espressioni, preposizioni, articoli, accenti, tutto egli porta al suo naturale stato, latinglese e itanglese compresi. E non disdegna di polemizzare da par suo, intendo dire senza acrimonia, quando è costretto a vedere l’italiano ridotto a zerbino dell’inglese anche per opera di gente colta. E non manca di dare sempre nuove ragioni alla necessità di adottare l’esperanto.
Ma, mentre fa questo suo lavoro da certosino raddrizzatore, ha certe stoccate buffe che ti fanno ridere senza ritegno, quand’anche fossimo “diversamente intelligenti”.

Giuseppe Campolo