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Frequentazioni letterarie 2

  • Titolo
  • Frequentazioni letterarie 2
  • Autore
  • Aldo Cervo
  • Collana
  • Il Cormorano
  • Pagine
  • 424
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 22,00

L’Olivo di Venafro

Quando gli amici Ida e Tobia, infaticabili propulsori di cultura di questo sempre piú fervoroso Molise, mi comunicarono di avermi motu proprio inserito tra i relatori nel convegno sull’Olivo venafrano, ne fui ben lieto per la portata – per cosí dire – estimativa che quell’inserimento recava implicita, e anche per il fatto che l’olivo ha svolto un ruolo importante, forse non meno degli stessi studi, nella formazione del mio carattere, del mio corredo creativo, della mia sensibilità.
Avevo sei anni quando in un locale adiacente alla mia casa, fatto costruire da mia madre cogli utili di modestissime proprietà terriere e tirando, al mercato del mercoledí, sui costi dell’ortofrutta coi fruttivendoli di Limatola e di Alife, fu istallato un frantoio. In quel frantoio (che dalla lettura del libro di Ferdinando Alterio ho finalmente imparato in che differisce dal trappeto) fui per poco meno di mezzo secolo a contatto con il fascinoso ultimo scampolo di civiltà contadina, che di lí a poco sarebbe stata travolta dall’irruzione, anche nelle nostre campagne, della modernità.
Di quella civiltà contadina, non tanto l’empirica saggezza, ma la proverbiale arguzia, l’impertinente ma schietta mordacità lessicale divennero per sempre parte integrante dalla mia formazione umana e culturale.
Venendo al tema, credo che con L’Olivo di Venafro la Volturnia Edizioni segni un’altra delle prestigiose tappe, che da alcuni anni va conseguendo nel campo dell’editoria.
Il volume, che è presentato da Emilio Pesino, presidente del Parco Regionale Storico Agricolo dell’Olivo di Venafro, e reca la prefazione di Franco Valente, tra i piú attrezzati e combattivi studiosi del Territorio, è introdotto dallo stesso autore con una pagina sulla “nobiltà” dell’albero dell’ulivo, sacro alla dea Atena, ma assunto dalla nostra religione a simbolo di pace, in gara – aggiungo – con l’alloro, la fronda peneia, alla cui prosopopea vanagloriosa contrappone il candore di una disarmante umiltà.
Dopo un excursus storico-letterario sull’Olivo nei Paesi del Mediterraneo, il volume passa a cogliere le svariate correlazioni che l’Olivo ha avuto con la mitologia, per andarlo poi a ritrovare nei Poemi omerici e, a seguire, nella produzione letteraria latina.
Trattato poi il tema delle proprietà cosmetiche e curative dell’un-zione con l’olio d’oliva, il testo procede con la descrizione dei vari tipi di olio in Roma antica; poi punta – ma per solo un paio di capitoli – l’obiettivo su Venafro, con l’indagine su quelle che furono un tempo le qualità dell’olio venafrano e il reperimento di citazioni dell’olio medesimo in scrittori latini.
Qui, non ancora soddisfatto dell’ampio percorso compiuto, ed anche per un atto di deferenza verso il Signore Iddio, l’autore, col puntiglio del ricercatore che lo contraddistingue, se ne va a indagare l’Olivo, e l’olio nelle connessioni metaforiche e allegoriche con le Sacre Scritture. Intendo Vecchio e Nuovo Testamento.
Viene poi, nel testo, la volta dei sistemi di lavorazione e di spremitura delle olive, a partire da trascorse epoche, e si descrivono i vari tipi di macine e di presse, iniziando da quelle con vite in legno. Seguono pagine dedicate al paesaggio olivicolo di Venafro nelle descrizioni di viaggiatori d’ogni tempo, dove si riferisce anche della leggenda di San Francesco d’Assisi che, di passaggio per Venafro in una notte di neve, si sarebbe riparato sotto a un ulivo miracolosamente risparmiato dalla bufera.
A seguire, dopo un cenno a Cultori e Studiosi dell’olio, si parla dell’olivo cosiddetto “gaetano”, che fiorirebbe e darebbe frutto due volte l’anno, presente nel non lontano agro di Ciorlano. E si parla anche del discusso “ulivo maschio”, sulla cui esistenza non s’è tutti d’accordo.
Il lavoro dell’Alterio si avvia infine a conclusione con pagine di confronto tra olivo di Venafro e olivo della Provenza, e pagine rievocative di Giovanni Presta, medico pugliese del Salento, vissuto tra il 1720 e il 1797, studioso di olivicoltura, e di Niccola Pilla, che per primo stilò una classifica delle varietà delle olive di Venafro.
Ultimo capitolo è quello riservato agli scrittori locali che si occu-parono dell’olivo e dell’olio, dove s’impone per potenza suggestiva la visione descritta da Benedetto e Giovanni Antonio Monachetti di una Venafro simile a un uccello (io avrei detto aquila) di cui gli oliveti che risalgono le pendici dell’incombente montagna sono le aperte ali.
Qui la prosa, già ben supportata finora da immagini, cede il passo alla documentazione fotografica. Si inizia con ulivi ripresi nella vetustà sacrale dei poderosi tronchi, taluni dei quali rassomigliabili – nelle contorte, sofferenti innervature – al gruppo del Laocoonte, o piú semplicemente al busto ossuto e muscoloso del vecchio contadino forgiato dalla fatica.

Favole di contorsioni,
di dolore silente, di atavica nobiltà,
tronchi di nodi secolari
tra le pietre antiche del Sannio
...

ha scritto, nel suo tipico stile tirato e sofferto, Ida Di Ianni sulla prima delle arboree rappresentazioni.
Seguono poi immagini di centri abitati sommersi nell’abbraccio verde argenteo di rigogliosi uliveti; poi ancora di utensili per la raccolta, la defoliazione, la macinazione e la spremitura delle olive, e la conservazione dell’olio.
Infine alcune misure dell’olio.
Sulla macinazione e la spremitura delle olive, e sulle misure adoperate per il computo sia della quantità delle olive da molire che dell’olio ricavato in quella che fu nelle campagne del Sud l’ultima stagione preindustriale: dico gli anni ’50, voglio intrattenermi un po’. Ma non sforerò il tetto dei cinque o sei minuti.
Io che sono di Caiazzo, paese legato a Venafro e al Molise in generale dal cordone ombelicale del Volturno, provengo da una zona dove l’olio d’oliva fu voce importante dell’economia, prima che la proterva ignoranza di Bruxelles intervenisse a imporre paletti e divieti, e ci venisse a spiegare che le acque reflue dei frantoi inquinavano i torrenti e il letame bovino andava non piú ammucchiato all’aperto ma serbato possibilmente in salotto prima di essere sparso e di subito ricoperto dall’aratro nei terreni da seminare. In quell’epoca di oscurantismo preindustriale, che non conobbe il progresso dei pesticidi e dei fertilizzanti chimici, nel paese mio le mole dei frantoi, a una o a due ruote in pietra viva, erano trainate da muli e cavalli bendati, e la pasta delle olive veniva poi sparsa in tante store circolari, che poste l’una sull’altra formavano l’insaccatura, sulla quale era fatto scendere con sapiente lentezza il piatto della pressa, spinto in basso da una poderosa vite di acciaio. Dopo la spremitura a freddo, si passava alla “caura”.
Le ulive erano misurate in ceste (ma le ceste non erano tutte eguali) o in coppe, un arnese di legno simile a un settore di cono, di cui erano provvisti i frantoi. L’olio invece aveva piú di una misura: si partiva proprio dalla “misura”, un contenitore da sei coppe, pari a quattro litri, per scendere poi alla “coppa”, pari a due terzi di litro, alla mezza coppa, pari a un terzo di litro, e al misurino (u’ mmusurielle), pari a un nono di litro. Il rapporto tra quantità di olive molite e olio ricavato dava luogo alla resa, e chi realizzava una “misura” (quattro litri) a cesta, si diceva che aveva fatto una buona resa.
Poi c’era il decalitro, che a Caiazzo chiamavamo “’u monaco”, perché raccoglieva, a mo’ di questuante, l’olio di paga trattenuto dal frantoio, pari a sei coppe per ogni trentasei che andavano al proprietario delle olive.
Oggi tutto questo complesso meccanismo di misurazioni, giustificato all’epoca dell’istituto della mezzadria, che imponeva millimetriche operazioni di spartenze tra padrone e mezzadro, è stato soppiantato dalla bascula elettronica, che pesa, e in tempo reale ti dà peso e scontrino fiscale con l’importo da pagare in euro.
Ma le moliture non possono piú rispettare le singole partite, sic-ché spesso ti porti a casa olio di olive non tue, e col tuo che finisce altrove. Vado a chiudere.
Il lavoro di Ferdinando Alterio, sintetizzare il quale è come voler fare il riassunto, in un quarto d’ora, della Divina Commedia, è dunque un percorso tematico che si origina da quelle che nelle nostre scuole si chiamano (o si chiamavano?) Unità didattiche. E l’Unità didattica è in questo caso l’Olivo.
Un’opera poderosa, quella dell’Alterio, la cui sterminata biblio-grafia fa fede del rigore scientifico e della cultura a largo spettro dell’autore, che batte tutti i sentieri culturali possibili e immaginabili: intendo dire la letteratura, la mitologia, la filosofia, le religioni, le scienze, la storia, visti i nomi che vi ricorrono, da Omero a d’An-nunzio, da Pallade a Pasifae, da Platone a Nietzsche, da Osiride a Mosè, da Plinio il Vecchio a Columella, dal cartaginese Annibale a Ferdinando IV di Borbone. Un’opera di profonda dottrina, da raccomandare alla lettura e alla fruizione del pubblico, a partire dalle scuole, dove potrebbe essere occasione magnifica di uno studio interdisciplinare avente a obiettivo la presa di coscienza delle peculiarità culturali e produttive del territorio venafrano, e possiamo ben dire dell’in-tero nostro Sud.

27 gennaio 2012, Venafro, Castello Pandone. Correlatori: Emilio Pesino, presidente Parco regionale dell’Olivo e Franco Valente, Conservatore Beni Culturali del Comune di Venafro.

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