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  • Titolo
  • Pasquinate al peperoncino
  • Autore
  • Aldo Cervo
  • Collana
  • Fuori collana
  • Pagine
  • 48
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00

Per gli amici che leggeranno

Ho raccolto e assemblato in quattro stringatissime sezioni i pochi versi che seguono, buttati giú piú o meno occasionalmente sulla base di umori (e malumori) di passaggio.
La loro pubblicazione è dovuta alla necessità non piú derogabile di ripassare con l’aspirapolvere i cassetti del mio scrittoio, che in materia di cartacce non ne possono piú.
Nella speranza che nessuno voglia provare a reperirvi una qualsivoglia parvenza di poetica, tanto meno di possibili motivi unitari, e avvertendo che le prefazioni delle prime due sezioni (della seconda anche i giudizi critici) sono parte integrante delle medesime, licenzio l’opuscolo per le stampe.
E vi abbraccio.

Aldo Cervo

  • Autore
  • Rodolfo del Hoyo
  • Titolo
  • Il viandante alla deriva
  • Collana
  • Stella Verde
  • Pagine
  • 128
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 12,00

Biografia

Rodolfo del Hoyo è nato a Barcellona il 20 ottobre 1953, ma è sempre vissuto a Santa Coloma de Gramenet, in pro-vincia di Barcellona.
Ha seguito studi di Diritto e di Arte Dram-matica. Dal 1990 lavora come addetto culturale al Comune di Santa Coloma de Gramenet, dove dirige un centro d’arte contem-poranea e un centro di cultura tradizionale e po-polare catalana.
Svolge un’intensa attività di incentivazione della lettura. Partecipa al programma Autori nelle Aule dell’Institució de les Lletres Catalanes, con cui visita ogni anno scuole di tutto l’ambito linguistico catalano per tenere conferenze nelle scuole elementari e medie.
Ha pubblicato circa venti libri, principalmente di letteratura infantile e giovanile. Come poeta è autore delle sillogi De miradas imprecisas (1994), Asuntos interiores (1995), Els dits de l’intèrpret (2003) e El caminant a la deriva (2007), oltre che di diverse plaquettes. Per la narrativa, di particolare rilievo le raccolte di racconti Els amors furtius (2000), per la quale ottenne un sostegno per la creazione letteraria dell’Institució de les Lletres Catalanes, e Llegir al metro, cui è stato assegnato il prestigioso premio Recull-Joaquim Ruyra di Narrativa 2012. La sua poesia è stata tradotta in italiano, in romeno e in esperanto.

  • Autore
  • AA.VV.
  • Titolo
  • Premio letterario Macchia d'Isernia 2014
  • Collana
  • Premio letterario Macchia d'Isernia
  • Pagine
  • 112
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 12,00

Eccoci all’appuntamento di Macchia d’Isernia con la letteratura. Con il racconto, con la fiaba, con la poesia e anche con uno spazio dedicato agli autori in erba, bambini e ragazzi, che nella scrittura possono trovare un piacere e una gratificazione, ma anche un incoraggiamento a leggere, prima che a prendere la penna e scrivere.
Nelle sue cinque edizioni giunte finora a buon fine, il Premio Letterario “Macchia d’Isernia” ha visto la partecipazione di centinaia di concorrenti di ogni parte d’Italia ed ha premiato decine di autori, come si può vedere anche nell’albo d’oro che pubblichiamo in fondo al volume. E siamo alla terza antologia, dopo quella del 2008 e quella del 2013. Noi, con tutto il rispetto per i libri elettronici, restiamo amanti della carta stampata e delle pubblicazioni tradizionali. Un libro si può toccare, maneggiare, sfogliare, si può sentirne l’odore. Un libro è un qualcosa di concreto, di tangibile, che rimane rimane nelle case, nelle biblioteche, pubbliche e private, e contribuisce in qualche modo alla costruzione dell’edificio culturale. Il costo di pubblicazione di un libro, oggi, con le nuove tecniche di stampa, è relativamente modesto, ma rimane comunque piuttosto elevato per gli organizzatori di questo premio e per l’Associazione “Maccla Saracena”, che riesce a vivere solo per merito e buona volontà di soci che non solo lavorano gratuitamente per la cultura ma che, tra l’altro, si autotassano anche. Cosí pure la giuria: impegna il proprio tempo e la propria professionalità senza compenso, solo per amore della poesia e della cultura. Ma i meriti di chi opera per la cultura non sempre vengono adeguatamente riconosciuti là dove c’è il potere politico e dove c’è il potere economico. Anche per questo una parola di lode va spesa per l’Amministrazione Comunale di Macchia d’Isernia, che pur coi problemi di bilancio in cui praticamente tutti i comuni e soprattutto i piú piccoli oggi si dibattono, continua a sostenere questo Premio. Consapevole, evidentemente, del valore e dell’importanza della cultura in una società distratta come la nostra.
Sfogliando le pagine che seguono, vi renderete conto della qualità degli scritti antologizzati, prosa e poesia, e inoltre potrete rendervi conto della loro provenienza geografica, da Messina a Treviso, da Savona a Caserta. E anche delle promesse degli autori in erba. A dimostrazione dell’attenzione del mondo delle lettere per la nostra piccola realtà e del fatto che la cultura non ha delimitazioni geografiche e non cede ad alcun tipo di campanilismi.
La qualità dei testi, ripeto, è elevata e i temi sono vari. Certo, forse una giuria diversa avrebbe fatto scelte diverse, forse, anzi certamente, tra i testi concorrenti che, nell’economia di questo volume, non è stato possibile inserire, ce n’erano di validi, che indubbiamente meritavano. Ma comunque non escludiamo poter avere l’occasione di premiarne gli autori in una prossima edizione.
Sia per le poesie, sia per i testi narrativi, possiamo dire che diversi sono gli stili, diversi i contenuti, ma sempre si tratta di testi di valore e non escludiamo, anzi ne siamo convinti, che alcuni autori, se non tutti, lasceranno delle tracce nelle storie della letteratura.

Amerigo Iannacone

  • Titolo
  • Sabbia
  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Collana
  • Colibrì
  • Anno
  • 2014
  • Pagine
  • 80
  • Prezzo
  • € 10,00


Prefazione
La poesia di Amerigo Iannacone esige, da parte del lettore, buone dosi d’attenzione, impegno e dedizione, insieme con spirito di complicità e con una certa dimestichezza con la sua vasta e complessa produzione. Per capire veramente la poetica dell’Autore molisano, per compenetrarsi appieno nelle sue riflessioni sovente sottotono, sussurrate a mezza voce, occorre mettere da parte sia la magniloquenza che le istanze della nostra ingannevole persona, o “maschera individuale”. Pregi e difetti da accantonare con giudiziosa umiltà, mantenendo l’animo, tuttavia, ben aperto al confronto con testi dotati d’una sí elevata intensità e profondità di pensiero, al fine di carpirne, valutarne e apprezzarne valore e portata.
Amerigo tutto rammenta, scruta ed analizza – in ogni minimo dettaglio, con una certosina, limpida capacità di sintesi e d’inventariazione –, senza nulla omettere e, soprattutto, facendo tesoro di ciò che l’esistenza gli ha insegnato e donato e tuttora continua a proporgli.
Il suo è, e rimane, un ininterrotto percorso di “formazione”, in un crescendo di meditazioni ed emozioni che le esperienze – spesso dolorose e traumatiche – inesorabilmente hanno rimodellato e quindi trasformato, sí da imporre alla sua forma mentis, intimamente libera da condizionamenti, contegnosi atteggiamenti di moderazione e di riserbo, dove il dubbio – l’incertezza dell’essere – diviene il fulcro (ovvero, l’organon) intorno a cui ruota il suo pensiero ed attraverso il quale, di conseguenza, prendono forma i suoi versi.
Esiste, dunque, un persistente rapporto dialettico, per quanto impercettibile, che regola – a volte sconvolgendola, fino a scompaginarla – l’ispirazione di fondo: c’è la vita, là fuori, che incombe e fortemente strepita ed urla; nel mentre, il mondo interiore di Amerigo macera, soffre, confronta e freme.
È un poetare che richiede, anzi implora, il silenzio. Soltanto dai luoghi incontaminati della memoria, da quelle dimensioni misteriche ed oniriche popolate da ombre a volte rassicuranti e familiari, piú di frequente minacciose ed oscure – «luoghi insignificanti / siti senza storia», osserva il Poeta in Ogni attimo –, è possibile risalire ai tanti interrogativi del tempo presente. Sono domande che, per quanto irrisolvibili, riescono a dare un senso al nostro vivere quotidiano, ai disegni che, pur rivelandosi mendaci, stimolano il nostro sentire ed il nostro spirito critico, esortandoci a non arrenderci e ad andare avanti.
Pure, ricorrono nell’opera frequenti asserzioni che sarebbe errato spiegare come una capitolazione di fronte all’«incancellabile magma di dolore» che, come un «fiume di sabbia» – si legge in Fiume di sabbia –, ci sospinge «verso il nulla».
Uno dei meriti e delle qualità fondamentali di Amerigo Iannacone, accanto al talento poetico e ad una solida conoscenza delle problematiche proprie della letteratura contemporanea, è l’aver saputo prendere atto dei pesanti livelli d’incomunicabilità – il vero cancro della modernità – che minano il nostro sereno rapportarci con il prossimo. Partendo da questa semplice constatazione, egli s’è dimostrato capace finora, non soltanto dal punto di vista strettamente letterario ma anche sul piano della militanza e dell’impegno concreto, di combattere le terribili conseguenze della solitudine e dell’emarginazione dell’artista, mettendo in campo notevoli risorse di altruismo e coraggio.
La presente raccolta “Sabbia” si distingue, dunque, per la ferma e fiera volontà di capire e lottare, andando oltre le mere apparenze. Confessa, ad esempio, Amerigo nella lirica Ponti: «C’incontriamo / ci parliamo ancora / nel mondo iperuranio delle idee / nel sito imperscrutabile dei sogni. / Il dialogo scavalca / il muro imprescindibile dell’oltre, / dialoghi-ponti / con il passato e forse / con il futuro / duro a immaginare.»
L’impenetrabilità del mistero è intesa – con un accento, in parte, sottilmente provocatorio – come l’estremo rimedio, il piú raro e prezioso: una riedizione del leopardiano conato volto ad affratellare ed unire gli uomini, assumendo come coordinate e, nel contempo, come elementi d’aggregazione, le universali ed enigmatiche leggi della sofferenza e del dolore.
C’è, in effetti, in Iannacone una religiosità di fondo, concepita – oserei dire – come sacralità dell’inconoscibile. Questa silloge potrebbe benissimo essere interpretata come una ulteriore evoluzione, una maturazione in fieri e non definitiva – benché priva di certezze ma senza grossi inganni –, tale da comportare la compilazione d’una sorta di lezionario – laico, se vogliamo, al passo con i tempi –, prossimo a quei venerabili libri d’ore che, a partire dal Medio Evo, hanno accompagnato per millenni le tenebrose notti d’un’umanità confusa e alla ricerca di punti fermi. Un asciutto, categorico sequenziario d’inenarrabili velleità, accuse, contenziosi, lamenti, confessioni, omissioni, ingiustizie, gratificazioni, trame, destini, condanne, evoluzioni ed involuzioni…
Allo stesso modo, ma sul fronte opposto, è possibile riscontrarvi un vorticoso ed emblematico campionario di nefandezze ed assurdità, che l’“homo homini lupus” – da Plauto ad Erasmo da Rotterdam, fino a Thomas Hobbes – ancora seguita a perpetrare. Ciò lascia pensare, senza tema di smentite, al profano “Libro di sabbia” che il visionario Jorge Luis Borges realizzò all’insegna d’una nietzschiana, sprezzante e luciferina empietà: sogni, incubi, spettri ed echi, frammisti a carne, volti, luoghi, misfatti…
Sabbia, insomma, quale umanissima e completa registrazione, codice (codex, notare l’etimologia della parola: da caudex, tronco d’albero) – del perpetuo disfacimento del Creato, accompagnato e seguito dal suo portentoso, simultaneo rigenerarsi.
Una “natura naturans” – va ricordata la lectio di Giordano Bruno e, successivamente, quella di Baruch Spinoza – che, nel suo incessante divenire, assume le sembianze piú difformi, fino a quelle, infinitesimali, di granuli volatili ed impercettibili, che evocano e rimandano all’arcano del nulla eterno.
È il prodigio della materia/mater dinanzi al quale noi siamo spettatori muti ed impotenti, e che l’intelletto e la coscienza del Poeta si sforzano in qualche modo d’afferrare, di sedimentare, decantandone tristemente, mirabilmente corsi e ricorsi, flussi e riflussi, sia tangibili che incorporei.
Perché qualcuno ha insegnato che l’immaginazione può essere tragica e vera, assai piú della realtà.

Francesco De Napoli

  • Titolo
  • Quattro autori per quattro medioevi?
  • Autori
  • Buongiovanni, Franchitti, Sarra, Zullo
  • Collana
  • Colibrì
  • Anno
  • 2014
  • Pagine
  • 120
  • Prezzo
  • € 10,50

Introduzione
L’idea di Medioevo nasce con l’Umanesimo italiano, per definire un arco di tempo che si snoda tra la fine del VI e il XV secolo. Da un certo punto di vista possiamo considerare la categoria storiografica di Medioevo pertinente, perché riconosce e custodisce molti elementi di continuità in un lungo periodo; allo stesso tempo però questa etichetta risulta equivoca e ingrata, costringendo il Medioevo alla condizione subalterna di tempo intermedio e di attesa tra l’età antica e l’età moderna. Per altro, rispetto alle due età estreme, il Medioevo risulta un tempo molto più lungo e complesso. La difficoltà per l’Umanesimo a comprendere il Medioevo corrisponde al fatto che in esso la razionalità ha un ruolo di secondo piano, soprattutto nella costruzione del senso della storia e della vita. Questa caratteristica potrebbe per altro costituire un elemento capace di suscitare di per sé interesse dal punto di vista del nostro tempo, segnato da così grandi interrogativi sul significato della razionalità nella storia.
La storiografia letteraria che si dedica ai testi latini scritti da Boezio a Erasmo da Rotterdam mostra una vivacità culturale inattesa. Il Medioevo nasce dopo la guerra di Giustiniano contro gli Ostrogoti di Teoderico, dopo la sua effimera vittoria e dopo il sostanziale prevalere in Italia dei Longobardi sui Bizantini, quando tutto ciò che proveniva dalla tradizione classica e dalla romanità fu messo in discussione, in un profondo rinnovamento della cultura. Da questo momento in poi non è più la razionalità a prevalere, e interruzioni che non si ritenevano possibili si verificano nella realtà. La rottura con la cultura classica non è, però, assoluta e ciò è rivelato dal fatto che il latino rimane la lingua della cultura e i testi antichi continuano a essere letti e trasmessi, per quanto in un contesto intellettuale e spirituale del tutto nuovo, segnato dall’idea che vi è qualcosa di ulteriore alla ragione che regola i fatti storici e la natura, qualcosa che sarà rappresentato eminentemente dalle forme della cristianità.
Nello studio del Medioevo è possibile individuare quattro periodi, ognuno dei quali può essere introdotto con lo studio di un autore ritenuto particolarmente rappresentativo della temperie culturale dell’epoca di appartenenza. La prima fase (secoli VIII-IX) è successiva all’apertura di Gregorio Magno nei confronti dei Germani. Egli è il primo a dare un’interpretazione di un periodo confuso e a percepire la possibilità di senso di una storia che sembra non averne. La figura maggiormente rappresentativa di questa nuova visione storiografica, sulla scia di Gregorio, è il monaco anglosassone Beda il Venerabile, autore dell’Historia ecclesiastica gentis Anglorum, la prima storia degli Angli. Tra i secoli X-XI, con la crisi dell’impero carolingio e l’uso ideologico della tradizione germanica (che nuovamente cerca il mito dell’Impero), avviene un cambiamento. Sul piano letterario, la storiografia lascia spazio alla lirica, nasce una nuova sensibilità letteraria, emergono passioni e sentimenti, l’attenzione è rivolta al singolo individuo e la letteratura si focalizza sulla natura dei sentimenti umani. Paradigmatica di questa fase è la personalità di Letaldo di Micy, agiografo e autore in particolare del Whitin Piscator. Nei secoli XI-XII la riflessione filosofica di Anselmo di Aosta, vescovo di Canterbury, dà una nuova dignità alla ragione dell’uomo, che si rivela uno strumento utile per dimostrare l’esistenza di Dio e la verità della tradizione cristiana. In questo riconoscimento delle possibilità della ragione Dio si mostra vicino all’uomo e compare nella figura dell’amicizia. Da ciò deriva quello che è stato chiamato il Rinascimento del secolo XII, con una rinnovata fiducia nel linguaggio e nelle possibilità dell’uomo. Eloisa, nelle lettere ad Abelardo, porta alle estreme conseguenze il razionalismo anselmiano, mostrandone la forza e le criticità: la persona si sente ora capace di giustificare interamente se stessa e i propri atti. Il linguaggio che aveva trovato in sé una traccia divina, trasforma gli atti umani che narra, ponendoli in relazione all’intenzione di chi li compie e questa relazione è decisiva nel giudizio. La letteratura si impegnerà a scrivere storie nelle quali l’unico metro di giudizio è il protagonista stesso, le sue caratteristiche, i suoi amori e qui la letteratura europea scopre il romanzo.

Nei secoli XIII-XIV, con Francesco d’Assisi, nasce una nuova concezione di Dio: non è la ragione a dimostrare che Dio esiste, ma il silenzio di Dio, che lascia l’uomo libero di compiere le sue scelte. Il Dio forte della razionalità, diventa il Dio debole che ha accettato di annientarsi calandosi nell’umanità, non nel segno dell’evidenza ma della insignificanza: Dio mostra la sua onnipotenza calandosi nel nulla, accettando ciò che è del tutto altro da lui; per avvicinarsi a questo Dio, quindi, bisogna ugualmente rinunciare a tutto, fino a perdere la propria identità. In letteratura a questa nuova idea divina corrisponde una progressiva diffusione del volgare. La perfezione della persona corrisponde sempre per il Medioevo alla consapevolezza della propria vicinanza a Dio e dopo Francesco questa vicinanza si esprime compiutamente non nella lingua delle scuole, della tradizione, del potere, non nella lingua che teneva in comunicazione tutto il mondo europeo, ma in una lingua debole, all’inizio della sua storia. La lingua madre diviene la lingua della perfezione: la storia letteraria del Mediolatino qui sostanzialmente si chiude.

  • Autore
  • Athanase Vantchev de Thracy
  • Titolo
  • Dia digno de la vorto
  • Collana
  • Stella Verde
  • Pagine
  • 96
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 12,00

Dia digno de la vorto

MI ĉiam admiris la dolĉan kaj brilan klarecon de la poezio kaj la printempan roson glimantan sur la kalikoj de la vortoj. Mi amis, ekde mia infaneco, la nekredeblan kompleton de iuj versoj kaj ilian plenkompletan profundon. Adole-ska, mi intuiciis mian mizeron kaj tiun de la homoj ĉirkaŭ mi. Bal-daŭ mi ekkonsciis pri la nenio, kiu alkroĉiĝas al niaj korpoj, sen iu utilo. Mi sufokiĝis antaŭ la perspektivo de kompatinda ekzistado, en la eto de la deziroj kaj la malpleno de modestaj kontentigoj. Ĉu mi devis vivi en tiu minerala silento kiu ŝvebis en la ĉirkaŭa aero kaj trankvile resti komplico de la malesto de sankta pasio? Mi revis lumajn flagojn kaj ĝojajn oriflamojn. Mi volis esti la kanto de la najtingalo, kiu per sia voĉeto, aŭrora glavo, fendas la profundon de la ombroj. Mi deziris palpi la tempon sciante, ke neniam mi estos vidanta ĝian vizaĝon.
Mia entuziasma animo puŝis min ami la belon en ĉiuj ĝiaj for-moj, en ĉiuj ĝiaj manifestadoj. Memvole mi aprecis la netan ele-ganton de la arboj kaj de la floroj, la fantazion de la insektoj ĉiam moviĝantaj, ilian ĝojan akcepton de la ekzistado. Mi baldaŭ ko-mencis plejami la silentan saĝon de ĉio, kio estas humila kaj vera, la surdan ekzaltadon de la animoj markitaj de la mistika signo de la abnegacio, la senmovajn vorticojn de la puraj koroj.
Mi baldaŭ komprenis, ke la interna bruo, kiun lasas gravuritaj la eventoj en nia karno estas ege pli grava ol la eventoj mem. Mi devis eduki en mi mem sagacan kaj klarvida gardadon. Mi lernis naĝi en la revoj. Estas tiel ke mi spertis la mirindaĵojn de la profundoj kaj la sencesajn miraklojn de la vivo. Mi lasis miajn ĉagrenojn hejme, en mia ĉambro, ĉiam orda por iri serĉe al la poezio, tiu senlima maro plena je suno, sonoj kaj nesupozitaj trezoroj. Ĝi kaŝis en sia sino la silenton klaran kaj sen iluzioj, kiu povis levi min al la regno de la vero. Ĝi enhavis en siaj ĉiam moviĝantaj akvoj la puran esencan malĝojon tiel proksiman al la eterna ĝojo, kiu malkaŝas al ni la teorion, la vidon de Dio.

Breve estratto dall'Introduzione

  • Titolo
  • Scuola di poesia - Nicola Napolitano a cento anni dalla nascita
  • Autore
  • AA.VV.
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 113
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00


L’uomo
Vado su internet per cercare riscontri autorevoli ai miei ricordi sull’intellettuale Nicola Napolitano e resto frastornato. Compaiono varie omonimie e la prima è di un personaggio storico di due secoli or sono, soprannominato Il Caprariello (1838-1863), un brigante italiano attivo nell’avellinese che, dopo essere cresciuto come pastore di capre, è stato fucilato venticinquenne dai bersaglieri nella sua Nola. E allora con l’occasione di questa pubblicazione rievocativa nasce un obbligo doveroso verso il “nostro” protagonista: fare i dovuti inserimenti su Wikipedia, l’enciclopedia libera on line, perché compaiano la sua biografia e la sua bibliografia.
Nicola Napolitano è nato a Casale di Carinola, nella Terra di Lavoro, al di là della riva sinistra del fiume Garigliano il 17 gennaio 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale. Quando lui nasce la provincia di Caserta si estendeva a nord, nell’entroterra, sino al confine tra i comuni di Arce e di Ceprano e sulla costa sino a Monte San Biagio, alle porte di Terracina. Nuovi confini amministrativi disegnati dal fascismo che hanno ridimensionato la provincia casertana ed esteso il Lazio più a sud sino al corso del fiume Garigliano non hanno spezzato il legame culturale e storico esistente e che il parlamentare sessano Franco Compasso chiamava “civiltà aurunca”.
Nicola Napolitano nasce in una famiglia di agricoltori, suoi genitori sono Giuseppe (nome che lui, rispettoso delle tradizioni, darà al figlio primogenito) e Carolina Rossi. Sino ai ventidue anni lavora la terra, lunghe le interruzioni nei suoi studi per l’immatura morte del padre nel 1927, è lo stesso anno in cui Benito Mussolini decide di sciogliere la provincia di Terra di Lavoro, accorpando gran parte del suo territorio e le Isole Ponziane alla provincia di Napoli, alcuni comuni nei dintorni di Piedimonte e Alife vengono ripartiti tra le province di Benevento e Campobasso, mentre il circondario di Sora e quello di Gaeta passano alla provincia di Roma. Ma Nicola, solo tredicenne, è preso soltanto dall’impegno di aiutare la famiglia di appartenenza. Quando aveva appena ripreso a frequentare la scuola giunse la chiamata alle armi per la Campagna d’Africa; nel 1935 l’Italia fascista vuole un posto al sole e Nicola diciannovenne parte per l’Abissinia, almeno può aiutare ancora la famiglia con la sua modesta paga da militare. Successivamente il richiamo per la seconda guerra mondiale e l’invio in Grecia.
L’armistizio lo coglie di stanza sull’isola di Creta, i Tedeschi lo fanno prigioniero e lo deportano in Germania. È solo un numero nel campo di prigionia di Grafenwohr, una località del circondario di Neustadt an der Waldnaab, Alto Palatinato, nel Land di Baviera. Oggi Grafenwohr è conosciuto come un tranquillo paesino di meno di settemila anime, ma allora è un luogo di dolore e sofferenza, dove si pativa d’inverno il freddo e sempre la fame, le malattie per deperimento, gli oltraggi alla propria dignità di uomo e di soldato. Frammentario e difficile il cammino per tornare a casa, come, d’altronde, è avvenuto per tutti i nostri reduci dalla Germania. Da sergente a Pavia conoscerà una ventenne con la quale, lui introverso, si aprirà come non mai e racconterà questo dolce incontro in un libro pubblicato solo postumo, Disegnare il tuo nome. Ripresi finalmente gli studi, Nicola il 3 agosto 1946 a trentadue anni consegue l’agognata laurea in lettere all’Università di Roma e l’anno dopo a Castelforte inizia la sua attività di docente. Sono gli anni della ricostruzione e non appena ha un reddito, se pur modesto, si sposa con Carmelina Rotunno e ha da lei tre figli Giuseppe, Valerio e Carolina. Dopo tredici anni di dura gavetta nel 1960 diviene infine preside dell’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “G. Filangieri” di Formia e nel 1978, l’anno successivo al suo pensionamento, fonda il Liceo Linguistico “W. Shakespeare” di Formia che dirigerà sino al 1983 e anche come preside nell’anno scolastico 1991-1992.
Come dirigente scolastico si fa apprezzare per l’equilibrio e la padronanza del ruolo; sa capire i suoi allievi, dialogare con i genitori, progettare programmi, costruire soluzioni. È fondatore e segretario della Sezione di Formia dell’Association Européenne des Enseignants, dal 1962 al 1978 è stato anche componente del Comitato Centrale della stessa associazione. Insieme agli amici del Circolo Letterario “I Girasoli” è stato tra i fondatori del Premio Letterario Suio Terme e componente della giuria. In tutta la sua vita scrive incessantemente, la sua penna è un fiume in piena, la sua mente e la sua anima hanno bisogno di dare libero sfogo ai pensieri, ai sentimenti e alle sensazioni. Le sue poesie e prose sono incluse in numerose antologie, anche per ogni indirizzo scolastico. Sue poesie sono state pubblicate e tradotte in tutto il mondo: Stati Uniti d’America, Bra-sile, Francia, Grecia, Svizzera, Spagna, Romania. In lingua spagnola è stato tradotto da Carlos Vitale. Riceve numerosi e prestigiosi premi, nel 1982 gli è conferito il Premio della Cultura dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, si spegne a Formia ottantanovenne il 26 novembre 2003.
Il figlio Giuseppe, scrittore e poeta anche lui, raccoglie tutte le sue opere, anche quelle inedite, e lavora a diffonderle e soprattutto a preservarle. Nicola Napolitano è stato anche protagonista di ricerche per tesi universitarie e nella Biblioteca Comunale di Formia si sta allestendo una sezione a lui dedicata. Anche la consorte Carmelina Rotunno, in vita a volte “schiacciata” dalla forte personalità del coniuge, lascerà ai posteri poesie estremamente belle e struggenti. La cognata Licia, sorella di Carmelina, pubblica un libro di memorie delle sue esperienze belliche, assolutamente originali, che meritano il serio approfondimento degli storici. Napolitano, una famiglia di intellettuali giunta alla terza generazione, in quanto anche la consorte di Giuseppe e la loro figlia Gabriella, ancora adolescente, dimostrano grandi sensibilità e capacità intellettuali.
Chi scrive ha conosciuto Nicola Napolitano, frequentandolo e stimandolo grandemente non solo come intellettuale, ma anche come uomo. Desidero concludere questa mia memoria ricordando una serata speciale. Da vice presidente e consigliere delegato dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Minturno-Scauri supplii alcuni anni alla chiusura della Stagione Teatrale presso l’Area di Minturnae con appuntamenti alternativi nelle varie piazze di Minturno. A una serata, che si tenne dopo il tramonto, d’estate nella Piazza Santa Albina di Scauri, invitai come protagonista Nicola Napolitano. Furono ore deliziose, serene e coinvolgenti. Il nostro protagonista calamitò l’attenzione di tutti i presenti, deliziandoli, e rimasi stupefatto di come declamava le sue poesie a memoria, inserendole in un coinvolgente contesto storico, anche biografico. Una serata magica sotto le stelle, difficilmente imitabile. Sono certo che nei Campi Elisi ritroverò Nicola Napolitano intento a comporre nuove liriche e certamente organizzeremo, grazie alla disponibilità degli Angeli Celesti, nuove serate in cui la poesia sarà protagonista e, ancora una volta, nutrimento per le nostre anime.

Marcello R. Caliman

  • Autore
  • Giuseppe Napolitano
  • Titolo
  • Poetiche venafrane
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 80
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00

Viverne così

Leggere un’opera ed entrare nel pensiero di chi scrive, nelle e-mozioni (mi piace pen-sarle un fenomeno eruttivo), nei “moventi”, direi io, che generano, dolcezza di parto, il flusso delle parole, convogliando la piena del fiume, incidendo le pietre e lasciando segni di sé nelle geografie del lettore.
Quando questa figura si affianca anche a quella dello scrittore, come nel caso di Giuseppe Napolitano, il risultato dell’incon-tro tra le due anime non è piú solo una re-censione o una relazione, ma una creazione nuova (una creatura), un’opera altra che gemina dall’altra ed espande al mondo il suo profumo di vita nuova.
Cosí è per Giuseppe Napolitano. Per lui non è necessario conoscere il poeta o lo scrittore, perché la chiave di lettura si trova sempre e la porta si apre sí all’analisi dell’o-pera, ma ancor piú ad incisi e spaccati che, sovente, rappresentano estensioni e rifles-sioni che universalizzano il dire e nutrono sostanza per altra meditazione. Lo scrittore – in nome di sincerità, di cui ama dichiara-tamente andar vestito – dice infatti, nel suo dire, sempre la verità, anche quando questa potrebbe spiacere alla lettura, ma la realtà – anche quella poetica – quanto piú si fa bello del vero, tanto piú non deve tacerne anche il brutto. Ecco.
È proprio la verità quella che si accoglie da Poetiche venafrane, ove i poeti sono amici vecchi e nuovi dello scrittore, e “Poetiche” demarcano la “linea” lungo i cui cammini la poesia si fa voce del vivere in tutte le sue possibili attribuzioni.
“Viverne cosí”, sembra dire Giuseppe Napolitano, leggere pagine (non per diletto, ma chiaramente per amore) nelle acque amiche della verità e nella consapevolezza di saper dire parole nuove e vecchie ad un tempo, usando registri modulati ad arte e ad innesti con risultati alla fine di pace e di conciliazione, tra il dire di chi scrive e quel-lo di chi legge. Fessure aperte e tanti toni lungo i gradini delle parole ed un messaggio finale, sempre, che non vuole che aprire ad altri mondi e ad altre, non conclusive, parole.
È questo è il dono di parola, è il dono del poeta Giuseppe Napolitano.

Ida Di Ianni

  • Autore
  • Antonio Vanni
  • Titolo
  • Diario di una nuvola bassa
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 60
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00

Infanzia/adolescenza
in Diario di una nuvola bassa

La prima conquista del giovane poeta Antonio Vanni in questi recenti approdi è nella possibilità di risentirsi (quasi rifarsi) fanciullo ed entrare nell’anima della figura/tema del componimento: la sua voce diviene la voce del fanciullo protagonista. Il poeta ne rivive i momenti, le situazioni, gli affetti, le speranze, le delusioni, le sofferenze, spesso l’acerbo destino. Il fanciullo/oggetto diventa (si fonde con) l’io soggetto del canto. Il Vanni conquista cosí quella felice altezza lirico/epica nella quale, mentre si ha l’illusione di cantare/esprimere la vita dell’al-tro, si esprimono i propri sentimenti, il se stesso nell’essere dell’altro... Questi testi, la cui atmosfera affettivo/lirica rivela costante immersione nel respiro misterioso dell’infanzia/ado-lescenza, celebrano uno stato di pienezza, di meraviglia, di dolore, di incantata e tragica visione legata al primo dischiudersi della coscienza sulla vastità mutante del misterioso Creato.
La seconda conquista che Antonio Vanni ottiene con questa silloge è nell’aver superato nettamente (nella tenuta della scrittura e nella coerenza della sostanza) i limiti ai quali era pur giunto con lucido impegno nei lavori precedenti. Una forza nuova, una fantasia so-stenuta che anela a cieli alti partendo dai raggiunti orizzonti. Non abbiamo solo l’amplificazione del verso, della strofa e della composizione, ma sentiamo dentro questa nuova scrittura battere un vento nato tutto dalla sua anima dilatante semanticamente la già notevole sfera affettiva; il poeta raggiunge misure tese ad un vasto ardere di epici sentimenti. Spariscono i versi brevi, i componimenti dal respiro contratto, i moduli tonali un po’ familiari magari riecheggianti trasporti di feconde letture, e al loro posto sentiamo affermarsi con indubbia fermezza un’urgenza di voce sorgiva, alta e vasta nel contempo come, per addurre un esempio, è quella che vibra nella composizione Romanov, in cui il nostro poeta tocca vasti traguardi creativi, raccogliendo dalla Storia un momento di altissima tragicità, il feroce/crudele massacro del piccolo Alessio Romanov con tutta la sua imperiale famiglia a Ekaterinburg. Con tenerezza ammirativa l’autore dedica la grandiosa composizione alla sensibilità d’amore per l’infanzia della poetessa Maria Grazia Lenisa. Il critico nota subito che la stesura di questo scritto, sotto l’ispirazione emergente dallo storico delitto e nell’immensa pietà per la violenza perpetrata dagli adulti nei confronti dei fanciulli (infanzia/adolescenza), è stata raccolta in una attiva ubbidienza dall’intimo dettare della coscienza, dolente e trionfante per il riscatto in poesia di una figura cosí fragile, tanto innocente, travolta dagli impeti cruenti dell’u-mana storia. I mormorii che incendiano le pietre della città in cui fu consumato l’efferato massacro; la triste figura e la femminile pa-zienza; il sentirlo vincitore e vinto; il risentirsi fanciullo accanto all’innocente Alessio «che intrecciava pace col visino stinto»; il vento che riporta il mattino e accende la mente nei «verdi anni»; la morsa di lirico dolore che costringe il poeta a sentirsi «uccello sopra le cose morte»; le «foglie» (ritornante simbolo di tenerezza, di pietà e di vita rivolta alla speranza) che allietarono con il loro fruscio i giochi infantili; la luna piena che illumina gli spazi circondanti la casa; la clessidra/tempo che divora persino la terra e, poi, a conclusione della potente strofa, le «eliche di prigionia» divenute muta preghiera: queste figurazioni, questi tonali gesti, questi ampi e profondi respiri (con quanto segue del componimento che lasciamo all’intelligenza del lettore) sublimano il testo poetico in una difficile ma feconda ricchezza emotiva resa in ampia e pur raccolta scrittura. Ci siamo fermati su questa poesia che a nostro giudizio e per ampiezza e per profondità, per drammaticità della storica violenza sull’infanzia/adolescenza (cui il poeta dedica la silloge) ci è parsa altamente rappresentativa dell’attuale stato poetico del-l’autore, ma sentiamo subito il dovere di affer-mare che ogni testo di questa raccolta vibra di un intenso istintivo amore dentro la figura di un bimbo, un fanciullo, di un adolescente (di-remo dentro l’infanzia emblematizzata) colti sempre dalla realtà e nobilitati dalla purezza raggiunta del sentimento e della scrittura.
Il fascino emotivamente umano di cui la fanciullezza ha sempre avvolto l’animo di An-tonio Vanni è anche una costante della sua vocazione poetica visibile nelle raffigurazioni, udibile nelle tonalità d’innocente purezza dal suo esordio all’attuale produzione, definibile “poemetto sull’infanzia”. I due termini sono ampiamente giustificati: il primo dalla scrit-tura che, superando il passo corto e il respiro breve delle precedenti prove, si dilata ed e-spande, nel tempo e nello spazio della memo-ria, con una tenuta di ispirazione, d’invenzione verbale, con un’ampiezza d’onda di eccezionale forza; il secondo dal fatto che il nostro giovane poeta ha vissuto con queste composizioni una densa stagione nel clima di una tematica, quella dell’in-fanzia, a lui tanto cara, con fertilissimo e ammirevole stato creativo. Sintomatica è la poesia In morte di un bambino romantico: qui la fusione degli elementi reali con la creazione fantastica è perfetta. Le figure sulle quali s’innesta e si sviluppa il bellissimo testo sono il poeta, il bambino e la madre, ma queste due ultime vi-vono di rassegnato e rasserenante dolore nello spirito dell’autore: nella conclusione della liri-ca esse si fondono in modo indissolubile nell’io poetante. Il rapido cadere tra il volo dei deltaplani, le labbra che si avvivano sulla roccia, le pietre che parlano, il folto capo del bambino destinato a scendere nel vitale fiume che attraversa ininterrottamente la coscienza del poeta, il volo fantastico che sale fino alle nu-vole alte e ferme ad ascoltare l’inconsolabile pianto materno, l’adagiarsi lieve delle foglie in movimento divenute anima del poeta il quale, elevato a visione d’eternità, accetta il dolore della perdita in una purezza sorgiva dell’umano destino: questi segni verbali sono sensazioni emergenti da dentro un clima di fremiti fraterni e la misura della verità affettiva è nella resa espressiva perfettamente consonante con gli interni tremori. Il tutto si fonde nella composizione la cui unità diviene catarsi di dolore elevato a ritmo estetico.
L’accensione emotivo/lirica si ha in ogni direzione, ad ogni livello, in ogni dimensione di tempo e di spazio (sia nel diretto contat-to/stimolo fisico sui sensi proveniente dalla realtà esteriore sia nell’appropriazione memo-riale). Cosí in Paesaggio addormentato, disteso in una tensione astrale e reso in vaghezze di sogno con figure la cui felicità è tutta nell’im-pasto inscindibile di suono/colore (musi-ca/cromatismo); cosí nella lirica A Roberta tutta soffusa di intimi aneliti in un’assoluta, totale immersione nelle pulsioni del sentimento: ogni segno, ogni gesto, ogni colore, un lieve movimento, tutto quanto è at-taccato alla figura della ragazza amata si fonde in una resa musicale del linguaggio. E una confessione «dell’arden-te brama / della mia suprema dolcezza»: la vergine di gesso, i bruni capelli, l’oblio nel riposo mattutino, gli aromi d’edera, le braccia e il corpo dell’amata, il navigare su azzurre acque in cui si dissolve la fantasia dell’amante (poeta), il sentirsi cul-lato in vaghi calessi, in onde di aerei sogni, sono figure in forme e colori in movimento; sono palpitazioni che si mutano nell’armonia di una confessione fonica, di un amore asso-luto e irrinunciabile. In L’assenza il poeta celebra una proiezione emotiva fermata in pochi versi sorretti tra figure marine conservate nel tremito del ricordo e altre prodotte dall’impeto creativo proiettato verso il desiderato, bramato futuro. In Echi, tra onde musicali di foglie, fa rivivere nella realtà la figura di un fanciullo assillato dall’inelut-tabile mutare. Con commosso realismo dedica otto versi al figlio del poeta Percy B. Shelley, scolpito in una vaga figura albale come un «affascinante dialogo dimenticato». «Dinanzi alla piccola lapide di William io resto delle ore», confessa il poeta in nota, «ogni volta che sono a Roma, godendo di una profonda serenità». Una serenità raggiunta attraverso la tenerezza del ricordo e la rapita contemplazione.
Come non sentire il vigore che presiede al-la stesura di questi versi tratti da un altro capolavoro, M’attraversa un grande amore:
L’ombra del cielo che fa apparire un’eco
                                               [vagabonda
sulle mie ginocchia ferme
scheggia coi compagni il bosco nuovo,
non ha una propria età e muore felice
il bacio del fanciullo dalle ombre amiche.
La rivolta nel dolore del tramonto, la
                                                [sopraggiunta quiete dello Stige.
La stupenda vitalità che scorre in questi ampi e profondi respiri si coglie subito in quell’«ombra del cielo», nell’«eco vagabonda», nelle ginocchia ferme cui figurativamente poggia il «bosco nuovo» e poi il «bacio di fan-ciullo felice» eternizzato da «ombre amiche»; e il tramonto nel segno inequivocabile del «dolore» che si perde nella pietosa calma del mitico fiume. E vogliamo ancora fornire una ulteriore testimonianza di quanto abbiamo affermato sulla decisa, e notevole crescita del nostro poeta: ci fermiamo sull’ultimo componimento della raccolta, Il tramonto. Fedele a se stesso, a questa sua felice stagione densa di tenere memorie e di trascrizioni verbali di assoluta autonomia, Antonio Vanni resta nella prediletta tematica dell’infanzia/adolescenza e della memoria e traccia la tenera figura di Luciano, un suo compagno dí scuola rapito dal destino «nel fior degli anni». Il passo ampio, la visione at-mosferica di ricreazione memoriale, le figure reali ma rese lievi dal fluire lento e triste della fonicità, dal ritmo del ricordo; l’abbandono soggettivo alla riappropriazione di un momento vissuto e profondamente inciso nella carne della sua anima pongono a diretto confronto gli affetti veri e le speranze infrante del com-pagno adolescente stroncato dall’atrocità dell’acerbo destino e lo stato lirico/cognitivo del poeta evoluto di oggi. Nel pulsare dolente dell’io adulto sulle tenerezze perdute dell’adolescenza sorge il miracolo della poesia che offre ai cuori sensibili e alle menti ispirate l’emozione indimenticabile della totale fusione delle due anime nella indubitabile verità del vissuto (il passato) e del vivente (il presente).

Vincenzo Rossi

  • Autore
  • Vincenzina Scarabeo Di Lullo
  • Titolo
  • Il fazzoletto rosso
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 100
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 10,00

Il primo elemento connotativo, che a lettura appena ultimata mi viene in punta di penna, è che in sette racconti si riscontrano sette motivi ispiratori. Cosí tanto – dunque – offre la breve silloge di Vincenzina Scarabeo Di Lullo. E si va dall’idea di libertà dello scontroso barbone milanese alla metafora del leone nel canto – in treno – di un africano, passando poi, nell’ordine, attraverso il problema del giovane contemporaneo esposto alla tentazione di amori clandestini e del facile guadagno da spaccio di stupefacenti; allo sbandarsi generale dell’esercito italiano dopo l’armistizio di Cassibile del 3 di settembre 1943; alla “rivincita” dello studente povero che nel licenziarsi dalle Medie di primo grado legge nel sorriso del piú caro dei suoi docenti una enigmaticità piú ambigua di quella – famosissima – della Gioconda di Leonardo; al tema della morte in un ammalato terminale; al dramma – infine – di una moglie infelice che decide di sopportare le angherie di un marito geloso e manesco pur di salvare, a beneficio dei figli, l’unità della famiglia.
Una varietà di motivi, come si vede, che rende testimonianza di una pari varietà di interessi in un’autrice la cui esperienza professionale, di docente prima, poi di dirigente scolastico, ne ha fatto donna attentissima alla complessa fenomenologia socioantropologica del no-stro tempo.
Cosí oggi, dopo lungo periodo (ne sono piú che certo) di sedimentazione, vedono la luce – per le Edizioni Eva – in formato Colibrí pagine destinate a segnare le coscienze dei fruitori, specie se giovani, vista la tipologia delle tematiche sviluppate e la portata didattico-educativa delle vicende riferite.
Il testo, il cui titolo riconduce a un periodo storico terribile dell’appena trascorso Novecento, rifugge da ogni tentazione da enfasi: Chi vi cercasse elementi esornativi adottati a mo’ di vezzosi abbellimenti ne uscirebbe deluso.
L’impianto linguistico-espressivo privilegia, sintatticamente parlando, il periodo composto, ma senza eccedere in subordinate. Il che mentre evita il diluirsi in digressioni della pregnanza significante dei racconti, fa fede, nella Scarabeo, di una sobrietà di stile che consente al lettore di andare dritto al cuore del messaggio narrativo. Che è poi l’intendimento stesso dell’autrice.

Aldo Cervo