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Le finte allegorie

  • Titolo
  • Le finte allegorie
  • Autore
  • Giorgio Barberi Squarotti
  • Collana
  • L'Albatro
  • Pagine
  • 120
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 15,00

Le disavventure della bellezza

...tre leggeri segni
che non vogliono dire nulla. E indica
come si può giocarci il proprio tempo
e ragione, e meglio ancora il nulla.

Ricordo che, da ragazzo, mi impressionò un quadro – non so più in quale libro lo avessi – dal titolo che mi parve stranamente inquietante: “Susanna e i vecchioni” (o qualcosa del genere). Mi chiedevo, riguardandolo, perché mai dovessero proprio i vecchi rimanere tanto abbagliati dalla nuda bellezza di quella figura femminile, la quale del resto pareva ritratta in una radiosa indifferenza. In quel tempo, peraltro, alla bellezza del corpo muliebre avevo dedicato una lirica, “Poesia della carne”, ispirata da un “nudo” del pittore Antonio Sicurezza: “corpo femmineo, immagine di Dio” – concludevo i miei versi, lontano, pur nella mia curiosa adolescenza, dall’associare tentazioni erotiche alla rappresentazione artistica (o almeno così volevo credere).
Questa premessa, volutamente privata, dovrebbe, a me in primis, chiarire il senso dell’operazione letteraria alla quale Giorgio Bàrberi Squarotti ha dedicato buona parte dei suoi ultimi anni (se crediamo alle date che segnano il succedersi continuo dei momenti creativi di questa silloge complessa). Una così lunga sequenza di immagini – ma immagini che si fanno storie – con protagonista costante il nudo femminile (parziale o integrale, offerto spesso alla violenza, anche sgradevole, ma comunque esaltato nelle sue forme, sia pure nei toni cangianti del dramma scherzoso), come dev’essere interpretata, senza cadere – ed è una sfida – nel compiaciuto rischio di un pruriginoso voyeurismo da buco della serratura?
Taccuino del vecchio cercatore? O dottrina di un estremo principiante... Volessimo parafrasare altre ben note esperienze di poeti abbastanza in là con gli anni. Ma, se è vero che la poesia non ha data di scadenza, è anche vero che non si va in pensione da poeta: finché c’è vita, si lavora – tutto qui. E il lavoro di un cercatore, per quanto vecchio, è – ancora! semplicemente – cercare (finché la continua pratica si fa gustoso esercizio dottrinario). Qui si produce in effetti l’esito sommo di una curata ricerca e se ne propone l’insieme in una scansione articolata e raffinata, e nemmeno costruita, poiché si ha la netta sensazione che le pagine (per quanto datate) abbiano avuto gestazione casuale e non preordinata – non subito, almeno – alla silloge da pubblicare.
È da credere piuttosto che si tratti di una ricorrente manifestazione della benvoluta e senz’altro opportuna-mente medicata ma ineluttabile malattia che è l’amore per la bellezza (o della bellezza), che nel nudo si sublima. E l’insistere sul tema non appare certo (dopo qualche iniziale perplessità) una gratuita dimostrazione di abilità descrittiva: l’autore di questa enciclopedica riflessione sulle disavventure della nudità ben conosce le sue riserve di stile – pressoché inesauribili.
Gli episodi narrati, a costruire la trama di questo libro ricco di sorprese incantevoli e incredibili sospensioni, sono frutto probabilmente di eccezionale capacità inventiva, ma è anche probabile che siano nati, in qualche misura, da sollecitazioni o suggestioni, suggerimenti o solleticazioni di origine concreta – può essere bastato, una volta, cogliere l’idea di una storia in un sorriso, un gesto, un atteggiamento, o un frammento di racconto, un aneddoto, ascoltato. È nota, a chi ben lo conosca attraverso i suoi libri di poesia, la predisposizione di Giorgio Bàrberi Squarotti a registrare (nei suoi viaggi o nelle soste in un caffè, camminando o chiacchierando con gli amici) qualunque stimolo provenga dall’esterno – e farne cosa sua che vive in lui e si fa poetica trasposizione o trasfigurazione. Le creature che vivono in queste pagine, e sono frutto – poliedrica fattura d’artista – di un misurato laboratorio dei sensi, hanno un’anima e un corpo, anche se è il corpo ad apparire, a sbattersi certe volte in prima persona, ma la fisicità è condizione dello spirito, è manifestazione di una interiore violenza che grida e chiede vita, nel farsi exemplum, nel dirsi in poesia.
Qui, di qui si dipana una trama incredibile e reale, onirica e materica insieme, di un presente incombente ingombrante “spoon river”: un viaggio di figure. Qui si coniuga infine l’esistenza di un mondo, il nostro mondo, come sospeso fuori del tempo, eppure nel tempo inca-stonato con le sue gemme, a splendere di piccole schegge che fanno il luminoso firmamento di una dolente (non sempre, poiché spesso è consapevolmente buffonesca) umanità: noi.

***

Già il titolo di questo libro sembra voglia mettere sull’avviso il lettore, magari quello meno smaliziato, il quale comprenda quanto ci sarà di gioco nel viaggio che sta per intraprendere: ci sono allegorie, ma sono finte, quindi è tutto reale? È così che deve intendersi, chissà. Ma dalle prime pagine si afferra il bandolo della matassa e sarà poi abbastanza facile scioglierla. Oddio, senza aspettarsi più di quello che c’è e si vede subito: la gioia di una tavola imbandita e ricca di ogni leccornia (e absit iniuria verbis, in questo caso è proprio il caso di sottolinearlo). Appena “le due cameriere, castana l’una, l’altra bionda, entrambe amabili e giustamente giovani, si siano spogliate nude” nell’osteria di Clusone, comincia la giostra e non la smette più di girare, fino alla fine del libro – un ritornello, un refrain, un rondò... insomma una ludica frenesia che trascina verso un finale subito atteso poiché giustamente immaginato (per parafrasare stavolta il gioco linguistico dell’autore). Ma prima di arrivarci converrà visitare stazioni di posta e sontuose abitazioni, siti archeologici e squallide dimore di mercanti... Senza dimenticare (altra subliminale dichiarazione d’intenti) che «questo istante è vero solo mentre tu lo scrivi»...
Inutile stare a segnalare episodi o figure particolari: hanno tutti, tutte, l’importanza che compete ad un campionario ideale, poiché tutti, tutte devono rispondere all’assunto centrale della composizione, alla volontà prima del compositore: l’unisono di un concerto nel quale ogni strumento, ogni voce ha pari dignità. Se proprio si volesse cercare lo slancio lirico più elevato, quando un po’ si distacchi dalla (voluta) voluttà descrittiva e sposi invece una più profonda linea di consapevolezza estetica, pur si potrebbero indicare alcune composizioni nelle quali più alta si leva la cifra espressiva e più esplicita si rende quindi la regola del gioco: si dichiara allora (come in “A Mondoví, veramente”) quando «si dissolvono le nubi / che decorano il culmine del sogno / dipinto», e lì, di lì, si può alzare lo sguardo verso «il rettangolo del cielo», quello puro e celeste in cui ogni immagine appare, riappare pura e scevra d’ogni malizia terrena, in un oltre che è quello della pura fantasia, la molla e la mamma dell’ispirazione, la culla del nostro sogno.

...perfetta nella forma della vera
arte, che non patisce il tempo, e ancora
eternamente nuda si mostrava
ilare, pura.

Giuseppe Napolitano
Sousse, 27-30 maggio 2016

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