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  • Titolo
  • Versi al succo di limone
  • Autore
  • Carmine Brancaccio
  • Collana
  • L'albatro
  • Pagine
  • 128
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 12,00


Prefazione alla prima edizione

Un’antologia è per definizione qualcosa di arbitrario. Lo è ancora di piú per un autore che è giovane come Carmine Brancaccio e la cui scrittura – diciamolo pure – è spesso piuttosto impermeabile. Non starò quindi a dire che la scelta di pubblicare alcuni testi anziché altri è soggettiva e se l’avesse fatta un altro sarebbe stata diversa: è scontato.
I criteri da seguire per una scelta antologica possono es-sere vari: optare per i testi piú emblematici, per quelli piú riusciti, per quelli che piú rientrano in una certa area tematica o in un certo stile, ecc. Io ho seguito il criterio piú banale, ma diciamo pure piú immediato. Ho riletto tutta l’opera di Carmine Brancaccio e ho preso quei testi che mi sono sem-brati di piú facile lettura e che ho sentito a me piú congeniali e ho voluto inserire gli ultimi due libri – che possono essere considerati dei poemetti – per intero, sia pure eliminando le sezioni e le parti in prosa.
Il titolo è venuto fuori in una conversazione fatta con l’autore e mi è sembrato confacente. Il succo di limone ha lo stesso effetto dell’inchiostro simpatico: consente una scrittura segreta, che si può decriptare scaldando il foglio. Anche i versi di Carmine Brancaccio sono da decriptare, ma poi, quando uno è riuscito ad entrarvi, vi troverà una poesia molto intensa. Forse, come il succo di limone, anche un po’ asprigna, ma proprio per questa sua caratteristica – in qual-che modo – come il limone deterge e purifica.
Carmine Brancaccio si affaccia giovanissimo sulla scena delle lettere. Il suo primo libro è infatti del 1997, quando il nostro autore aveva soltanto diciotto anni. Le poesie incluse, scritte negli anni precedenti, sono sí testi di un adolescente, ma vi si nota già una certa maturità oltre che la tendenza alla ricerca lessicale e un gusto per la metafora e il simbolismo. Questa ricerca lessicale segue un suo percorso e porta Bran-caccio anche a tentare varie strade stilistiche. Ultima delle quali è quella dei versi del poemetto Le quartine di Pierrot, uscito nel 2007, dove sperimenta l’endecasillabo, sia pure piuttosto libero, sia pure frammisto ad altri versi (decasillabo, dodecasillabo, novenario, ecc.) e, appunto, la regolarità della quartina.
La tematica, che nelle prime poesie verteva eminentemente su aspetti personali e intimistici, si allarga gradualmente al pensiero universale e alla poesia civile e sociale. Col volume Fughe, i re sono giullari, del 2002, possiamo dire che comincia una nuova stagione nella poesia di Brancaccio. C’è anche una svolta stilistica, ma la svolta è soprattutto tematica, come già il titolo ci suggerisce. I tre sostantivi “Fughe” “re” e “giullari”, sono in qualche modo parole d’altri tempi, ma sono altri tempi in cui viene proiettata la contemporaneità. E infatti sempre piú i detentori del potere non sono che giullari, menestrelli alla ricerca spasmodica di un consenso che non riescono a procurarsi coi fatti e cercano nella politica-spettacolo. Con questo libro comincia “La battaglia di Ceri-man”, come recita il titolo di una poesia e Ceriman non è altro che l’anagramma di Carmine.
Il libro successivo porta il titolo Laudano. Il “laudano” è, secondo il vocabolario, un «medicamento a base di oppio, zafferano, cannella, garofano e alcol usato come analgesico, specialmente nei dolori di origine addominale». Per Bran-caccio il “laudano” è la poesia. Quindi la poesia è un anal-gesico. Magari un analgesico del tutto naturale, ma che senz’altro lenisce il duro cammino dell’esistenza e della sof-ferenza che ne deriva. La poesia assume cosí anche, cosa di cui molti sono certi, una funzione terapeutica. Ma poesia è soprattutto un modo di essere e un modo di rapportarsi con la vita.
Nell’ultimo libro, Le quartine di Pierrot, troviamo una identificazione della maschera triste (ma già nella prima raccolta c’era una poesia intitolata “La maschera”) con quello che si trova ad essere il poeta nella società e troviamo un’identificazione poeta-clown triste-Pierrot-Brancaccio. «Mi alzai dal letto un giorno incerto / e decisi di divenire unicum / con la Arte che sgambettava furente / sottobraccio, furba, ancora zotica.»
A conclusione, abbiamo inserito alcuni recentissimi testi inediti, dove ancor piú si nota la ricerca non solo lessica-le/linguistica, ma anche tematica delle metafore (come in “Ballon d’essai”, “Simplegadi”, ecc.).
«Ma giú, dove la notte negli abissi / tormenta cuori tristi in bufera, / la balena stanca canta, mera / tragedia umana che un dí “io vi cantai”. // (Siamo pronti! / Dentro o fuori! / Sim-plegadi o la notte!)».
Come dire: gli scogli o il buio. Ma forse nel poeta è il no-vello Giasone che indicherà la rotta agli uomini/Argonauti. Per la conquista non del vello d’oro ma di una consapevolez-za etica.

Venafro, 4 novembre 2007
Amerigo Iannacone

  • Autore
  • AA.VV.
  • Titolo
  • Premio nazionale di poesia Il Presepe 2013
  • Collana
  • Premio nazionale di poesia Il Presepe
  • Pagine
  • 64
  • Anno
  • 2013
  • Prezzo
  • € 12,00


Pesche, dieci anni di poesia

Per alcuni la poesia potrebbe apparire come una pausa, un’oasi di serenità, in un mondo sempre piú concitato e in una società sempre piú ingiusta, dove i rapporti vanno sempre piú degradandosi. E forse è anche vero, ancor piú se la poesia ha per tema il presepe. Ma la poesia non è solo questo. Essa, anche quando non è poesia civile – un genere non facile – è sempre qualcosa che parla alla sensibilità dell’uomo, parla al cuore prima che all’orecchio.
La poesia, la piú umile, la piú dimessa di tutte le arti, ha una forza che sfida i secoli e che fa giungere fino a noi i testi scritti piú di due millenni e mezzo fa di Saffo e Alceo, o la poesia di duemila anni fa di Catullo e Orazio, per non citare tutti i poeti che attraverso i secoli hanno scritto una storia di civiltà, in contrapposizione alla storia fatta di guerre e di violenza.
La violenza non si combatte con la violenza, ma con l’amore. Per migliorare la società, bisogna migliorare l’uomo, parlare alla sua sensibilità.
Oggi, in una società che tende a diventare egoista, c’è bisogno piú che mai di poesia, perché «la poesia, – per citare Pascoli, di cui l’anno scorso ricorreva il centenario della morte – in quanto è poesia, la poesia senza aggettivi, ha una suprema utilità morale e sociale», perché fa riconoscere la bellezza anche in cose umili e vicine, placando “l’instancabile desiderio” e appagando un’ansia di felicità destinata altrimenti a restare vana.
Pesche, magico paese-presepe aggrappato alla montagna, da dieci anni dà il suo contributo, col Premio Nazionale di Poesia “Il Presepe”. Dieci anni non sono pochi per un premio letterario, se si pensa a tanti premi che nascono e muoiono in breve tempo. E questo, grazie in particolare all’operosità dei soci della Pro-Pesche e alla disponibilità dell’Amministrazione Comunale. In dieci edizioni sono arrivate a Pesche migliaia di poesie, di genere e di qualità varia, molte tra esse davvero valide. C’è di tutto: poesia lirica e poesia civile, poesia d’occasione e poesia intimista. Sono arrivati anche testi oleografici e talvolta un po’ retorici, ma c’è stata anche poesia davvero elevata.
E sono passati per Pesche poeti di tutte le regioni italiane. Un premio serve anche a questo. Certo serve a premiare e quindi incoraggiare i poeti, perché essi hanno bisogno di incoraggiamenti concreti, visto che i libri di poesia non si vendono. Ma serve anche a far circolare in Italia (e anche all’estero) il nome di un piccolo ma affascinante centro come Pesche e a farvi venire poeti che forse mai avevano sentito il nome del paese e mai altrimenti sarebbero venuti.
E molti dei poeti che passano per Pesche lasciano testimonianze concrete in versi dedicati al paese. Un omaggio al fascino del luogo che rimarrà nel tempo.

Amerigo Iannacone

  • Autore
  • AA.VV.
  • Titolo
  • Premio letterario Macchia d'Isernia 2013
  • Collana
  • Premio letterario Macchia d'Isernia
  • Pagine
  • 136
  • Anno
  • 2013
  • Prezzo
  • € 12,00

Sono lieto, siamo lieti, del ritorno, dopo qualche anno di sospensione dovuta a cause di forza maggiore, di un evento come il Premio Letterario “Macchia d’Isernia”, che, nato nel 2006, già nelle prime tre edizioni aveva riscosso molti apprezzamenti e un’ampia partecipazione di poeti e scrittori da varie regioni. Il Premio rinasce quest’anno, dopo l’edizione del 2008, con nuove figure e con nuovo entusiasmo, grazie in particolare al proficuo supporto dell’Associazione Maccla Saracena, oltre che all’impegno dell’insostituibile Elena Grande, che del Premio è stata l’ideatrice e l’organizzatrice.
Notevole è stata quest’anno la partecipazione, sia per la quantità sia per la qualità dei testi presentati. E a volte davvero spiace doversi limitare a tre premiati e ad alcuni segnalati e dover lasciar fuori opere valide e che magari in un’altra edizione avrebbero potuto aggiudicarsi un premio. Bisogna infatti dire che quasi tutti i racconti pervenuti si impongono per il loro valore letterario e anche per i temi che affrontano. Temi legati ora alla piú scottante attualità ora alla sensibilità dell’uomo, alla sua immutabile capacità di provare sentimenti e passioni.
Per quel che riguarda la sezione Poesia, troviamo stili diversi, forme e contenuti vari, ma quasi sempre di buon livello. Eccellente la resa poetica delle poesie premiate, ma anche di molte altre, tra quelle segnalate e anche tra quelle che non è stato possibile segnalare.
In questa quarta edizione del Premio “Macchia d’Isernia” c’è una sezione in piú, dedicata alla Fiaba e alla Favola. A questa sezione la partecipazione non è stata molto ampia, forse perché istituita quest’anno per la prima volta. E comunque validi sono i testi pervenuti.
La sezione D, riservata agli alunni di scuola elementare e media, si propone non tanto di scoprire giovani talenti (cosa che pure talvolta succede), ma piuttosto di avvicinare i bambini e i ragazzi ai valori della cultura e spingerli ad amare la poesia e la letteratura in genere, confidando anche, ovviamente, nella collaborazione degli insegnanti e, perché no?, dei genitori. Si vuole cioè sollecitare bambini e ragazzi in età evolutiva ad avvicinarsi alle opere degli scrittori e dei poeti, senza timori. Anche perché prendano consapevolezza che la bella lingua italiana, una delle piú belle al mondo, non è quella corrotta di Facebook e dei messaggini telefonici, e non è neanche solo quella dei chiacchieratori televisivi, ma è anzitutto quella della poesia e della narrativa.
Il primo intendimento di questo Premio Letterario, in tutte la sue sezioni, vuole essere quello di dare agli autori non solo un riconoscimento o una gratificazione, ma anche, soprattutto, un tangibile segno di incoraggiamento ad autori – agli scrittori e ancor piú ai poeti – che il piú delle volte vengono ignorati o sottovalutati in un mondo in cui diventano valori i disvalori e viceversa. Un mondo dove chi scrive, anche se crea opere eccellenti, trova difficoltà a conquistarsi un ruolo. Chi scrive, indipendentemente dalla qualità delle sue opere, quasi mai riesce a farsi strada in una società distratta e superficiale, del tutto disattenta ai valori della cultura. Quasi che la letteratura, la poesia, l’arte, fossero un mero passatempo, un hobby della domenica, e non presupposto di civiltà e di progresso civile e umano.
Inoltre, un Premio come il “Macchia d’Isernia”, pur coi modesti mezzi di cui dispone, ha anche una altro merito non certo irrilevante: porta il nome di un piccolo centro in tutte le regioni italiane e porta al paese poeti e scrittori, che forse mai ci sarebbero venuti, e che potranno lasciarne testimonianza nelle loro opere.

Amerigo Iannacone

  • Autore
  • Alberto Hernández
  • Titolo
  • Stravaganza
  • Collana
  • Stella Verde
  • Pagine
  • 120
  • Anno
  • 2012
  • Prezzo
  • € 12,00

Vibonati
                    a Vicente Gerbasi

Cade l’universo su Canoabo.
Il poeta modella l’argilla di un itinerario:
guarda verso il ponente degli Appennini dove Vibonati plasma il foglio della poesia.

Il pane e il vino risolvono la memoria di Giovanni Battista, l’immigrante.
L’Italia entra ed esce dal tropico febbrile.
Il bambino scopre i rumori delle ombre nelle rotaie di un treno italiano.

Fronteggia le bestie dei sogni nel viavai di qualche incubo.
Veniamo dalla notte e verso la notte andiamo.
Canoabo celebra le ossa del viaggiatore: una tomba dispersa nella polvere gialla di un vecchio cimitero.

Padre della mia solitudine.
E della mia poesia.

  • Autore
  • Carlos Vitale
  • Titolo
  • Fuori di casa
  • Collana
  • Stella Verde
  • Pagine
  • 96
  • Anno
  • 2012
  • Prezzo
  • € 8,00

Il libro di un poeta traduttore

Già nel 2004 Carlos Vitale pubblicò una silloge poetica col titolo preso in prestito da Montale, che nel 1969 aveva dato alle stampe Fuori di casa, raccolta dei suoi articoli di viaggio per il Corriere della Sera. Il volume attuale ha lo stesso titolo del testo precedente e, come esso, è diviso in due parti: Interni e Vedute sul mare, ma è molto piú ricco, poiché contiene le seguenti sezioni inedite: Terra purpurea, Cartoline di Mérida, Primavera estone, Ronda ciociara. Chi si limitasse a considerare la sola opera in versi di Vitale, potrebbe cadere nell’errore di ritenerla prestigiosa come qualità ma quantitativamente piuttosto esigua. In realtà le cose non stanno cosí, se si tiene conto dell’imponente lavoro di traduttore di poesia, soprattutto italiana, che egli sta compiendo con passione e instancabilmente da oltre un trentennio. E se si tiene conto, altresì, dell’importanza che egli giustamente annette a tale sua attività, in rapporto alla propria poesia. Il tradurre anche per lui, come per i maggiori poeti, italiani e non, del Novecento, «è momento non parallelo ma interno all’opera in versi» (Antonio Prete, All’ombra dell’altra lingua).
È una tappa necessaria per affrontare in concreto, confrontandosi con altre voci, i problemi dello stile, della lingua, del ritmo, del metro, della musica, del tono, di tutte le componenti della creatività poetica. Tradurre un poeta congeniale e autentico è per Vitale parte essenziale del suo scrivere. Dalle domande che sorgono dai testi originali il poeta traduttore Vitale risale alle ragioni essenziali della propria poetica (come ha visto acutamente Luisa Cotoner nell’eccellente prefazione a Unidad de lugar). Il tradurre è diventato per lui un mezzo ineguagliabile di conoscenza e di affinamento.
Vitale ha fatto pochi discorsi teorici sulla traduzione poetica, giusta il pensiero del Leopardi: «Parla molto della traduzione chi traduce men bene». Egli ha sempre preferito che il suo modo di intendere e di praticare la traduzione come atto eminentemente creativo, della «stessa intensità di un’esperienza d’amore» (Prete), apparisse concretamente realizzato nei testi tradotti, come dire in carne ed ossa. Cosí concepite, le sue traduzioni fanno parte a pieno titolo del suo corpus poetico, che allora ci appare tutt’altro che esiguo.
Per le sue traduzioni dall’italiano, occorre fare un’altra considerazione per apprezzarne la singolare qualità. Egli conosce perfettamente sia la lingua italiana, bevuta con latte materno, sia la lingua spagnola dell’ambiente argentino in cui è nato e ha fatto i suoi studi, e della stessa Spagna (Barcellona), dove si è stabilito e risiede dal 1981, conseguendo una seconda laurea. Traducendo, non si disloca in una lingua straniera per fare ritorno a quella materna; passa da una lingua materna a un’altra. Ogni testo da lui tradotto o creato in proprio si nutre del latte di due madri, nasce da uno scrittore con piú identità e si giova di questa condizione di privilegio. Un suo testo è una cassa di risonanza, una conchiglia che conserva e trasmette sentimenti, sapienze, linguaggi, culture diverse e affini, che ne fanno un insieme inimitabile.
Dante afferma in un passo del Convivio (trattato primo, capitolo settimo): «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza e armonia». Questa autorevolissima dichiarazione di intraducibilità della poesia, ripresa piú volte durante i secoli e giunta fino a noi, contiene una parte di verità, poiché ogni traduzione è una scommessa che si accetta quando si rompe l’armonioso “legame musaico” che un testo ha nella propria lingua, per ricomporlo in un’altra, e l’esito può essere incerto. Invece nel caso di Carlos e dei pochi poeti traduttori che si trovano a godere di due lingue materne perfettamente conosciute, come non vi è vera frattura tra una lingua e un’altra, cosí non vi è vero rischio di rompere tutta «la dolcezza e l’armonia» del testo che si trasmuta.
Il presente libro è posto ironicamente sotto un’epigrafe presa da un pensiero di Pascal: «La maggior parte dei mali agli uomini capitano per non starsene a casa». L’ironia, in questo caso l’autoironia, è costitutiva della personalità di Vitale, e non sorprende il paradosso di un volume di poesie occasionate dal suo molto viaggiare, il cui esergo sembra invitare il lettore a non seguire il suo esempio. Ma l’ironia di Vitale ha carattere socratico ed è anch’essa uno strumento di conoscenza. E poi il partire implica sempre in lui il ritorno: Andata e ritorno è significativamente il titolo della sezione che chiude la prima parte del volume.
E vediamo un po’ piú da vicino quali sono queste poetiche trasferte “fuori di casa”. Sono tutti luoghi che appartengono alla geografia del cuore di Carlos, hanno a che fare con esperienze insieme umane e culturali, intensamente vissute (anche se è facile cogliere qualche sfumatura nelle simpatie e nei sentimenti). Come la poesia di Montale, quella di Vitale parte sempre da un’occasione concreta. Nulla è inventato nell’indicazione di luoghi e oggetti, da cui erompe come acqua sorgiva la creazione poetica e, quando c’è, la riflessione morale o filosofica. Nel libro è cosí disegnata una mappa poetica, che dai Paesi del Mediterraneo si allarga all’America Latina, con felici deviazioni verso la Bretagna, l’Estonia, l’Armenia, amatissima perché di essa è originaria la consorte María. Malgrado la diversità di meridiani e paralleli, il libro ha una grande “unità di luogo” (per usare un altro titolo significativo dell’autore), assicurata sia da una comune qualità di Paesi dell’anima, sia dalla circolarità di questo viaggiare, che, a differenza del viaggio lineare che conduce verso il nulla, implica sempre il ritorno a casa. Non manca talora una punta di malinconia e di inquietudine («E se sono arrivato, / che farò di me?», Itaca), come se il viaggiare fosse non solo la metafora universale dell’esistenza, ma la ragione profonda e irrinunciabile della vita stessa. E in un suo verso ama rappresentarsi «seduto e in cammino» (Primavera estone, 5). Occorre sottolineare il legame profondo di questa “posizione” con la condizione spirituale dei maggiori poeti italiani cari a Vitale? Ricordiamo solo «E come portati via / si rimane» (Nostalgia) di Ungaretti, e l’«immoto andare, oh troppo noto / delirio, Arsenio, d’immobilità...» di Montale. Sí, la poesia di Vitale, poeta traduttore, è molto dotta e, pertanto, ricca di ben assimilate e dissimulate citazioni di altri poeti, i prediletti. Lo diciamo per ribadire il concetto che ogni vera poesia si nutre sempre di altra poesia, si inserisce armoniosamente in un coro di altre voci, che segnano il clima spirituale e culturale di un’epoca. La breve composizione «Sulla barca una luce. / Orizzonte rotto.» (Taccuino dell’Escala) ha il potere di evocare fulmineamente e di condensare un piú disteso e celebre passo montaliano («Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende / rara la luce della petroliera!», La casa dei doganieri). E potere di evocare i fantasmi del poeta ligure hanno i fantasmi di Piazza dei Miracoli e di Taccuino dell’Escala, 5.
Vitale condivide con i grandi poeti dell’Otto-Novecento il senso dell’ignoto, ma piú vivo è in lui il fascino del segreto e del mistero, ciò che lo distingue da Montale, piú ossessionato dal miracolo. «Scavare finché la roccia / ti consegni il suo segreto» sono i due versi di Geghard (Terra purpurea); essi potrebbero costituire il suo motto di traduttore e la vera sigla della sua poesia. Il mistero fa la sua comparsa in Refettorio di Casamari (Ronda ciociara): «La tavola apparecchiata, / olio e sale. / Saporito mistero». Qui è necessario sottolineare la pregnanza del significante, la forza evocatrice e la ricchezza simbolica della parola di Carlos, quasi sempre pronunciata con un tono delicato e leggero. Il sorriso e la levitas sono caratteristiche della sua indole e della sua poesia. Nel testo citato ogni parola necessiterebbe di un commento. Oltre ai simboli, taciuti ma sottesi alle parole “olio” e “sale”, si ponga attenzione anche al “saporito”, che allude alla letizia e alle semplici gioie, che rallegrano l’operosa vita dei religiosi. La parola “sale” ritorna, estendendo figurativamente il suo significato, in Belle-Île-En-Mer (Vedute sul mare): «Il sale scolpisce rocce / di significato».
Leggendo il libro, non si commetta l’errore di pensare a un poeta disimpegnato sul piano dei grandi temi, quali la libertà. Cosí non è, e a provarcelo splendidamente è una composizione come Forca d’Acero:
Cavalli bradi.
Ma il leader
del branco
porta un campanaccio.
Leader con campanaccio.
Libertà vigilata.
La levità del tono nulla toglie alla verità e alla serietà, un po’ amara e dolente, della riflessione. Ma già un brevissimo testo del 2004, come Armenia («Il mestiere / di sopravvivere.»), basta a dirla molto lunga sulla sua autentica sensibilità sociale e politica a chi ha orecchie per intendere.
Vitale sa cogliere come pochi l’universale nel particolare, sa trovare le parole-oggetto piú idonee ad esprimere una verità globale, antica, perenne, pescandole anche nel repertorio piú umile. Esempio calzante è la poesia Zufolo, in Ronda ciociara: «Nella valle / risuona / l’inno / di tutte / le bandiere».
Dagli esempi addotti si comprende come la poesia di Vitale non è né narrativa né discorsiva. È poesia di illuminazione (e ci sia risparmiato di indicare il già troppo chiaro riferimento). Affonda le radici nell’istante e nel quotidiano, ma evita sempre il rischio dell’ovvietà, della banalità, di un’inerte aneddotica.

Gallinaro, 21 settembre 2012
Gerardo Vacana

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • ...E poi il Fiume Giallo
  • Collana
  • I Colibrì
  • Pagine
  • 92
  • Anno
  • 2012
  • Prezzo
  • € 9,50

Il giornalista racconta i fatti. Un giornalista onesto e intelligente non li strumentalizza e gli dà misura. Un giornalista vero ci ragiona, medita alla luce del suo amore di giustizia, la quale trova il suo apice nella libertà. Amerigo Iannacone fa questo indefesso lavoro di leggere i fatti, elaborarli dentro l’anima e soffrirli, da una vita, per poi con semplicità e pacatezza, senza ira e senza disgusto o cipiglio da spadaccino, espone il frutto maturo asciutto e senza resa in brevi, inconfutabili e lievi, pur dal fondo drammatico, articoli quasi dimessi che finiscono con l’avere voce potente.
Passo dopo passo, voglio dire: Flugfolio dopo Flugfolio, affronta i segni di una decadenza di civiltà, mostrandone l’assurdità, l’inutilità, la poca convenienza, confermandoci la nostra impressione di un vortice di ineluttabilità insensata in cui siamo coinvolti. Egli, fra i pochi, oppone il suo remo, trovandoci consenzienti e volgendoci al desiderio di aiutare; e cosí, in noi, sorge una piccola speranza.
Questa controcorrente di speranza lambisce l’esperanto, la salvezza delle lingue dal dominio oppressivo delle potenze, l’assurdità dell’adeguarsi alla corruzione grammaticale della nostra lingua. Con estrema pazienza puntualizza le sgrammaticature televisive, giornalistiche e del parlare comune, ricordandoci le forme corrette e logiche, con ironia dolce e rispettosa. Segnala le assurdità della burocrazia e gioca un po’ su quei vezzi del progresso che tali non sono, riuscendo, da buon professore, a insegnare divertendoci. Delizioso quando fa capolino, per rendersi ridicola, la democrazia fra gli appunti grammaticali: “avrà vinto l’ignoranza, ma i linguisti sono pochi, gli ignoranti tanti”.
L’ignoranza, fa vedere, è sparsa dappertutto, istituzioni comprese. Espressioni, preposizioni, articoli, accenti, tutto egli porta al suo naturale stato, latinglese e itanglese compresi. E non disdegna di polemizzare da par suo, intendo dire senza acrimonia, quando è costretto a vedere l’italiano ridotto a zerbino dell’inglese anche per opera di gente colta. E non manca di dare sempre nuove ragioni alla necessità di adottare l’esperanto.
Ma, mentre fa questo suo lavoro da certosino raddrizzatore, ha certe stoccate buffe che ti fanno ridere senza ritegno, quand’anche fossimo “diversamente intelligenti”.

Giuseppe Campolo

  • Titolo
  • Pintar la luz - Dipingere la luce
  • Autore
  • Gustavo Vega Mansilla
  • Collana
  • Stella verde
  • Pagine
  • 120
  • Anno
  • 2012
  • Prezzo
  • € 10,00


La vita è inciampare fra sogni (fingendo a volte di non riuscire a svegliarsi), sapendo bene che sono sogni – poi ci si scuote, presi da nuove occasioni e sospinti ad altri lidi... Siamo vagabondi in cerca di rive amiche e ospitali, siamo naufraghi emersi alla veglia, siamo sognatori disillusi che si aggrappano alla luce appena intravista, per non cadere un'altra volta nel buio (dipingendo magari una finta luce sul proprio cammino, quando non riescono a forare la grigia coltre che li ancora alla banalità delle immagini del quotidiano).
È vero, a volte, están de sobra las palabras... e quelle che appesantiscono il dire vanno eliminate. La misura del verso è "misura di vita". Cadono hasta agotarse, le parole, come dentro una clessidra i granelli di sabbia, e segnano "istanti di cristallo": è una sospensione continua fra immagini mentali e realtà che viene fotografata e virata in camera oscura, prima di essere cristallizzata in una foto. Artefici di vere immagini, le parole, se riusciamo a leggerle come nostre.
La vita del poeta – sempre misurata – è un succedersi di parentesi, un rincorrere dentro e fuori momenti da gustare e testimoniare (schizofrenia del guardarsi allo specchio), per farne "sculture" verbali e lasciarle in esposizione – contro il tempo non c'è altra medicina che fissarlo nella memoria, appena vissuto (o sognato...) un istante, messo nell'album e così custodito, esorcizzando la stessa paura del tempo che passa, superando le incertezze di un approccio al domani, certi che il momento vissuto oggi (o sognato!) ci fa più forti (e pronti all'imprevisto).
È la nostalgia del futuro che vizia spesso la nostra esistenza pellegrina: saremo... chi? E stiamo lì a pensare senza risolvere, catturati da "momenti di lirismo delirante" che infine costituiscono una straordinaria "metafora di quello che siamo e quello che vorremmo essere"... Poiché non tutto è possibile dire, non tutto si dice.
Tradurre Gustavo Vega è una scommessa non facile da vincere – non sempre vinta. Ma è pure un gioco esaltante inseguirlo a scoprire nei versi la parola che ne apra il senso e riconduca alla chiave del testo – è un gioco che si può anche perdere: vale sempre la pena essersi messi in gioco! Seguendo le regole che l'autore fa finta di spargere sulla carta: è un gioco anche questo, poiché le regole sono fluttuanti, aleatorie, provvisorie e si scompongono "nel disarticolarsi del senso stesso del linguaggio attraverso la materializzazione della scrittura".
Anche dipingere la luce è una scommessa difficile - non sempre ci riesce il pittore, ma forse il poeta lo può: la parola può dire i colori e indicarne i rapporti e le tonalità, chiarirne perfino le più lievi sfumature. Certo, "la luce" non è quella che si vede, non è la luminosa essenza che fa giorno il giorno: la luce che "dipinge" il poeta è la sua mente, l'intelligenza che gli consente di leggere il mondo e il tempo che lo regola. La luce del poeta è la parola stessa che dice chi è il poeta.
Denudare il linguaggio (come fa – ormai da decenni – Gustavo Vega) e rappresentarlo nelle sue funzioni minimali non avviene per un semplice vezzo estetico, ma per esporre una riflessione sul sentire poetico e sulle stesse capacità umane di sentire il linguag gio come spazio di libertà, non delimitato dalla pagina in cui si presenta. D'altra parte, la poesia non è solo parola, non la parola in sé, ma il rapporto che essa stabilisce con altre parole, con immagini e suoni a cui si richiama o che lei pure stabilisce o suggerisce, perfino nella disposizione che il testo assume.
Un equilibrio sottile domina e regge i versi di Gustavo Vega, il suo giocare con le parole e con la loro presenza sulla carta, la sperimentazione continua di accostamenti e slittamenti verbali. È l'equilibrio che tiene in bilico le ombre e le illusioni di una vita ("sculture schizofreniche") in equilibrio fra il dicibile e il non detto, instabile precarietà dell'essere che cerca di affermare almeno il suo diritto ad essere chi è.

Giuseppe Napolitano

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • Pensieri della sera
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 60
  • Anno
  • 2012
  • Prezzo
  • € 9,50

Da un vissuto nativamente radicato nell’area molisana trae origine la volontà espressiva di Amerigo Iannacone e si configura in misure poetiche che, pur nella ancora naturale acerbità, danno spazio a presenti e future credibilità di slargate appropriazioni liriche.
Le varianti tematiche che motivano queste prime prove manifestano tratti di assorta lettura del paesaggio amato e una deserta riflessione esistenziale addolcita dal respiro domestico dell’amore. Su questa sostanza densa di vitale energia e di promesse Iannacone opera, proteso alla ricerca di un linguaggio, di una modulazione di ritmi propri, atti a cogliere e fissare il fuggevole flusso dell’esistenza. Certo è che assorbire il passato nella fenomenologia poetica in cui è stato realizzato almeno dai suoi maggiori rappresentanti, vivere il presente in nuove umane tensioni, liberare l’espressione dai ritmi divenuti patrimonio di tutti e l’occhio dalle immagini sfocate dall’uso, in lotta contro il convenzionale dell’esperienza vissuta e tramandata da altri per la conquista di una libera ed originale sensibilità, non sono imprese di poco respiro. Sarebbe, pertanto, ingiusto pretendere dai giovani alle prime prove, necessarie per futuri elevamenti di tono e approfondimento del sentire, una simile maturità di sensibilità e di voce; e sarebbe altrettanto ingiusto, se ignorassimo la loro presenza.
Amerigo Iannacone è uno di questi giovani che non devono essere ignorati: egli corrobora dentro di sé con accanimento le energie e i palpiti della crescita e man mano dà maggiore vigore all’urgenza di conoscersi e costruirsi mediante la parola poetica. Vogliamo asserire che se egli non ha raggiunto
le alte sfere dell’Arte e della Poesia è bene incamminato verso di loro. In questa sua produzione di esordio, Pensieri della sera, già si incontrano momenti che toccano e restano col flebile ricordo del commosso e dell’amore.
L’immagine della donna che riempie col suo magico respiro la vita dell’uomo che la ama, la soffice intimità di certe atmosfere colte e intensamente vissute in tesi silenzi di sere e di notti, i ritrovati colori di certe albe lungamente desiderate quando sul vivere quotidiano si addensano le nebbie della noia
e dell’angoscia, il tremolare pudico dell’aprile nelle pupille dei fiori e le soffuse mestizie
di novembre con i suoi toccanti sentimenti suscitati dai pensieri sul veloce svanire di ciò
che si è amato e si ama vivono in queste poesie già scorporati e resi nelle aeree distanze
fatte di realtà tramutata in sogno.
Iannacone, ormai uomo, sa rivivere le intense e incantate sensazioni della fanciullezza, giocata al fresco sorriso delle sue montagne e degli ulivi, tra i ciottoli delle mulattiere e le voci dei cari:
Ho respirato bambino
l’aria pura
delle tue montagne
ho giocato ragazzo
tra le tue vie sassose
quando per avere una moto
bastava una croce di sambuco.
Il sambuco, che con l’acuto profumo dei suoi fiori, ci riporta puntualmente la primavera, è divenuto motivo di creazione e simbolo d’innocenza; e le mulattiere con i suoi ciottoli arrotondati dai piedi degli animali e degli uomini, diventano l’immagine dolente di una civiltà al tramonto. Ma non sono intessute, queste poesie, soltanto di paesaggio e memoria; esse accolgono anche il motivo religioso, nato dal dolore e dalla speranza, e il piglio iroso della satira sociale:
Antipasto, primo misto
secondo prelibato
..............................
E intanto c’è chi muore
per un pugno di riso
che non ha.
La pioggia e novembre, richiamati in una varietà di visioni, si caricano di connotati rituali in un panico sentimento della sacralità e della morte:
Anche tu soffri di solitudine
novembre
e i tuoi giorni ti vedono
morire nella nebbia.
E vi sono versi che si appuntano con efficace misura contro l’invasione magmatica di ferro e cemento che dilagano irrefrenabili travolgendo con “grigia geometria” la bellezza e la vita sulla terra:
L’odore del cemento
fagocita il profumo delle zolle
.........................................
l’acciaio prende il posto della pietra l’amore cede all’odio.
Chiudendo questa breve ricognizione all’interno della silloge Pensieri della sera, crediamo di poter dire che la scrittura in versi di Amerigo Iannacone, sostanziata di personali memorie e di malinconiche esperienze di vita, palesa disposizioni e intenzionalità poetiche che otterranno piú visibili e migliori esiti man mano che la crescita culturale si renderà sempre piú indissolubile dalle strutture espressive.

Cerro al Volturno, 7 aprile 1980
Vincenzo Rossi

  • Titolo
  • E non è mai troppo lungo il giorno
  • Autore
  • Filippo De Angelis
  • Collana
  • L'albatro
  • Pagine
  • 96
  • Anno
  • 2011
  • Prezzo
  • € 12,00


Filippo De Angelis è senza dubbio tra le piú felici scoperte fatte dagli anni (oramai innumeri) che frequento – letterariamente parlando – la regione molisana, cosí fertile in termini di cultura, di storia e di arte.
E se è vero che il De Angelis non è molisano di nascita, lo è però di adozione. Sicché gli anni vissuti per ragioni di servizio nel Venafrano, gli sono bastati perché dall’ambiente assimilasse l’amore per la poesia, e – bisogna aggiungere – per il bel verso.
Cosí, dopo la prova – positiva – compiuta con la silloge in vernacolo reatino Peraforte de ’na ota e de mo’, dove si rivela appassionato cantore di trascorse civiltà paesane dell’entroterra laziale, il dinamico Colonnello delle Forze dell’Ordine, in pensione da qualche anno, del quale si apprezza una apertura mentale ad ampio raggio, torna a corteggiare il vocale Elicona, e stavolta affidando all’itala cetra il suo fecondo estro creativo.
Il titolo, che suona E non è mai troppo lungo il giorno, è già di per sé rivelatore di un modo d’essere di una personalità forte, di un temperamento inappagato, e segnala nell’autore un animo – vichianamente parlando – perturbato e commosso, che non conosce momenti di noia o di stanca, i cui sensori vitali ancora conservano una intatta capacità recettiva. Scrive infatti a chiusura della lirica che dà il titolo al testo: «… / vivo la vita che mi vive intorno, / che mi bisbiglia piano, sottovoce / e non è mai troppo lungo il giorno». Da tale bisogno di esserci, di continuare a partecipare alla gran festa della vita, si origina nel poeta un malinconico interrogativo, quando arriva a dubitare del ruolo di “livella” che Antonio de Curtis (l’universale Totò) riconosce alla morte nel ben noto carme in dialetto napoletano. E il dubbio nasce dall’empietà con cui la “falce” di Atropo non si fa scrupolo di stroncare vite di bambini appena approdate sulle “splendenti plaghe della luce” discriminando cosí tra creature piuttosto che livellando in termini di opportunità.
Tanta reattiva ipersensibilità del De Angelis è percepibile dal sovrabbondare – nella raccolta – di motivi poetici che, distribuiti secondo il variar quotidiano dell’umorale status interiore del poeta (In “Autoritratto”: «io scrivo di getto / pensieri improvvisi. / Son troppo diretto»), si formalizzano spaziando tra intimismo, sensualismo, paesaggismo e attenzione al sociale. Né mancano passi dove rimontano prepotenti le memorie; dove – in special modo in chiusura – si affronta in termini accorati ma virili l’inesorabilità del tempo che passa.
Le pagine – o almeno gli stralci – da citare per ciascuno dei motivi individuati a mo’ di esempio sarebbero innumerevoli, sicché me ne esimo lasciando al lettore il piacere di un approccio senza mediazioni. Ma una – delle pagine, dico – voglio proporla per la pregnanza significante che vi si condensa: «Il filare ormai rosso / annuncia un autunno precoce / mentre grappoli / cadono sapidi / nel cesto / un raccolto odoroso / un profumo fruttato / e le api la spola incessante / per l’arnia / ultimi contributi / alla regina / anche il mio autunno / già tende sul rosso / e l’ape regina / tra figure e le rime / raccoglie i frutti / maturati sul tardi / a te mia Regina / il pensiero commosso.»
Di forte impatto metaforico e di grande bellezza l’immagine di una vita feconda, che si trasfigura in vigna grondante di buon frutto in un «autunno» che «già tende sul rosso».
A tal punto del discorso l’obiettivo del prefatore deve puntare sull’assetto metrico. E l’assetto si presenta variegato nel senso che accanto a un visibile, per me gradevolissimo, recupero della tradizione, da cogliersi nel ritorno dell’endecasillabo, del novenario, del settenario etc., sistemati in un contesto ritmico e di rima non rimesso al caso, si evidenzia anche l’adozione di costrutti liberi, svincolati da prefissati modelli, con drastici tagli sulla punteggiatura e ricorso a soluzioni ellittiche che solo di rado tuttavia rasentano i limiti della impenetrabilità, quasi che il De Angelis intenda sfidare le poetiche dei modernissimi sul piano della essenzialità descrittiva.
Il volume, visto nella sua complessità, è testimonianza di una natura fervida, mossa da tensioni umane e culturali che periodicamente risalendo dagli anfratti dello spirito si riversano all’esterno facendosi parola. E l’amore per la parola è l’elemento, connotativo forse piú che ogni altro, dell’intera silloge, che viene oggi ad arricchire la già ricca collana poetica delle Edizioni Eva.

Aldo Cervo

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • Matrioska e altri racconti
  • Collana
  • I Colibrì
  • Pagine
  • 88
  • Anno
  • 2011
  • Prezzo
  • € 8,00

Prove d’esistenza per gli amici

«La ruota gira, sempre uguale, sempre uguale… E un giorno ci guardiamo allo specchio e ci meravigliamo di quella malinconica figura che ci sta davanti».
Sono due le espressioni che vengono subito in mente quando ci si prepara a leggere un breve scritto in prosa di Amerigo Iannacone: “microracconti” e “cronache reali e surreali”. E comunque ci si aspetta di leggere una densa storia breve che all’apparenza della certezza “reale” unisca un’aria “surreale”...
In effetti, la misura del racconto brevissimo gli è congeniale, certo abituale, come pure gli avviene di scrivere in poesia, spesso nelle rapide pennellate – o staffilate – dell’epigramma e dell’aforisma. E pure al confine incerto fra realtà e sogno (che a volte è un incubo) siamo abituati, noi amici delle sue parole scritte – noi che lo conosciamo da decenni e continuiamo a stupirci (ma non piú tanto) della sua fedeltà alla misura, alla oraziana ratio che diventa metodo di osservazione e descrizione della natura umana e dell’ambiente in cui questa si manifesta e cerca di perpetuarsi. Nel gioco logico dello spostamento dei piani espressivi, capita però, a volte, che quella misura vada persa, e ci si trovi spaesati, oltre la dimensione che conosciamo.
Amerigo ci accompagna nella sua narrativa come quando portava in giro una classe per musei e luoghi di grande interesse: guardate e ricordate... Ci sono luoghi nella vita (e lo sa bene, l’autore di Luoghi) che si mantengono nella memoria privata o appartengono a quella collettiva: tutti hanno qualcosa da ricordarci ed è giusto che ci si faccia attenzione. A volte, facendo attenzione, si può evitare di attraversare per la seconda volta un luogo inospitale, si può evitare di incontrare per la seconda volta qualcuno che ci ha fatto del male; anche se – si sa – guarire dal masochismo è difficile, e l’uomo è l’unico animale che inciampa due volte nella stessa pietra!
Vuol dire – Amerigo – abituatevi alla vita com’è, e non fatevi imbrogliare dalla vita come la vorreste: meglio non avere troppi grilli per la testa, poiché al risveglio si trasformano in cicale e quelle – si sa – cantano senza voglia di lavorare... La morale della favola in questi nuovi racconti di Amerigo Iannacone sembra essere la vecchia morale dell’ostrica, ma in piú si avverte una cresciuta amarezza che va oltre la stessa oraziana capacità di sopportazione: qui si coglie inevitabile e cattivo il passo del tempo che incalza, e nello specchio (quello fisico nel quale «ogni primavera rimanda un’immagine che ha una ruga in piú» e quello ideale in cui ciascuno vorrebbe almeno potersi guardare senza vergognarsi) si legge il costante rischio del degrado e del fallimento. “Il salice piangente”, la “voragine” sotto i piedi, la “macchia nera” che inghiotte... sono allusioni terribili, avvisi di cui tenere conto.
C’è tempo, certo, ma – si sa – chi ha tempo non lo perda; prendiamoci per mano allora, e andiamo insieme, insieme agli amici (che dobbiamo imparare a conservare), verso il minimo traguardo che la vita ci concede: un momento di serenità va gustato, un incontro, un piccolo successo... eppure, inguaribilmente – ed è questo il cruccio dell’autore di questi racconti, sospesi tra descrizione e premonizione –, pensiamo ad altro, ci perdiamo nel potrebbe essere e nel magari capitasse, «Mentre la nostra favola si avvia alla conclusione».

Giuseppe Napolitano