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A zonzo nel tempo che fu

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • A zonzo nel tempo che fu
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 112
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 16,00
  • Isbn
  • 978-88-96028-46-9

Lo struggente ricordo
di un mondo senza cose:
“A zonzo” assieme ad Amerigo Iannacone
“nel tempo che fu”

Amerigo Iannacone ha la sensazione che Leopardi, declamando il “natio borgo selvaggio”, si riferiva a Ceppagna. È la stessa che ho provato io per il mio paese natale, Carpinone. Condivido pienamente la scelta del primo capitolo di questa raccolta, intitolato e dedicato a Ceppagna. E come poteva essere altrimenti? Il vissuto dell’infanzia ci resta nel sangue per tutta la vita. E quando si ha il dono di una scrittura limpida e precisa come quella di Amerigo, accade che A zonzo nel tempo che fu si legge tutto d’un fiato. Pochi tratti, vergati con essenzialità, ci descrivono il carattere dei molisani… dall’ammiria fino alla demmiria.
Lo scrittore di Ceppagna, con stile lapidario, riesce a riportare in vita l’incanto perduto che noi, della generazione postbellica, ci portiamo dentro, abbarbicato ai gangli della nostra infanzia e della nostra adolescenza… come nel Pozzo, quando all’inizio descrive la casa in cui ha abitato fino a nove anni: «Non ci si chiedeva se era bella o brutta: era una casa e tanto bastava». Si vedono riapparire quelle pareti della cucina-centro della casa non spoglie… ma addobbate solo con oggetti essenziali. Ecco la differenza fra le case moderne e quelle della nostra infanzia, quelle della gente semplice come me ed Amerigo: oggi le nostre abitazioni sono grondanti di oggetti, d’una marea di cose inutili. Nel post-guerra, negli anni cinquanta, non mancava nulla di essenziale. L’acqua era scarsa? Allora doveva bastare. Quella del pozzo della famiglia Iannacone bastava tutto l’anno. Poi giunse l’acquedotto. Il pozzo venne distrutto. E pianse. Non era il pozzo a piangere… ma Amerigo che vedeva tramontare una stagione della vita, quell’infanzia che non sarebbe tornata mai piú.
L’essenza di questa carrellata di racconti-ricordi – spesso permeata dell’ironia che appartiene all’Amerigo uomo – sono le radici che diventano valori su cui poggiare una vita intera: e dalle radici salde e definite – che sono il fondamento dell’esistenza di noi molisani – forse è nata qualche nuova speranza. A zonzo nel tempo che fu non è semplice rimembranza, ma rilettura critica di quegli anni, di quel momento storico, in quella terra, il nostro Molise… una rilettura talvolta spietata che non risparmia nulla e nessuno, che getta luce anche sulle ombre della vita paesana, sull’ammiria generata dallo sguardo rivolto più ai fatti degli altri che ai propri.
Il mio vissuto è quello di Amerigo: la nostra infanzia-adolescenza è stata permeata di colori cosí intensi e nitidi, che gran parte della nostra produzione poetica-narrativa ne è stata finora influenzata (e penso continuerà ad esserlo sino alla fine di questa nostra piccola unica irripetibile vita). Mai affiora una sola briciola di malinconica nostalgia o indifferenza; talvolta si effonde lo stupore dinanzi ad un impulso selvaggio come quello di cucinare un gatto… dopo essersi cucito un bottone a lutto per la morte di un altro. Dalle pagine di Amerigo emerge la profonda energia della vita, un’energia custodita nell’asprezza della terra e delle condizioni storico-ambientali in cui erano vissuti i nostri tatoni, i nostri genitori… e in cui siamo nati noi. E gli anni della nostra infanzia sono stati duri, durissimi… ma felici, senza cose, ma a contatto con la natura. La forza armonizzante di questo lungo racconto è la forza dei nostri padri, uomini ancora vivi col loro esempio anche se cenere coi loro corpi: è la persistenza nel tempo del valore di dissodare la terra, di mondarla dalle pietre e dalla gramigna prima di seminarci il grano.
L’Amerigo narratore subisce l’influenza dell’Amerigo poeta: non spreca una sola parola, va dritto al dunque, essenziale, e riesce, in poche pagine, a sprigionare storie complete, intense, bellissime, che non concedono dispersioni retoriche e linguistiche. Pochi gli aggettivi, tipico dei grandi scrittori.
Aleggia, tra le righe, la forza di chi ha dentro la consapevolezza che magari un solo atomo del nostro corpo, una sola sinapsi del nostro cervello… provenga da loro, dai nostri progenitori, dalle antiche glorie dei Pentri – i piú coraggiosi dei Sanniti… quei nostri avi che preferirono essere trucidati, piuttosto che avere piú terre e dividere con Roma la conquista del mondo. Aleggia l’omaggio piú bello che Amerigo abbia fatto al Molise: la sua poesia Terra di silenzi, in cui dice che forse questa non è terra di fiori e nemmeno di frutti, ma solo di radici… che non possono essere recise.
Tutti amano la propria terra, anche quella piú inospitale, anche la piú avara di luce e di bellezza. La terra di Amerigo, la mia terra, il nostro Molise, forse possiede qualcosa di unico. Avevo provato tante volte a dare una spiegazione razionale all’attaccamento viscerale a questo nostro lembo di cuore, senza mai riuscirci. Qualche briciola di verità l’ho scovata in questi racconti, passeggiando nel groviglio di vicoli di Ceppagna, sulla collina brulla, incontrando le donne con la testa piegata sotto il peso del canestro di vimini colmo di roba da vendere (formaggio, ricotta, uova) per poter comprare qualche chilo di pasta o di riso, nel mandarino e nel pugno di fichi secchi che portava la befana, nelle mine della guerra inesplose raccolte per venderle al ferrovecchio… e che qualche volta facevano volare in aria – come a mazz’e piuze – brandelli di vita…
Aleggia, tra le righe, la vera partecipazione ai difetti e al dolore dei suoi paesani, una comunione che illumina queste pagine, il cui riverbero vola verso il lettore… filtrato dal cristallo della scrittura e diventando letteratura vera. Per raccontare un mondo durissimo ma semplice come il nostro Molise, quello di tanti anni fa, occorreva non solo la penna di un grande scrittore, ma soprattutto la sensibilità di un uomo dal cuore grande come quello di Amerigo.

Adriano Petta

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