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Nomen omen: sarebbe troppo facile trarre auspici favorevoli, in questo caso, da un nome emblematico qual è quello del poeta che inaugura la collana “giovane” delle Edizioni EVA… ma i “fermenti” positivi ci sono, in questo esiguo (e non esile) mannello di testi che compongono Scrutando l’orizzonte; ci sono e permettono di salutare l’opera prima di Michele Fascino appunto come “prima” – con l’augurio cioè che ce ne siano altre, dopo. Non sempre vale la pena: ci sono autori più o meno giovani che mettono insieme una raccolta di riflessioni o confessioni più o meno liriche e ne fanno un libro, e lo pubblicano. Nulla di male, se non volessero essere considerati poeti all’inizio di carriera, e non soltanto autori di quel libro. E ci sono quelli che azzeccano un primo libro quasi per caso, o dono di natura, e poi non sanno andare avanti per non avere voglia o desiderio di lavorare e crescere…
Michele Fascino prova – come dichiara – “amore per tutto ciò che vive”, ne vuole comunicare l’essenzialità nella sua esistenza; prova inoltre attrazione per “l’immagine dell’uomo e le figure celestiali” – ne consegue una riflessione generale su quanto ci sta intorno che probabilmente andrebbe raffinata, selezionata, filtrata – per ora ci si deve accontentare dell’onestà intellettuale e della articolata capacità di scrittura in cui tale onestà prende forma.
Scrutando l’orizzonte (e anche oltre, viene da osservare, leggendo questa silloge ricca di spunti e testimonianze), il poeta emergente si fa largo nella vasta terra dei sentimenti, si avvicina al dire in parole che sappiano come dire quei sentimenti, si fa strada nella poesia per trovarvi una stanza sua in cui abitare ed essere se stesso.
Composta, quasi interamente, nell’infuocato giro di due mesi appena, la raccolta ha una evidente compattezza espressiva (anche negli intermezzi in prosa), pur aprendosi a temi diversi. Il prefatore Carmine Brancaccio – che è poeta, nonché direttore della collana “Fermenti” nella quale appare il libro – brinda alla “verità saggia” del “giovane autore” apripista, accettando, anzi lanciando la scommessa: un molisano tenuto a battesimo da una editrice molisana, farà onore e terrà fede all’impegno, e ricambierà la stima che gli si accorda. Si può sottoscrivere tale sentimento di attesa che pure anima la postfazione di Maria Pia De Martino: si può chiedere tranquillamente a Michele Fascino di non avere fretta, ma la sua poesia, anche se deve “ancora corroborarsi”, può considerarsi davvero “germoglio di un albero forte e sano”, ed è un augurio importante.
Un augurio che vale ovviamente anche per l’editore Iannacone, mai stanco, malgrado le difficoltà oggettive che ha una casa editrice piccola e periferica come la sua, mai stanco di dare fiducia alle nuove realtà culturali e incoraggiarle offrendo un po’ di spazio, un angolo di collana o addirittura una collana nuova, a chi altrove non avrebbe modo di farsi notare, nemmeno di presentarsi.

Giuseppe Napolitano

Pietro da Salerno (+ 1105), monaco, diplomatico, vescovo, crociato, perseguitato, taumaturgo e santo, ci è noto soprattutto per la Vita accolta dal Lectionarium anagninum pervenutoci nel Cod. chigiano C. Vili. 235 (ff. 195v-206v), manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana.
Il testo agiografico, inserito in un ambito liturgico e stabilizzatosi nel XIV secolo con questa precisa finalità, risulta dalla cucitura letteraria di varie fonti, di cui la piú antica e autorevole è comunemente ritenuta la perduta peroratio, che ne fece Bruno di Segni, all’epoca monaco o forse già abate cassinese, in vista del processo di canonizzazione culminato il 4 giugno 1109 (o 1110?) con la Dominum excelsum di papa Pasquale II, che concedeva alle diocesi campane l’autorizzazione solenne per il culto pubblico dell’asceta salernitano, entrato nei circuiti della Curia romana grazie alla stima del cardinale Ildebrando (futuro papa Gregorio VII) e finito sulla cattedra di Anagni (1062), all’epoca di papa Alessandro II.
Benedettino, riformatore, legato al grande progetto lanciato dall’abate Desiderio (futuro papa Vittore III), presenziò allo straordinario raduno di Montecassino, donde nel 1071 s’inaugurava la nuova Abbazia, simbolo di una Chiesa che anelava con forza l’affrancamento dai lacci della mondanizzazione feudale e postulava platealmente il rinnovamento morale degli uomini attraverso la riedificazione materiale delle strutture. Del resto, la ricostruzione della cattedrale anagnina, il rinvenimento delle reliquie e la sponsorizzazione del movimento devozionale nei confronti di S. Magno, attribuiti dalla tradizione a Pietro da Salerno, s’inseriscono pienamente nell’impegno cassinese mirante a consolidare, tra l’XI e il XII secolo, l’aggiornata fisionomia medievale dei centri urbani attraverso la promozione dei celesti patroni locali, modelli di santità da emulare e potenti intercessori da evocare.
Nel IX Centenario del suo beato transito (1105-2005) la Diocesi, di cui egli fu glorioso titolare, ha voluto celebrarne la figura, patrocinando il presente volume curato da Lorenzo Cappelletti, direttore dell’Istituto Teologico Leoniano di Anagni (aggregato alla Pontificia Facoltà Teologica Teresianum), e da Angelo Molle, assistente di Storia della Chiesa presso il medesimo ente accademico.

Il presente volume, dopo aver illustrato il Sitz im Leben in cui la tradizione colloca la Passio Luciae, fornisce un’idea generale sull’espansione planetaria del culto attraverso l’osservatorio privilegiato delle incidenze toponomastiche, delle creazioni iconografiche e delle espressioni folkloristiche, per fermare, infine, l’attenzione del lettore sul nostro circondario, dove la venerazione della martire siciliana aveva già fatto sicuramente il suo ingresso liturgico nell’XI secolo, allorché ce ne dà riprova inconfutabile il Codex Casinensis 146, un manoscritto del prestigioso scriptorium benedettino contenente Passiones et vitae Sanctorum, la cui celebrazione va dall’inizio dell’Avvento alla festa dei SS. Giovanni e Paolo e comprende figure con forte caratterizzazione ambientale come S. Amasio, patrono di Piedimonte S. Germano.

Dalla Prefazione di Filippo Carcione

«Il Laudano di Brancaccio è un lenimento alla nostra inerzia, una paradossale spinta a muoverci/partire. La chiave di tutto è forse nel testo “XXIX”, con l’augurio/rivelazione quasi una sfida alla semenza umana. […] Tutto finisce per svolgersi in una sorta di sabba ipnotico, mentre “la solitudine pigola a ritmo di rumba che non sa di suonare lo schianto del cielo”».
Giuseppe Napolitano

«In un equilibrio che sembra via via trovare un assestamento nel codice espressivo, dovendo conciliare l’insorgente bisogno di verità e di autenticità che è nell’animo di Brancaccio con l’esigenza di un’arte purificata dell’effimero e del superficiale, la forma e lo stile di Laudano sembrano ritrovare una sorta di efficacia ed un recupero della funzione della poesia agli albori del nuovo millennio».
Dante Cerilli

L’esperanto è una lingua soprannazionale, patrimonio di tutta l’umanità, che si prefigge lo scopo di diventare la seconda lingua di tutti, da utilizzare preminentemente nei rapporti internazionali, in modo da eliminare i problemi derivanti dalle barriere linguistiche.
Ideato nel 1887 da Ludwik Lejzar Zamenhof, l’esperanto, secondo le parole dello stesso iniziatore, «non ha nessun legiferatore e non dipende da nessuna persona in particolare» ed «esperantista è chiamato chiunque conosce e usa la lingua esperanto indipendentemente dallo scopo per cui la usa».
Zamenhof nacque nel 1859 a Bialystok, in Lituania, regione della vecchia repubblica polacca che l’impero russo si era annessa, e mori a Varsavia nel 1917. A Bialystok in quel periodo convivevano — e non sempre pacificamente — diverse etnie, con diverse lingue e fin da bambino Zamenhof si trovò ad osservare le difficoltà e i problemi dell’incomprensione linguistica.
Dopo un primo tentativo di creare una lingua internazionale in età adolescenziale, progetto andato a monte perché il padre gli distrusse gli appunti temendo che lo distraessero dagli studi, nel 1887 Zamenhof pubblicò la prima grammatica di esperanto, un libretto di 40 pagine in lingua russa, firmandosi con lo pseudonimo di Doktoro Esperanto, Il Dottore che spera (Zamenhof era oculista). Il volumetto ebbe subito un’eco notevole in tutto il mondo e nel corso dello stesso anno furono pubblicati anche le versioni in polacco, in francese, in tedesco e in esperanto. Quello che era lo pseudonimo dell’autore, fu ben presto adottato per indicare la stessa lingua. L’esperanto iniziò rapidamente a diffondersi, nacquero associazioni esperantiste in tutta Europa, cominciarono a uscire periodici in esperanto. La nuova lingua cominciava anche ad avere l’avallo di personalità illustri. Uno dei primi ad accettarla fu Lev Tolstoj. Nel 1889, rispondendo a V. Majnov, il grande scrittore russo scriveva: «Io ritengo l’apprendimento di una lingua europea comune (vale a dire la lingua internazionale esperanto) cosa assolutamente urgente [...]. Per quel che mi è possibile, io cercherò di diffondere questa lingua e, la cosa più importante, cercherò di
convincere tutti della sua necessità». Tostoj fu anche collaboratore del periodico La Esperantisto (L’esperantista), organo del nascente movimento pubblicato a Norimberga, che anzi fu chiuso dalla censura zarista proprio in seguito alla pubblicazione dell’articolo di Tolstoj “Saggezza o fede?”.
Nel 1905, ebbe luogo in Francia, a Boulogne-sur-Mer, il primo congresso universale di esperanto, cui parteciparono 668 congressisti, provenienti da tutta Europa. Grande fu l’entusiasmo e il successo e da allora ogni anno, eccetto qualche anno nei periodi bellici, si sono suc¬ceduti i congressi universali in città di volta in volta diverse. Ai congressi universali si andavano aggiungendo congressi nazionali, congressi settoriali, convegni, ecc. Sono nate riviste e trasmissioni radio quotidiane, ed è nata una vasta letteratura originale, oltre che tradotta.
L’esperanto è una lingua estremamente facile sia dal punto di vista fonetico sia da punto di vista grammaticale. La grammatica, rigorosamente razionale, si articola in poche regole e senza alcuna eccezione. Il vocabolario è formato da radici provenienti da varie lingue, per la maggior parte dal latino e da lingue del ceppo indoeuropeo, prevalentemente con l’accoglimento, per ogni parola, della radice di maggiore facilità fonetica e maggiormente diffusa a livello internazionale.
Oggi l’esperanto ha una considerevole diffusione in tutto il mondo, dagli Stati Uniti allo Zaire, dal Sud Africa alla Danimarca, dalla Cina al Brasile, nonostante il discorso esperantista sia portato avanti generalmente da appassionati e da studiosi, senza interessi né economici né di altro genere, ma solo di quelli della risoluzione del problema della comunicazione internazionale
Esiste un’organizzazione esperantista a livello mondiale, (la UEA, Universala Esperanto-Asocio, Associazione Esperantista Universale), la cui sede centrale è attualmente in Olanda, a Rotterdam, cui fanno capo oltre 50 associazioni nazionali. Quella italiana è la FEI, Federazione Esperantista Italiana, che ha sede a Milano ed è ente morale. Ma molte altre associazioni e istituzioni esistono in Italia e nel mondo, a volte collegate tra loro, a volte indipendenti. Esiste inoltre una rete di delegati dell’UE A diffusi in più di una cinquantina di paesi. Ci sono circoli esperantisti dislocati qua e là ed esistono associazioni esperantiste di categoria (scienziati, insegnanti, ferrovieri, medici, non vedenti, giovani, cattolici, cattolici, mormoni, ecologisti, ecc.).
Di notevole rilievo è la letteratura originale in esperanto, dove si possono trovare opere di saggistica, narrativa, poesie, manualistica, ecc. Non pochi sono gli scrittori e poeti di grande talento che usano l’esperanto per le loro opere originali. Ci sono poi, come si può intuire, migliaia di opere tradotte da tutte le lingue, che danno la possibilità di avvicinarsi alle letterature di tutto il mondo, pur non conoscendo le lingue in cui sono state scritte le opere. Molte sono le riviste che si pubblicano un po’ dappertutto, dal semplice notiziario alla rivista scientifica, dal periodico di informazione a quello letterario. Inoltre parecchie emittenti radiofoniche (Varsavia, Pechino, Vienna, Roma, Berna, Città del Vaticano, Radio Radicale, ecc.) trasmettono regolarmente programmi in esperanto e, da ultimo, su Internet è possibile trovare un po’ di tutto, dai corsi di lingua on line ai testi in esperanto all’organizzazione alla storia del movimento esperantista.

  • Titolo
  • Laudano
  • Autore
  • Carmine Brancaccio
  • Collana
  • All’insegna di pagine lepine
  • Pagine
  • 54
  • Anno
  • 2006
  • Prezzo
  • € 8,00

Essenza di stagione

Perché o memoria
ti tocchi il ventre
e mordi il sapore
della mia lingua
per narrarti?

Prestar fede alle parole di un giovane poeta? invischiarsi nella tela dei suoi giochi mentali e verbali (uno che dice: “non sarà mai chiara la consapevolezza dell’iter poetico di un singolo uomo che scrive per rivoluzionare la fisionomia di un’arte troppo antica…”)? Brancaccio è ancora cosí entusiasta nella ricerca di ritmi e misure, cosí attento ad ascoltare la sua voce nel farsi immagine sonora e figura ammaliatrice, da meritare ancora credito e fiducia. È cosí giovane che può permettersi la faccia tosta di fare il grande e inventarsi già una nuova identità poetica, un eteronimo dal suo stesso nome ma rinnovato nel dirsi e nel darsi come autore. Gliela consente la forza della giovinezza matura, della consapevolezza di avere corde adeguate e sicura mira per puntare con decisone al bersaglio piú lontano: il libro.
Un libro di poesia nasce in diversi modi, e Carmine Brancaccio non è piú un neofita, avendo pubblicato il suo primo lavoro appena diciassettenne. Pochi o molti che siano (anagraficamente e culturalmente) questi anni che lo separano dalla sua prima prova, gli hanno comunque dato la volontà e la convinzione di poter crescere e misurarsi ancora con se stesso, con la parola, con noi.
La sfida piú alta che affronta il poeta giovane è quella con il pubblico, al quale normalmente si cerca di piacere… ma pure gli si vorrebbe, magari velatamente, offrire le qualità migliori del sé autore, la faccia piú presentabile e cioè quella piú gradevole. Cosí a volte si scrivono e in fretta si pubblicano poesie che a volte nemmeno lo sono, finendo per rimanere nell’intima sfera della confessione enfatica, lirica, ma non sempre letteraria. Chi ha una sola faccia, ha meno problemi, o non ne ha: si offre com’è; può magari offrire anche un antidoto per il sottile veleno che somministra - in tutta onestà (e generosità) intellettuale.
Il laudano è un analgesico galenico, ma forse ha piú valore, nel contesto o paratesto del libro cui dà il titolo, nella sua connotazione oppiacea e quindi abbastanza stupefacente. E se è cosí che va letto, allora anche la materia del libro assume un valore nel farsi prossima allo stordimento, anche le tracce sulle quali si finisce, cautamente, faticosamente, a muoversi diventano passi verso un paradiso diverso, come sospeso fra questa terra che nel libro è l’isola di Archimede e del suo Re e un cielo irraggiungibile, iperuranio o nirvana che sia, onirico traguardo.
Sbarcare su quest’isola, ubriacarsi di laudano, è una vacanza insolita da accettare slanciandosi ben disposti nell’animo. Qui non si possono segnare facilmente mappe e percorsi, invano si cercherebbero indicazioni e suggerimenti per orientarsi nell’isola del poeta, quasi un’isola del tesoro per chi invece sia disposto a scoprire – con difficoltà, con fatica, con cautela – i segnali che pure ci sono, sparsi e diffusi a profusione per essere individuati, raccolti, decrittati, ma da un occhio allenato o per lo meno disposto a cogliere, leggere, interpretare…
I prologhi in prosa che aprono le quattro sezioni del libro, il titolo che indica ogni sezione, l’aforisma che è il primo testo, quasi un’epigrafe per l’intero libro… sono chiavi mature per entrare non solo in questo lavoro ma nel lavoro del poeta Brancaccio: egli è sapiente organizzatore della propria materia, soltanto apparentemente magmatica e frammentaria, sinfonica e sincopatici. Vi si coglie invece un ordine mentale che sostiene una personale visione del mondo e dell’uomo, suo principe inquilino.
Qui vive il grande gioco dell’essere e dell’apparire, del nascondere e mostrare. Qui si va oltre lo specchio e dentro il sogno, ma conservando acuta la percezione del concreto quotidiano: si vuole cosí scuotere l’albero dei frutti proibiti pur sapendo che se cadono fanno male, si vuole esplorare il bordo del credibile, ma, se “s’agita sgangherata la bussola”… chi ci orienterà nell’inconcluso labirinto che è “l’elegante follia del mondo”?
Chi non vuole giocare, chi non accetta un gioco dai contorni sfuggenti (in cui sono piú le eccezioni che le regola), non ha che da non giocare – non sa che perde, ma risparmia l’arduo compito di correre su e giú per aspre vie, di smarrire anche la strada, depistato da subdole malie… Chi se la sente, invece, conquisterà può darsi pochi spiccioli di luce in un cammino eccitante attraverso l’oscuro, ma potrà dirsi soddisfatto di averci provato. L’autore del puzzle ha frammentato ad arte le diverse scene di una recita a soggetto: bisogna, per stabilire anche quale parte si vuole o si può interpretare, ricomporre attentamente ciascun elemento del gioco.
“Che ne sa il mondo di questo mondo”: è una delle tante (non)domande che l’autore pone senza forse neanche attendersi risposta. Sono rari infatti i punti interrogativi; per lo piú, retorici. “Il letargo sorride all’oceano” - estrapolare serve solo a dare la misura dell’impegno, rispettabile come ogni fatica compiuta a fin di bene. Il Laudano di Brancaccio è un lenimento alla nostra inerzia, una paradossale spinta a muoverci/partire. La chiave di tutto è forse nel testo “XXIX”, con l’augurio/rivelazione quasi una sfida alla semenza umana: “Indovinerete quanto c’è da indovinare… Il cabalistico giuoco del surrealismo è sangue ignudo”. E se “il dí ci riempie di metallo”, se manteniamo con l’esistere un rapporto di accidiosa dipendenza, allora “l’alcova è il suo telefono”… ma è solo una maniera di seguire le trame del testo. Tutto finisce per svolgersi in una sorta di sabba ipnotico, mentre “la solitudine pigola a ritmo di rumba che non sa di suonare lo schianto del cielo”.
Tra le figure strutturali, antitesi e ricorrenze caratterizzano il procedere creativo (tra il surreale e l’elettrico… con la sensazione strisciante di avventurarsi in una dimensione poco familiare). Termini ossimorici si affrontano (angelo e inferno, angelo e male) e si confrontano in una sorta di comunione verbale, mentre appaiono diversi apax che a volte stupiscono, a volte intrigano (come i ricercatissimi “alipte”, “alismo”), come “celtico”, come il verbo “fregare”… i registri espressivi mutano frequentemente sorprendentemente: il giovane apprendista pare già diventare maestro o si atteggia a tale, ma consumato già nell’uso. Ci sono i “peletti” fra “le natiche (paffute)” e c’è una “sputacchiera”, c’è “lo sperma di dèi” e un’erba “profumata di piscio”… c’è pure un “gamete” e c’è “albagia” che fa rima con “alchimia”. Il laudano del titolo è presente due volte (e c’è anche l’oppio, e c’è il “fumo”). Altre volte, l’azzardo lessicale sfiora l’arbitrio o l’abuso semantico, eppure – pur nello stupirsi all’impatto – mano a mano che si avanza nella boscaglia di un vocabolario esibito e sfacciato, lo si comincia per certi versi a comprenderne le connotazioni.
Alla fine (ammesso quindi che ci sia, una fine, o che abbia un fine…), l’autore di un simile libro può solo dire se il lettore – uno scaltro lettore che gli confessi quale percorso abbia scoperto e/o seguito – ha saputo e in che misura dipanare un ordito scrupolosamente elaborato che finge (e l’accostamento leopardiano/calviniano, che forse spiace al rivoluzionario autore, pare inevitabile) un altro mondo, un infinito possibile di cui l’autore stesso offre definizione: “il grande parallelo del reale”.

Giuseppe Napolitano

Di questa raccolta è il titolo a farsi considerare al bandolo di ciò che, nel biografato di fondo, è la confessione di un vero e proprio credo come tale in una dimensione poetica della vita.
Sorta, si direbbe, di “diario intimo”, che pagina dopo pagina raccoglie ed elenca quelle “briciole” del titolo, che, disseminate in un percorso esistenziale diventano via via, a prova di forti emozioni, sete di conoscenza, contatto con culture diverse e, d’improvviso, tragedia e, quindi, vita sofferta, insulsa, inutile, priva di significato al di là di che il sensibile ad ogni espressione artistica rimane nel confortevole di certo dilettarsi di poesia, pittura, collage e fotografia in cui rappresentare istintivamente squarci del proprio vissuto.
(Dalla Prefazione di Alfredo Barbati junior)

  • Autore
  • Jordi Valls
  • Titolo
  • Male
  • Collana
  • Stella Verde
  • Pagine
  • 144
  • Anno
  • 2005
  • Prezzo
  • € 12,00

Nota biografica dell’autore

Jordi Valls i Pozo (Barcellona, 1970). È poeta e saggista. In poesia ha pubblicato nove libri: D’on neixen les penombres (1995), Natura morta (1998), Oratori (2000), La mel d’Aristeu (2003), La mà de batre (2005), Violència gratuita (2006), Última oda a Barcelona (2008, in collaborazione con Lluís Calvo), Félix orbe (2010) e Ni un pam de net al tancat dels ànecs (2011). Ha vinto i premi Martí Dot, Vila de Martorell, Senyoriu d’Ausiàs March, Gorgos, Grandalla e i Giochi Floreali di Barcellona, diventando il primo poeta della Città nel periodo 2006-2007. È stato antologizzato in Milenio. Ultimísima Poesía Española (1999), 21 poetes del XXI (2001), Dnevi poezije in vina (2008), Cançons de bressol (2011) e Trentaquattro poeti catalani per il XXI secolo (2014). È stato tradotto in inglese, in castigliano e in sloveno. Nel campo della saggistica ha partecipato a «L’unica certezza. Primo simposio Márius Sampere» (2008) e al «Monografico su Vicent Andrés Estellés» della Rivista Reduccions n. 98/99 (2011). Inoltre è autore di Retrat de Montserrat Abelló (2009).

L'altra gioventù medio

La graduale ma costante emancipazione della donna ha provocato trasformazioni sempre piú profonde nella società e nell’istituto della famiglia. Tra i fenomeni in crescita si deve senza dubbio registrare il moltiplicarsi di una narrativa al femminile presente nelle classifiche dei best seller come non mai. A un esame generale non sfugge poi che gran numero dei romanzi scritti da donne indulgono alla pornografia con punte ardite persino poco osate da scrittori maschi. Si direbbe che dopo emarginazioni di secoli le donne abbiano trovato l’occasione liberatoria che permette loro di sfogarsi e di rifarsi da tante esclusioni. Già da tempo tuttavia vagava il sospetto che esse tra di loro si abbandonassero a racconti e a confessioni che gli uomini tra loro, anche quelli tacciati di erotomania, non sempre avevano l’audacia di affrontare. Venuto il momento della verità si è avuta in un certo senso e in una certa misura la conferma che l’uomo è persino piú riservato e pudico in materia di sesso ed è in alcuni casi addirittura piú “sentimentale”.
Desta perciò interesse la lettura di questo romanzo di Fernanda Spigone, “L’altra gioventú”, che mette a confronto due mondi: quello dell’erotismo e quello del sentimento; piú precisamente il sentimento scopre l’erotismo senza esserne sopraffatto. Questa considerazione non nasce da una impostazione moralistica, bensí dalla constatazione che la graduale scoperta della libertà sessuale metropolitana da parte di una giovane provinciale conduce, questa volta, a un possibile equilibrio dell’animo e prelude a una futura possibile maturità.
In questo itinerario, certamente sofferto, si cela forse il segreto di tanti sessantottini che alla loro stagione di contestazione globale, di eversione a tutto campo, hanno fatto seguire un rientro nei ranghi talvolta contraddittoriamente eccessivo. Nel romanzo della Spigone il finale è aperto come si conviene a ogni avventura umana e come è destino della vita di ciascuno di noi, storia incompiuta, e la cui conclusione definitiva appartiene a un enigma inesplicabile.
Accanto alla “vicenda” della giovane, si svolge quella di una donna, che sembra appartenere a una classe contigua distinta dalla linea della giovane da un elemento separatore in matematica detto “epsilon”, invalicabile. E infatti nel romanzo le due creature sembrano all’inizio incontrarsi, in realtà resteranno estranee l’una all’altra, per sempre. La storia della donna ha un percorso del tutto diverso: ella ha sentito fiorire nel suo grembo il frutto dell’incontro carnale di una notte con uno sconosciuto. Ripudiata dal marito, si confida con la giovane dalla quale si aspetta conforto. La giovane invece è distratta, dopo la solidarietà iniziale, dalla propria avventura sentimentale. La donna resta sola: ora la sua angoscia è dominata dal desiderio di assicurare al figlio un padre, qualunque egli sia, perché un figlio è legato al padre, a ben pensarci, da un atto di fede. La storia della donna ha un finale drammatico forse non del tutto necessario e che perciò risulta l’elemento “romanzesco” dell’opera.
Tutto quanto detto è la trama sottile che traspare dietro il tessuto di una narrazione credibile che si risolve in una lettura estremamente gradevole. L’autrice rivela una sensibilità acuta, una consapevolezza della materia e dei tempi di cui si occupa, un pudore che rende le scene d’amore molto piú seducenti di quelle trattate in modo hard dalla corrente pornografia femminile. Dolce è l’amore che si esprime dapprima con gli sguardi che si cercano, si sottraggono, si cercano ancora e infine si inchiodano tra loro. Il primo amore nasce dalla luce degli occhi che si incrocia con l’altro, da quella energia che sgorga dall’anima e riesce a suggellare una unione che gli amplessi successivi cercheranno di replicare, forse, e spesso, invano.
Il racconto della Spigone è in ogni modo sciolto, piacevole con il ricorso ad aperture favolistiche. Ad esso partecipe il paesaggio, una natura tutt’altro che morta come spesso ci è dato vedere nei fondali dipinti di altre storie romanzate. Una natura viva e quindi cangiante, con le sue stagioni, i suoi odori, i suoi languori, i suoi risvegli. Il punto di vista è Segni, in faccia ai monti Lepini, con qualche variazione nella grande città non lontana e accessibile ai pendolari che al mattino partono e quasi sempre a sera tornano a casa, puntuali. Tutto respira attorno al nucleo narrativo, un villaggio mistico da cui si avverte appunto il fiato e che invita il lettore a farne parte.
“L’altra gioventú” mi è parsa insomma opera da raccomandare, favorita da una prosa tersa e accattivante che fa trascurare qualche ingenuità stilistica e una qualche mancanza di scioltezza nei dialoghi, che si presentano piú nel loro valore letterario che in quello drammaturgico.
Per quanto mi riguarda, è una felice e inaspettata sorpresa.

Turi Vasile

  • Titolo
  • Dell'amicizia - my red hair
  • Autore
  • Maria Luisa Daniele Toffanin
  • Collana
  • Premio "Venafro"
  • Pagine
  • 54
  • Anno
  • 2004
  • Prezzo
  • € 9,30


Anche il precedente libro della Daniele Toffanin, Per colli e cieli mia euganea terra, ha per protagonista un paesaggio con figure e il presente un’amica scomparsa, cui quel paesaggio fa da sfondo, c’è tra i due volumi una sostanziale continuità: l’uno e l’altro ispirati a un amore per la propria terra cos’ profondo da identificarsi con essa, la sua civiltà, i suoi abitanti, l’uno e l’altro animati da una visione positiva, etica, spirituale della vita, con una particolare tensione a cogliere il “magico arcano”, il sacro, l’invisibile. Alla coralità del primo libro succede qui la concentrazione in un personaggio, che l’autrice non nomina, ma rappresenta con una sineddoche, un connotato fisico che meglio la caratterizza: «la rossa criniera», presente nel sottotitolo, che di volta in volta, chiamata ad esprimere lo stato d’animo prevalente, diventa frizzante, radiosa, amorosa, pudica, danzante, incantata, operosa, lucente, euforica, anche smarrita, snervata, strappata, ma con forte prevalenza dei momenti positivi. Il nuovo libro è il poema dell’amicizia (giusta il titolo), la rievocazione a caldo, sull’onda ancora dell’emozione e del dolore, di uno straordinario personaggio, colto nei suoi momenti piè significativi di docente, di sposa, di madre, di amica, diversa e sempre identica nel suo carattere tenero e ardente, profondamente innamorata della vita. È un’amica con cui l’autrice ha vissuto in simbiosi per trent’anni, condividendone gioie, entusiasmi, speranze, ansie e delusioni, soprattutto per il rapido degradarsi di un costume e di una civiltà tra le piú umane e raffinate, come la veneta.
Il libro, diviso in due parti: “Il nostro tenero tempo” e Il nostro tempo maturo”, composte di cinque sezioni ciascuna, si annuncia sin dalla Praefatio come lo spartito di una composizione musicale, dove prevalgono note di gioia e di luce: «Evocate al bulino del dolore / dirò amica di ore nostre glissate / tra sabbia di clessidra / note lucenti d’amicizia / [...] emerse / vive per questo mio spartito / ché in ogni rigo di noi insieme / si sente il suono della gioia, / [...] e di chiari accordi d’acqua / dal mare dei tuoi gesti / dal profondo tuo inquisire / segni d’un nobile lavare / che ancora dà nitore / ai tuoi diletti spazi / al tuo sentire di cristallo.» (p. ).
Nella seconda lirica sottolinea fortemente, con la ripetizione del verbo lavare (tra le parole-chiave del libro), l’anelito dell’amica alla limpidezza, alla pulizia fisica e morale, già affermato nella Praefatio leitmotiv del volume, insieme all’«endemica sete di vero» (altrove «ansia del vero», «ricerca del vero»). Nella stessa composizione si canta «quel mite angolo agreste / dimora d’umana cultura», dove fiorí «raro il seme dell’amicizia / nel tempo diramata / in presenza una nell’altra». È il «bucolico spazio» della scuola immersa nella campagna euganea, con un’asina che poggiava il muso sul davanzale della finestra a pian terreno, «con gli allievi quasi amici / la mente vivace e chiari disegni». In questo profondo amore per la campagna, in questo vagheggiare o rimpiangere un’Arcadia perduta, che sono un patrimonio di ogni scrittore o artista veneto (si pensi anche a certe sculture di Arturo Martini), si avverte ancora fruttuosa l’eredità del Nievo, come in ogni figura femminile creata da quella letteratura fa capolino qualcosa della Pisana.
Ai giovani la docente «diceva l’urgenza / d’un vivere insieme cortese / alla voce di un’etica stella». Umanità, cortesia, eticità, sono i valori che accompagnano docenti, discenti e contesto sociale, a formare un’armonia, di cui è elemento attivo anche la natura. Si leggano, a questo proposito, le tre liriche della Leggenda agordina. «Mai ci fu ora d’amicizia / uguale tra noi e la natura», come in un’esperienza vissuta insieme con ragazzi ed amici, appunto, sulle Dolomiti agordine. La purificazione di ogni pensiero – preoccupazione costante delle due amiche – si realizza a contatto con l’innocenza delle cose, con la verità dei primordi (altra grande intuizione del libro), come nella «sfera d’armonia» che regna su quei monti.
Si torna spesso nel libro sull’intreccio del binomio gentilezza ed etica, passione (fuoco interiore) e dovere, poesia e sofia, a colorare piú intensamente il «tenero tempo» la prima, il «tempo maturo» la seconda. In un’opera caratterizzata da un lirismo nutrito di pensiero e dei eticità, non poteva mancare una sezione una sezione dedicata all’enigma della presenza del male, del «non giusto» nella vita di ognuno e nel mondo, ed è questa sezione a chiudere la prima parte del libro.
Nella seconda parte prevalgono interni e spazi e spazi urbani di Padova. E analogamente a quando accade per la campagna, c’è rimpianto sincero per la scomparsa di antichi costumi e di una certa patavinità, cosí cara alle due amiche: «lavava le vecchie botteghe / vivaci intarsi allora di vita / battito ora spento di patavinità / accendendo due tre parole / di melodiosa cadenza / là con la gente semplice / delle piazze sotto il salone. / [...] lavava vicoli angoli / spazi d’umbratili silenzi / lastricati d’ogni fattura / dissacrati con dismisura / la rossa criniera indignata / all’assenza d’urbano decoro / d’un tempo troppo arrogante.» (p. ).
Senza essere femminista, anzi puntando tutto sul recupero della grazia e della tenerezza, che sono caratteri insopprimibili della donna, questo libro è anche un inno all’energia femminile, che in India chiamano shakti, qui simboleggiata dalle «ali ai piedi», dall’«ebbrezza della danza» dell’amica. E si sa che la danza consente di esprimere non solo sentimenti ed emozioni, ma anche spiritualità, accostandoci all’anima delle cose per cogliere il senso del cosmo. «E lavava lavava / lavava le mani gentili / come mattinale catarsi / fugate al lucore le ombre / per nuova energia alle ore. / Metteva gli anelli suo vezzo / con rapido tocco al mantello / alla rossa criniera arresa / ai suoi calzari i piú alati». (p. ). Anche l’amicizia è intesa come movimento ed energia: «amicizia-slancio di campana / ch’esplode di suoni un mattino / e l’eco vive per sempre». E il rapporto con le cose è inteso come fatto vivo, attivo, reattivo: «E nell’armonia tra sé e le cose / rinnovava l’interiore percorso / nel sogno dei fiori / nell’ansia del vero / nell’urto con gli eventi / sempre vestale nel tempio / della parola ardente.» (p. ).
Il libro si chiude nel segno (alto) del Foscolo, già alluso nel ricordo delle «luminose vendemmie», nella vigna dello sposo e al tempo della festosa raccolta; ma soprattutto per la certezza che «al tepore del ricordo / lei mi rivivrà ogni momento / come in un’infinita primavera / colore-odore di quei grappoli / pegno-impegno d’amicizia / profumo benedetto ancora sempre / che vola alto oltre il vento / della brughiera d’inverno / e non si sperde.» (p. ).
Se tematicamente tra il precedente volume e il presente c’è affinità, sotto il profilo delle scelte di stile e di lingua la loro identità è totale. Anche in Dell’amicizia continua il rifiuto della poesia pura e dell’ermetismo, che con le loro costruzioni, rinunce, tagli, autocensure, hanno prodotto tante pagine «non si capisce ed esangui», per dirla con Quintiliano. Nessun pregiudizio, nell’autrice, ai danni dell’esplicito, del troppo detto, nessun freno alle espansioni, bensí un fidente, entusiastico abbandono alla piena degli affetti, ai voli arditi della fantasia agli slanci in avanti della speranza e dell’utopia. Ciò reclama uno spiegamento di mezzi espressivi abbondante, a tutto campo, che coinvolge le sostanze, le qualità e le azioni. Donde il plurilinguismo, la folta presenza di neologismi e di arcaismi, la contiguità di lessico alto e di piú basso profilo, le ridondanze, le ripetizioni, le parole composte anche di tre sostantivi, le invenzioni ardite che rompono tutti gli schemi e i vincoli logici del discorso. È un’opera che musicalmente e pittoricamente si affida alla ricchezza, alla varietà dei colori e dei toni, piú che alla sobrietà e alla nettezza del disegno e del segno. Il risultato di tanta libertà e di tanto azzardo è quello di un innegabile arricchimento espressivo e di un’invenzione poetica che traccia percorsi inconsueti, originali, nuovi.

8 aprile 2004
Gerardo Vacana