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Antonio Piromalli è stato una delle piú autorevoli personalità nel panorama del Novecento. Docente universitario, critico, scrittore, giornalista e poeta, ha intessuto una trama di rapporti nel Paese ed all’Estero lasciando un cospicuo numero di pubblicazioni ed un archivio dichiarato particolarmente importante «per la storia letteraria, politica e culturale in Italia». Oltre agli studi di carattere nazionale è stato fautore della letteratura regionalistica cui ha dato notevole rilievo.

Piromalli e la Sicilia è dedicato espressamente, fin dal concepimento del suo progetto, a Lanfranco Piromalli, ma, per le circostanze in cui oggi vede la luce, lo è anche, e idealmente, a Maria onterosso, nel decennale della morte (educatrice, insegnante alla Scuola Elementare “Mario Rapisardi” di Canigattì).

Merito di Antonio Piromalli – pretesto e “volontario”, intrigante complice – è stato quello di aver messo in atto nell’autore un interesse che giaceva in uno stadio potenziale, covato da predilezione, affetto mai celati per la Sicilia tutta, tanto che questi ha già in preparazione inoltrata un altro lavoro su luoghi e intellettuali della “grande” Isola.

C’è in questa nuova bella silloge di Rita Iulianis il canto, che si dispiega e dilata nella cornice del paesaggio, una sorprendente densa carica di pan naturalismo, che s’impiglia, si ispessisce e si esalta, insieme, in un panerotismo assunto come alfa ed omega dell’esistenza, anima e motore di sentimenti, stati d’animo, sensazioni, musica ad esplorazione di cuore e corpo, nella pienezza dell’essere che si sfaccetta nella prismaticità della conoscenza.
Il tutto in una orgogliosa (ri)affermazione della libertà (vale la pena ripeterlo), che è, insieme, fonte di vita e di poesia.
«E ti sei fatto volo / a ossigeno della mia asfissia / a nutrimento della mia follia… / e volo e dono sei / per l’anima a scrigno / severo di Libertà».

Giuseppe Liuccio

Poemetto di 28 brevi testi, con traduzione in greco di Keti Maraka.
L’autore, Renzo Cremona, è nato a Chioggia (VE) nel 1971. Ha studiato lingua e letteratura cinese, portoghese e neogreca presso l’Università di Venezia e svolge attività di consulente linguistico. Ha al suo attivo traduzioni dal cinese mandarino, dal mancese classico, dall’afrikaans, dal portoghese e dal neogreco.
Tra le sue opere: Foreste Sensoriali (1993), Lettere dal Mattatoio (2002, Premio Speciale della Giuria alla XI Ed. del Premio Internazionale Nuove Lettere, NA; 1° alla XXI Ed. del Premio Campagnola, PD; 2° alla V Ed. del Premio Emma Piantanida, MI), La Pergamena delle Mutazioni (2002, 1° alla III Ed. del Premio Anna Osti, Costa di Rovigo, RO; 3° al VI Concorso Guido Gozzano in Terzo, AL), Cronache dal centro della notte (2004, 1° all’VIII Ed. del Premio Mondolibro, Roma; 2° alla XXII Ed. del Premio Città Cava de’ Tirreni, SA), Tutti senza nome (2006, Premio della Giuria al Concorso Internazionale Città di Salò 2007, BS).

Sito dell'autore www.renzocremona.it

Viviamo in un’epoca in cui l’arrivismo, l’egoismo, l’edonismo ad ogni costo, la scalata sociale, l’esibizionismo, il benessere materiale, la vanità, l’ostentazione, vengono ai primi posti nelle scelte di vita. Mentre vengono trascurati – se non derisi – i buoni sentimenti, la solidarietà sociale, l’altruismo, il rispetto dell’altro e il rispetto delle regole. Ci troviamo a vivere, nostro malgrado, in una società che non ci piace, a dispetto delle convinzioni Leibniz che sosteneva che quello in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili.
In particolare negli ultimi venti-trent’anni, mentre la tecnologia conosceva un progresso inimmaginabile, nei rapporti umani, nelle relazioni tra uomo e uomo, nell’educazione, nel rispetto dell’altro e delle regole si verificava un regresso. In una parola, c’è stato negli ultimi decenni un progressivo degrado morale e sociale.
Ogni giorno i telegiornali ci portano in casa notizie raccapriccianti (e – anche questo è cosa grave – ci siamo assuefatti e non proviamo piú l’indignazione che dovremmo provare) di figli che ammazzano i genitori, di mamme che buttano i neonati nella spazzatura, di alunni che picchiano i professori, di violenze sui bambini.
La televisione è diventata una scuola di violenza e di cattivo gusto, ma anche se guardiamo le copertine dei rotocalchi esposti nelle edicole, anche di quelli piú seri, possiamo vedere immagini e leggere titoli sempre relativi a inutili personaggi dello spettacolo o a come scolpire il proprio corpo, dove andare in vacanza, come comprare, dove spendere. Ci danno esempi su come avere successo, come arrivare, come avere “visibilità”, eccetera. Mai troviamo qualcosa che va al di là degli interessi strettamente materiali. E gli esempi che ci vengono dati dall’alto, non sono mai edificanti. Non ricordo chi disse che solo i cretini non cambiano mai idea. E forse sarebbe anche giusto se non fosse che questo è diventato un alibi per coloro che usano saltare di qua e di là nelle varie formazioni politiche, a seconda di come tira il vento degli interessi. Un politico delle mie parti arrivava a vantarsi, come si trattasse di un esempio encomiabile, di aver attraversato tutti i partiti dall’estrema destra all’estrema sinistra. Certo, è legittimo cambiare idea, ma – guarda caso – si cambia sempre idea a seconda del proprio interesse e la nuova idea è sempre quella che si trova dalla parte del potere. Dove si mangia, dove ci si ingrassa, dove si arraffa, là vanno le idee.
In questo testo, Giacomo Pontillo, ci parla di questo fenomeno di involuzione sociale e morale che si è verificato in Italia nella seconda metà del Novecento e in particolare negli ultimi due-tre decenni, ne analizza le cause, e si chiede quale sia la via d’uscita. E la via d’uscita non può che essere quella «di riesumare una morigeratezza smarrita, per continuare a vivere almeno con maggiore serenità, limitando le palesi discrasie comportamentali che racchiudono in sé le insidie di un’emancipazione forzata». E mi pare che non si possa che essere d’accordo, anche se – certo – è dura e, prevedibilmente, i tempi non sono brevi. Ma perché questo possa accadere o, almeno, perché si possa sperare in un’inversione di tendenza (e dovrebbe essere un’inversione a U), è necessario prenderne coscienza e, soprattutto, farne prendere coscienza alle nuove generazioni, che in questo tipo di società stanno crescendo. In questa direzione va il libro di Giacomo Pontillo. Ed è per questo che va letto e va fatto leggere.

Dalla Prefazione di Amerigo Iannacone

Uno psicologo vero studia. Lo fa perché il settore di cui si occupa è variegato e complesso, costretto tra i principi e i cambiamenti di scienze diversissime tra loro come la biologia e gli studi antropologici, la chimica e la sociologia, la medicina e il pensiero filosofico. E studia per poter fare: la psicologia è comprendere per potere intervenire e per poter esistere, e non c’è una scienza psicologica che possa prescindere da chi la usa.
Gianni Tadolini è psicologo vero e come tale studia gli aspetti che le varie epoche che stiamo attraversando e i cambiamenti che esse portano nelle conoscenze mediche, biologiche, filosofiche e delle scienze umane, ci propongono via via. Li studia per capirli, li studia per trasmetterli ai tanti allievi che lo accompagnano nel suo cammino di ricerca e di pratica operativa. Studia anche le molecole, i recettori, i protocolli sperimentali, e in questo testo ce li propone con la semplicità che sempre accompagna chi sa che la ricerca è un processo dinamico che mai può offrire certezze senza aprire dubbi in egual quantità. E con l’umile pazienza di chi sa bene che proporre un risultato o un dubbio è prima di tutto aprirsi alle domande che un lettore, prima o poi, verrà a porci.
Perché uno psicologo vero ascolta. Ascolta gli anni che attraversa durante la sua vita e i maestri che incontra, facendosene figlio, come Gianni con Basaglia e Minguzzi. E ascolta soprattutto i suoi pazienti, attento a non cadere nei tranelli delle mode e delle finte certezze. Gianni Tadolini è psicologo vero e come tale ascolta, col desiderio di apprendere dell’assetato che si china alla fonte. E tutti noi, giovani o ormai vecchietti, invece di consegnarci alla vis sindromica dei DSM, ascoltando soltanto ciò che rientra nei piccoli stereotipati schemi con cui le statistiche ci misurano nell’illusione eterna di una sicurezza scientifica che in psicologia mai c’è stata e mai ci sarà, dovremmo trarne il messaggio che anche questo, come ogni suo scritto, ci manda: di stare a orecchie aperte.
Cosí, mentre studia ed ascolta, uno psicologo vero rielabora e critica. Perché il nostro è un mestiere che mai prescinde dal passato e dal dubbio sul presente e che, anche quando delle illusioni coglie la verità interiore ed intima, mai le trasforma in dettato scientifico o in norma di esistenza. E Gianni, che è psicologo vero, critica eccome, anche quando si ritrova come qui a parlare di farmaci in un’epoca nella quale l’illusione dell’onnipotenza delle molecole accompagna da vicino l’operare degli psicologi e degli psichiatri. Quella illusione che non è contemporanea, ma anzi vecchia, vecchissima, perché è quella dell’eterna giovinezza, modificatasi solo per questa chimica contrapposizione a Lorenzo de’ Medici che oggi ci urla, da ogni dove, «del doman vi sia certezza!». Un’illusione su cui spingono la moda e l’industria commerciale, come Gianni fa emergere con acuta attenzione, e a cui collabora la medicina, non quella che studia ascolta e critica, ma quella di moderni cerusici per nulla dissimili dai loro antenati professionisti di salassi e di latinorum: chirurgie di ogni tipo, allungamenti d’ossa e di scheletri, trapianti, reimpianti… e pillole, pillole della felicità. Come se l’anima ormai potesse essere definita sulla base della sua capacità di rispondere ad una sostanza chimica piuttosto che sforzarsi di capirne i contorni e i contenuti. C’è sempre di piú l’impressione che i farmaci antidepressivi siano considerati tali se funzionano nelle situazioni di ansia e di depressione, la quale peraltro è definita come un insieme variegato di realtà che hanno in comune la risposta positiva ai farmaci antidepressivi. Come se si dicesse che gli analgesici sono farmaci in grado di cancellare il dolore, il quale, peraltro, è definito come l’insieme delle situazioni che scompaiono con gli analgesici… È per questo che oggi piú che mai uno psicologo vero deve studiare e ascoltare per poter criticare. E questo breve manuale, come ogni libro di Gianni Tadolini, ne è un esempio costante in ogni pagina e in ogni pensiero.
Perché, infine, uno psicologo vero scrive. Egli è soprattutto un descrittore, e come tale deve sapere esprimere e non soltanto capire quello che vede e che ascolta, deve raccogliere ogni storia e scriverla a due mani col paziente. Ogni filo narrativo, ognuna delle trame dei racconti che lo psicologo crea, lo aiuta a riprodurre e a rendere cosí meno doloroso il senso di una vita interiore ferita e ignota. Per questo Gianni, che è psicologo vero, scrive. Sia quando ci racconta delle potenti suggestioni delle religioni di cui tanto ha studiato, sia quando, come qui, trasmette ai suoi studenti le certezze e i dubbi di una farmacologia che seppure ci domini dall’alto dei suoi immensi poteri operativi deve comunque rimanere “minima”, e come tale criticabile.
Perché nell’epoca in cui la comunicazione rapida, immediata, trionfa e vince, la moda non può essere che quella di cortocircuitare ogni problema. E se si può guarire da una depressione con una semplice pillola, perché mai non si dovrebbe far altrettanto con i batticuore e con i sentimenti, appena provino a diventar fastidiosi? Ed ecco allora le pillole del sesso, quelle della felicità e quelle contro la timidezza: perché è una grande liberazione poter pensare di delegare a una compressa, a qualcosa di esterno e di semplice, la risoluzione dei problemi piú spinosi della nostra vita.
«Stiamo tornando indietro?», si chiede Gianni concludendo il suo libro. Credo di no, vorrei dirgli, perché il tentativo dell’uomo di trasformare in scelte culturalmente ineccepibili le sue sconfitte rispetto a se stesso, alla sua infanzia, alla sua vecchiaia, alla sua vita, ci sono sempre stati e sempre ci saranno. E perché uno psicologo vero ha da sempre il destino di doversi legare ai momenti culturali, sociali e storici in cui vive e lavora. Stiamo semplicemente continuando il viaggio; e se sarà in avanti e non indietro dipenderà dalla nostra tenacia nel continuare a studiare, ad ascoltare, a criticare e a scrivere.

Dalla prefazione di Marco Mazzoli

  • Titolo
  • La passeggiata
  • Autore
  • Antonio Vanni
  • Collana
  • Perseidi
  • Anno
  • 2007
  • Pagine
  • 68
  • Prezzo
  • € 8,00

È una prosa quella presentata da Antonio Vanni nei brevi racconti della raccolta La Passeggiata, lieve, levigata con intermezzi poetici che rivelano un animo estremamente sensibile che, nel suo insieme, lascia intravedere un temperamento ansioso.
Non sono eventi tipici del racconto realistico ma un pretesto per un “viaggio” dentro di sé, alla ricerca, tramite l’immaginazione e l’affabulazione oniriche, di una condizione “originaria”, quasi, detta à la Husserl, precategoriale, prima, cioè, in poche parole, delle forme logico-intellettuali dell’Intelletto inteso come “insieme” di forme scientifiche.
Lo sappiamo che i filosofi del Sei/Settecento (da Hobbes a Rousseau) cercavano quell’immaginifico “stato di Natura” quale postulato, o astrazione pura o convenzione ancora, per le loro teorie sullo Stato, sulla Libertà dell’Individuo e sulla Sua Natura, pur non credendo affatto che esso fosse buono o cattivo “per natura”, per condizione dell’essere esistenziale. Solo postulati, quindi, per rendere o giustificare le varie teorie politiche che andavano delineando intorno alla società umana e alle sue istituzioni. Colgo l’occasione qui, per rivalutare la teoria hobbesiana, anche se Hobbes dai piú non è molto amato, teoria tralasciata anche e poco studiata, che anticipa e di molti secoli una profonda analisi esistenziale ma, come detto, non è il luogo questo per parlarne in modo adeguato.
Se per i filosofi succitati «l’originarietà» era pura astrazione, repetita juvant, in Vanni la sua ricerca sembra acquisire un senso forte, reale, veramente esistente o esistita. E tutto sembra, in questi racconti brevi, romanticamente o con sensibilità romantica, meglio ancora, ruotare attorno a tale presupposto.
Diventa il “narrare” di Vanni quindi una mitizzazione di uno stato buono e puro, innocente dell’uomo onde la chiave per com-prendere tali racconti nella sua pienezza.
L’atmosfera dominante è quella della rêverie, del sogno ad occhi aperti quasi per recuperare una dimensione piú umana del vivere, dell’«ek-sistere» tanto duro quanto alienante che caratterizza l’uomo d’oggi, espropriato di sé, alienato dei suoi valori fondanti che non sono quelli propinatici da un turbo-capitalismo “hi-technologico”. Questo sorpassa, cela le esigenze sentite dell’uomo, lo disumanizza tramite falsi bisogni e propinandogli false mete: lo aliena o cerca di farlo e sembra che in tale operazione ci riesca e anche troppo bene, purtroppo.
Donde il bisogno di sognare, di recuperare la dimensione dell’Umanità in quanto tale che avvertiamo nell’opera breve dell’Autore molisano anche se sovente, nonostante lo spirito “catartico”, mi pare, pecchi di una certa ingenuità (ma ogni poeta è ingenuo). Comunque tot capita, tot sententiae, e poi non è detto che un’opera raggiunga la perfezione – e ci tengo a riaffermarlo – che una critica non è per nulla un’esegesi. Proprio perché si tratta di una critica, di un giudizio, letteralmente, etimologicamente, questo mio breve appunto non vuole né tende a tessere elogi ma piú modestamente ed onestamente a capire ciò che l’Autore ha creduto o crede di dire, di esprimere. È al lettore che spetta l’ultima parola. Il critico ha il compito, lui pertinente, di indirizzarlo su linee direttrici. Non può far altro, pena l’esproprio del pensiero dell’autore e proporre la sua visione in modo violento, anche se raffinatamente celato, all’eventuale lettore. Tale operazione sinceramente è contraria ai miei principî deontologici.

Enrico Marco Cipollini

Nomen omen: sarebbe troppo facile trarre auspici favorevoli, in questo caso, da un nome emblematico qual è quello del poeta che inaugura la collana “giovane” delle Edizioni EVA… ma i “fermenti” positivi ci sono, in questo esiguo (e non esile) mannello di testi che compongono Scrutando l’orizzonte; ci sono e permettono di salutare l’opera prima di Michele Fascino appunto come “prima” – con l’augurio cioè che ce ne siano altre, dopo. Non sempre vale la pena: ci sono autori più o meno giovani che mettono insieme una raccolta di riflessioni o confessioni più o meno liriche e ne fanno un libro, e lo pubblicano. Nulla di male, se non volessero essere considerati poeti all’inizio di carriera, e non soltanto autori di quel libro. E ci sono quelli che azzeccano un primo libro quasi per caso, o dono di natura, e poi non sanno andare avanti per non avere voglia o desiderio di lavorare e crescere…
Michele Fascino prova – come dichiara – “amore per tutto ciò che vive”, ne vuole comunicare l’essenzialità nella sua esistenza; prova inoltre attrazione per “l’immagine dell’uomo e le figure celestiali” – ne consegue una riflessione generale su quanto ci sta intorno che probabilmente andrebbe raffinata, selezionata, filtrata – per ora ci si deve accontentare dell’onestà intellettuale e della articolata capacità di scrittura in cui tale onestà prende forma.
Scrutando l’orizzonte (e anche oltre, viene da osservare, leggendo questa silloge ricca di spunti e testimonianze), il poeta emergente si fa largo nella vasta terra dei sentimenti, si avvicina al dire in parole che sappiano come dire quei sentimenti, si fa strada nella poesia per trovarvi una stanza sua in cui abitare ed essere se stesso.
Composta, quasi interamente, nell’infuocato giro di due mesi appena, la raccolta ha una evidente compattezza espressiva (anche negli intermezzi in prosa), pur aprendosi a temi diversi. Il prefatore Carmine Brancaccio – che è poeta, nonché direttore della collana “Fermenti” nella quale appare il libro – brinda alla “verità saggia” del “giovane autore” apripista, accettando, anzi lanciando la scommessa: un molisano tenuto a battesimo da una editrice molisana, farà onore e terrà fede all’impegno, e ricambierà la stima che gli si accorda. Si può sottoscrivere tale sentimento di attesa che pure anima la postfazione di Maria Pia De Martino: si può chiedere tranquillamente a Michele Fascino di non avere fretta, ma la sua poesia, anche se deve “ancora corroborarsi”, può considerarsi davvero “germoglio di un albero forte e sano”, ed è un augurio importante.
Un augurio che vale ovviamente anche per l’editore Iannacone, mai stanco, malgrado le difficoltà oggettive che ha una casa editrice piccola e periferica come la sua, mai stanco di dare fiducia alle nuove realtà culturali e incoraggiarle offrendo un po’ di spazio, un angolo di collana o addirittura una collana nuova, a chi altrove non avrebbe modo di farsi notare, nemmeno di presentarsi.

Giuseppe Napolitano

Pietro da Salerno (+ 1105), monaco, diplomatico, vescovo, crociato, perseguitato, taumaturgo e santo, ci è noto soprattutto per la Vita accolta dal Lectionarium anagninum pervenutoci nel Cod. chigiano C. Vili. 235 (ff. 195v-206v), manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana.
Il testo agiografico, inserito in un ambito liturgico e stabilizzatosi nel XIV secolo con questa precisa finalità, risulta dalla cucitura letteraria di varie fonti, di cui la piú antica e autorevole è comunemente ritenuta la perduta peroratio, che ne fece Bruno di Segni, all’epoca monaco o forse già abate cassinese, in vista del processo di canonizzazione culminato il 4 giugno 1109 (o 1110?) con la Dominum excelsum di papa Pasquale II, che concedeva alle diocesi campane l’autorizzazione solenne per il culto pubblico dell’asceta salernitano, entrato nei circuiti della Curia romana grazie alla stima del cardinale Ildebrando (futuro papa Gregorio VII) e finito sulla cattedra di Anagni (1062), all’epoca di papa Alessandro II.
Benedettino, riformatore, legato al grande progetto lanciato dall’abate Desiderio (futuro papa Vittore III), presenziò allo straordinario raduno di Montecassino, donde nel 1071 s’inaugurava la nuova Abbazia, simbolo di una Chiesa che anelava con forza l’affrancamento dai lacci della mondanizzazione feudale e postulava platealmente il rinnovamento morale degli uomini attraverso la riedificazione materiale delle strutture. Del resto, la ricostruzione della cattedrale anagnina, il rinvenimento delle reliquie e la sponsorizzazione del movimento devozionale nei confronti di S. Magno, attribuiti dalla tradizione a Pietro da Salerno, s’inseriscono pienamente nell’impegno cassinese mirante a consolidare, tra l’XI e il XII secolo, l’aggiornata fisionomia medievale dei centri urbani attraverso la promozione dei celesti patroni locali, modelli di santità da emulare e potenti intercessori da evocare.
Nel IX Centenario del suo beato transito (1105-2005) la Diocesi, di cui egli fu glorioso titolare, ha voluto celebrarne la figura, patrocinando il presente volume curato da Lorenzo Cappelletti, direttore dell’Istituto Teologico Leoniano di Anagni (aggregato alla Pontificia Facoltà Teologica Teresianum), e da Angelo Molle, assistente di Storia della Chiesa presso il medesimo ente accademico.

Il presente volume, dopo aver illustrato il Sitz im Leben in cui la tradizione colloca la Passio Luciae, fornisce un’idea generale sull’espansione planetaria del culto attraverso l’osservatorio privilegiato delle incidenze toponomastiche, delle creazioni iconografiche e delle espressioni folkloristiche, per fermare, infine, l’attenzione del lettore sul nostro circondario, dove la venerazione della martire siciliana aveva già fatto sicuramente il suo ingresso liturgico nell’XI secolo, allorché ce ne dà riprova inconfutabile il Codex Casinensis 146, un manoscritto del prestigioso scriptorium benedettino contenente Passiones et vitae Sanctorum, la cui celebrazione va dall’inizio dell’Avvento alla festa dei SS. Giovanni e Paolo e comprende figure con forte caratterizzazione ambientale come S. Amasio, patrono di Piedimonte S. Germano.

Dalla Prefazione di Filippo Carcione

«Il Laudano di Brancaccio è un lenimento alla nostra inerzia, una paradossale spinta a muoverci/partire. La chiave di tutto è forse nel testo “XXIX”, con l’augurio/rivelazione quasi una sfida alla semenza umana. […] Tutto finisce per svolgersi in una sorta di sabba ipnotico, mentre “la solitudine pigola a ritmo di rumba che non sa di suonare lo schianto del cielo”».
Giuseppe Napolitano

«In un equilibrio che sembra via via trovare un assestamento nel codice espressivo, dovendo conciliare l’insorgente bisogno di verità e di autenticità che è nell’animo di Brancaccio con l’esigenza di un’arte purificata dell’effimero e del superficiale, la forma e lo stile di Laudano sembrano ritrovare una sorta di efficacia ed un recupero della funzione della poesia agli albori del nuovo millennio».
Dante Cerilli