Vai al contenuto

Dieci prose poetiche, variazioni sul tema, del poeta Renzo Cremona.
Nato a Chioggia (VE) nel 1971, Cremona ha studiato lingua e letteratura cinese, portoghese e neogreca presso l’Università di Venezia e svolge attività di consulente linguistico. Ha al suo attivo traduzioni dal cinese mandarino, dal mancese classico, dall’afrikaans, dal portoghese e dal neogreco.
Tra le sue opere: Foreste Sensoriali (1993), Lettere dal Mattatoio (2002, Premio Speciale della Giuria alla XI Ed. del Premio Internazionale Nuove Lettere, NA; 1° alla XXI Ed. del Premio Campagnola, PD; 2° alla V Ed. del Premio Emma Piantanida, MI), La Pergamena delle Mutazioni (2002, 1° alla III Ed. del Premio Anna Osti, Costa di Rovigo, RO; 3° al VI Concorso Guido Gozzano in Terzo, AL), Cronache dal centro della notte (2004, 1° all’VIII Ed. del Premio Mondolibro, Roma; 2° alla XXII Ed. del Premio Città Cava de’ Tirreni, SA), Tutti senza nome (2006, Premio della Giuria al Concorso Internazionale Città di Salò 2007, BS).

Sito dell'autore www.renzocremona.it

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • Dall'otto settembre al sedici luglio
  • Collana
  • I Colibrì
  • Pagine
  • 68
  • Anno
  • 2007
  • Prezzo
  • € 7,50

Lavori come questo non hanno bisogno di un prefatore perché vanno dritti al cuore e alla mente del lettore anche distratto. Essi infatti lo trasportano nella situazione psicologica universale del figlio che ripercorre il proprio tracciato genetico come portando la fiaccola della vita del genitore, e propria. In fondo la specie non ci chiede altro che fare da staffetta per cui – non è divertente dirlo – divenuti genitori a nostra volta, il nostro compito esistenziale sarebbe concluso. Un individuo qualsiasi non ci fa caso ma nemmeno chi sa, se la sente di rinunciare ad un sèguito senza limite. Il bisogno di sussistere è la trasfigurazione del bisogno di essere immortali! I pensatori sono una categoria antropologica sui generis!
Essi amano e soffrono in misura e modo eccezionali per un ipersviluppo della coscienza ma sono essi stessi che consentono alla specie di evolversi dall’animalità alle vette del cielo creando tutta quella scienza e tutta quella tecnologia che sono tutto il bene e tutto il male della civiltà ma anche l’unica risorsa per non stagnare e morire di sé stessa (come purtroppo sta accadendo).
Amerigo Iannacone è un pensatore ed uno scrittore di tutto rispetto e dalla parte positiva dell’evoluzione: con queste pagine rende il meritato onore al suo predecessore – alla conditio sine qua non del suo modo di esistere. In altre parole, egli, dopo avere attentamente ascoltato dalla viva voce del padre la rappresentazione della di lui vita militare nella Seconda Guerra Mondiale e della di lui prigionia nei lager tedeschi, ed avere accuratamente annotato fatti e date, coglie l’occasione per ripercorrere a volo d’uccello la vita paterna mentre gli fa narrare, a sua volta le di lui vicissitudini belliche, particolarmente perigliose e quasi eroiche dopo l’armistizio con gli Angloamericani e l’inizio delle ostilità con gli ex alleati nazisti. Particolarmente significativa, dal punto di vista biologico, la situazione in cui qualcuno, per fame, avrebbe mangiato una “bistecca umana”: è un episodio ricorrente nelle crisi di fame collettiva, che conferma come lo stato di esasperato bisogno alimentare fa regredire il soggetto al livello primordiale dell’antropofagia. Significativa dal punto di vista politico la strage di giovani innocenti dovuta ad una cannonata dei tedeschi che difesero palmo a palmo una terra, la nostra, che sapevano di avere già perduta.
Queste pagine si leggono d’un fiato non solo perché il vissuto ha un fascino particolare su tutte le persone sensibili ma anche perché la lingua di Amerigo Iannacone è lessicalmente precisa, formalmente forbita, a volte poetica e toccante specie quando rievoca i ricordi infantili, in cui ci ritroviamo un po’ tutti e con nostalgia. E sono sempre i piú belli, emotivamente, non perché si stesse economicamente meglio ma intanto solo perché si era molto piú giovani, per meglio dire agli albori di quest’avventura parabolica, che è l’esistenza.
Il padre del nostro Amerigo era un muratore. Il muratore è un artigiano edile erroneamente accostato al manovale, ma è colui che talora, per precisi dettagli imparati dall’esperienza, ne sa piú dell’ingegnere. Per il figlio è sempre il ceppo da cui è nato secondo una tradizione innocentemente maschilista che pone la madre in un secondo piano pur avendolo portato in grembo per ben nove mesi. Il nostro autore ci ricorda il romantico lume a petrolio (a cui forse si dovrà tornare) e la «fioca luce del crocchiante fuoco del camino» e, da quel poeta che è, intercala anche suoi magnifici versi. «Mi è capitata fra le mani / [...] ancora una testimonianza di te: / il primo capitolo inedito / [...] “Dall’otto settembre al 16 luglio” [...] / sembrava che tempo ce ne fosse. / Ora / che il tuo tempo è finito / ho ancora / un rimorso / in piú».
Salta al 29 settembre 1997, festa di San Michele ed onomastico del padre, che proprio quel giorno scompare per essere trovato caduto in un fossato: spento. Aveva 85 anni. La catena biogenetica si è spezzata ma la vita continua e il figlio, a dieci anni di distanza, compunto per l’involontario ritardo, riprende in punta di piedi la promessa: in queste pagine fa rivivere tutta la vicenda bellica di cui il genitore è stato protagonista e vittima di una patria che burocratiz-za tutto, perfino l’omicidio e la morte.
Se tutti i figli ricordassero degnamente e senza enfasi liturgica ed assolutoria i propri padri (e genitori), saremmo tutti piú buoni e piú onesti e la civiltà procederebbe verso il meglio. È quanto suggerisce questo medaglione a chi sa leggere con partecipazione “Dall’otto settembre al sedici luglio”, gli estremi calendaristici di un tempo forzatamente dedicato alla lotta a nemici convenzionali e sottratto al bene comune.
Davvero bravo Amerigo Iannacone!

Carmelo R. Viola

“Oboe d’amore” - traccia d’amore nella poesia di Amerigo Iannacone, oboista solista.
Amerigo-Orfeo del nostro tempo intona la sua poetica voce per riportare in vita i sentimenti, per ridestare assopite coscienze, per coltivare ciò che di importante contrassegna la nostra umana vicenda.
Ma lui non si volta. Musico va per la propria via. Non guarda indietro neppure una volta perché ha fede nella poesia; ben sapendo che alla poesia, e soltanto a lei, è affidato il compito di riportarci fuori dagli inferi e nuovamente affidarci a madre terra.
E la poesia-Euridice lo segue. Contraddicendo il mito non lo abbandona, perché la poesia non può tradire né punire chi con cuore e corpo dedito e sincero la ama e la serve. Questo lei ci chiede, di amarla e servirla in spirito e materia; trovando in Amerigo Iannacone un instancabile e talvolta solitario condottiero, che lotta per la poetica causa senza curarsi dei clamori e degli onori. Del resto Amerigo docet: la poesia è traccia d’amore, quanto piú invisibile tanto piú indelebile.

Rossella Fusco

Un extraterrestre arriva in una piccola città della terra e vede un incendio. Riesce a capire che sul luogo del disastro sono presenti tre categorie di persone: i pompieri, i proprietari dello stabile andato a fuoco ed i curiosi.
Dopo qualche tempo il nostro extraterrestre si imbatte in un altro incendio e, successivamente, in un altro ed un altro ancora. Osservando attentamente nota che ogni volta i proprietari degli stabili ed i curiosi sono cambiati, e a volte non sono neppure sul luogo, ma i pompieri sono sempre presenti e sono sempre gli stessi. Da ciò deduce: «Ecco, sono i pompieri la causa degli incendi perché, quando ci sono loro, c’è sempre un incendio».

Simile, sostiene Trupiano, è la posizione degli osservatori nella medicina classica: costoro annotano che in quella determinata malattia è sempre presente quel microrganismo e decidono: «Ecco, è lui la causa della malattia». Oppure: se un tumore appare a distanza di alcuni mesi da una prima manifestazione cancerosa, vuol dire che la seconda manifestazione è concatenata con la prima. Vuol dire, insomma, che cellule della prima massa neoplastica sono emigrate in altri distretti dell’organismo dando origine ad una seconda manifestazione e (anche se non esistono studi in cui si possano vedere direttamente le cellule neoplastiche in transito) possiamo considerare “scientifica” l’ipotesi dell’invasione del nuovo distretto e della formazione delle metastasi.
Ma se non accettassimo la teoria classica delle metastasi è evidente che dovremmo considerare le formazioni tumorali successive alla prima come dei nuovi tumori.

Dall’“Introduzione - Psicologia ed oncogenesi: quasi una testimonianza”

Antonio Piromalli è stato una delle piú autorevoli personalità nel panorama del Novecento. Docente universitario, critico, scrittore, giornalista e poeta, ha intessuto una trama di rapporti nel Paese ed all’Estero lasciando un cospicuo numero di pubblicazioni ed un archivio dichiarato particolarmente importante «per la storia letteraria, politica e culturale in Italia». Oltre agli studi di carattere nazionale è stato fautore della letteratura regionalistica cui ha dato notevole rilievo.

Piromalli e la Sicilia è dedicato espressamente, fin dal concepimento del suo progetto, a Lanfranco Piromalli, ma, per le circostanze in cui oggi vede la luce, lo è anche, e idealmente, a Maria onterosso, nel decennale della morte (educatrice, insegnante alla Scuola Elementare “Mario Rapisardi” di Canigattì).

Merito di Antonio Piromalli – pretesto e “volontario”, intrigante complice – è stato quello di aver messo in atto nell’autore un interesse che giaceva in uno stadio potenziale, covato da predilezione, affetto mai celati per la Sicilia tutta, tanto che questi ha già in preparazione inoltrata un altro lavoro su luoghi e intellettuali della “grande” Isola.

C’è in questa nuova bella silloge di Rita Iulianis il canto, che si dispiega e dilata nella cornice del paesaggio, una sorprendente densa carica di pan naturalismo, che s’impiglia, si ispessisce e si esalta, insieme, in un panerotismo assunto come alfa ed omega dell’esistenza, anima e motore di sentimenti, stati d’animo, sensazioni, musica ad esplorazione di cuore e corpo, nella pienezza dell’essere che si sfaccetta nella prismaticità della conoscenza.
Il tutto in una orgogliosa (ri)affermazione della libertà (vale la pena ripeterlo), che è, insieme, fonte di vita e di poesia.
«E ti sei fatto volo / a ossigeno della mia asfissia / a nutrimento della mia follia… / e volo e dono sei / per l’anima a scrigno / severo di Libertà».

Giuseppe Liuccio

Poemetto di 28 brevi testi, con traduzione in greco di Keti Maraka.
L’autore, Renzo Cremona, è nato a Chioggia (VE) nel 1971. Ha studiato lingua e letteratura cinese, portoghese e neogreca presso l’Università di Venezia e svolge attività di consulente linguistico. Ha al suo attivo traduzioni dal cinese mandarino, dal mancese classico, dall’afrikaans, dal portoghese e dal neogreco.
Tra le sue opere: Foreste Sensoriali (1993), Lettere dal Mattatoio (2002, Premio Speciale della Giuria alla XI Ed. del Premio Internazionale Nuove Lettere, NA; 1° alla XXI Ed. del Premio Campagnola, PD; 2° alla V Ed. del Premio Emma Piantanida, MI), La Pergamena delle Mutazioni (2002, 1° alla III Ed. del Premio Anna Osti, Costa di Rovigo, RO; 3° al VI Concorso Guido Gozzano in Terzo, AL), Cronache dal centro della notte (2004, 1° all’VIII Ed. del Premio Mondolibro, Roma; 2° alla XXII Ed. del Premio Città Cava de’ Tirreni, SA), Tutti senza nome (2006, Premio della Giuria al Concorso Internazionale Città di Salò 2007, BS).

Sito dell'autore www.renzocremona.it

Viviamo in un’epoca in cui l’arrivismo, l’egoismo, l’edonismo ad ogni costo, la scalata sociale, l’esibizionismo, il benessere materiale, la vanità, l’ostentazione, vengono ai primi posti nelle scelte di vita. Mentre vengono trascurati – se non derisi – i buoni sentimenti, la solidarietà sociale, l’altruismo, il rispetto dell’altro e il rispetto delle regole. Ci troviamo a vivere, nostro malgrado, in una società che non ci piace, a dispetto delle convinzioni Leibniz che sosteneva che quello in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili.
In particolare negli ultimi venti-trent’anni, mentre la tecnologia conosceva un progresso inimmaginabile, nei rapporti umani, nelle relazioni tra uomo e uomo, nell’educazione, nel rispetto dell’altro e delle regole si verificava un regresso. In una parola, c’è stato negli ultimi decenni un progressivo degrado morale e sociale.
Ogni giorno i telegiornali ci portano in casa notizie raccapriccianti (e – anche questo è cosa grave – ci siamo assuefatti e non proviamo piú l’indignazione che dovremmo provare) di figli che ammazzano i genitori, di mamme che buttano i neonati nella spazzatura, di alunni che picchiano i professori, di violenze sui bambini.
La televisione è diventata una scuola di violenza e di cattivo gusto, ma anche se guardiamo le copertine dei rotocalchi esposti nelle edicole, anche di quelli piú seri, possiamo vedere immagini e leggere titoli sempre relativi a inutili personaggi dello spettacolo o a come scolpire il proprio corpo, dove andare in vacanza, come comprare, dove spendere. Ci danno esempi su come avere successo, come arrivare, come avere “visibilità”, eccetera. Mai troviamo qualcosa che va al di là degli interessi strettamente materiali. E gli esempi che ci vengono dati dall’alto, non sono mai edificanti. Non ricordo chi disse che solo i cretini non cambiano mai idea. E forse sarebbe anche giusto se non fosse che questo è diventato un alibi per coloro che usano saltare di qua e di là nelle varie formazioni politiche, a seconda di come tira il vento degli interessi. Un politico delle mie parti arrivava a vantarsi, come si trattasse di un esempio encomiabile, di aver attraversato tutti i partiti dall’estrema destra all’estrema sinistra. Certo, è legittimo cambiare idea, ma – guarda caso – si cambia sempre idea a seconda del proprio interesse e la nuova idea è sempre quella che si trova dalla parte del potere. Dove si mangia, dove ci si ingrassa, dove si arraffa, là vanno le idee.
In questo testo, Giacomo Pontillo, ci parla di questo fenomeno di involuzione sociale e morale che si è verificato in Italia nella seconda metà del Novecento e in particolare negli ultimi due-tre decenni, ne analizza le cause, e si chiede quale sia la via d’uscita. E la via d’uscita non può che essere quella «di riesumare una morigeratezza smarrita, per continuare a vivere almeno con maggiore serenità, limitando le palesi discrasie comportamentali che racchiudono in sé le insidie di un’emancipazione forzata». E mi pare che non si possa che essere d’accordo, anche se – certo – è dura e, prevedibilmente, i tempi non sono brevi. Ma perché questo possa accadere o, almeno, perché si possa sperare in un’inversione di tendenza (e dovrebbe essere un’inversione a U), è necessario prenderne coscienza e, soprattutto, farne prendere coscienza alle nuove generazioni, che in questo tipo di società stanno crescendo. In questa direzione va il libro di Giacomo Pontillo. Ed è per questo che va letto e va fatto leggere.

Dalla Prefazione di Amerigo Iannacone

Uno psicologo vero studia. Lo fa perché il settore di cui si occupa è variegato e complesso, costretto tra i principi e i cambiamenti di scienze diversissime tra loro come la biologia e gli studi antropologici, la chimica e la sociologia, la medicina e il pensiero filosofico. E studia per poter fare: la psicologia è comprendere per potere intervenire e per poter esistere, e non c’è una scienza psicologica che possa prescindere da chi la usa.
Gianni Tadolini è psicologo vero e come tale studia gli aspetti che le varie epoche che stiamo attraversando e i cambiamenti che esse portano nelle conoscenze mediche, biologiche, filosofiche e delle scienze umane, ci propongono via via. Li studia per capirli, li studia per trasmetterli ai tanti allievi che lo accompagnano nel suo cammino di ricerca e di pratica operativa. Studia anche le molecole, i recettori, i protocolli sperimentali, e in questo testo ce li propone con la semplicità che sempre accompagna chi sa che la ricerca è un processo dinamico che mai può offrire certezze senza aprire dubbi in egual quantità. E con l’umile pazienza di chi sa bene che proporre un risultato o un dubbio è prima di tutto aprirsi alle domande che un lettore, prima o poi, verrà a porci.
Perché uno psicologo vero ascolta. Ascolta gli anni che attraversa durante la sua vita e i maestri che incontra, facendosene figlio, come Gianni con Basaglia e Minguzzi. E ascolta soprattutto i suoi pazienti, attento a non cadere nei tranelli delle mode e delle finte certezze. Gianni Tadolini è psicologo vero e come tale ascolta, col desiderio di apprendere dell’assetato che si china alla fonte. E tutti noi, giovani o ormai vecchietti, invece di consegnarci alla vis sindromica dei DSM, ascoltando soltanto ciò che rientra nei piccoli stereotipati schemi con cui le statistiche ci misurano nell’illusione eterna di una sicurezza scientifica che in psicologia mai c’è stata e mai ci sarà, dovremmo trarne il messaggio che anche questo, come ogni suo scritto, ci manda: di stare a orecchie aperte.
Cosí, mentre studia ed ascolta, uno psicologo vero rielabora e critica. Perché il nostro è un mestiere che mai prescinde dal passato e dal dubbio sul presente e che, anche quando delle illusioni coglie la verità interiore ed intima, mai le trasforma in dettato scientifico o in norma di esistenza. E Gianni, che è psicologo vero, critica eccome, anche quando si ritrova come qui a parlare di farmaci in un’epoca nella quale l’illusione dell’onnipotenza delle molecole accompagna da vicino l’operare degli psicologi e degli psichiatri. Quella illusione che non è contemporanea, ma anzi vecchia, vecchissima, perché è quella dell’eterna giovinezza, modificatasi solo per questa chimica contrapposizione a Lorenzo de’ Medici che oggi ci urla, da ogni dove, «del doman vi sia certezza!». Un’illusione su cui spingono la moda e l’industria commerciale, come Gianni fa emergere con acuta attenzione, e a cui collabora la medicina, non quella che studia ascolta e critica, ma quella di moderni cerusici per nulla dissimili dai loro antenati professionisti di salassi e di latinorum: chirurgie di ogni tipo, allungamenti d’ossa e di scheletri, trapianti, reimpianti… e pillole, pillole della felicità. Come se l’anima ormai potesse essere definita sulla base della sua capacità di rispondere ad una sostanza chimica piuttosto che sforzarsi di capirne i contorni e i contenuti. C’è sempre di piú l’impressione che i farmaci antidepressivi siano considerati tali se funzionano nelle situazioni di ansia e di depressione, la quale peraltro è definita come un insieme variegato di realtà che hanno in comune la risposta positiva ai farmaci antidepressivi. Come se si dicesse che gli analgesici sono farmaci in grado di cancellare il dolore, il quale, peraltro, è definito come l’insieme delle situazioni che scompaiono con gli analgesici… È per questo che oggi piú che mai uno psicologo vero deve studiare e ascoltare per poter criticare. E questo breve manuale, come ogni libro di Gianni Tadolini, ne è un esempio costante in ogni pagina e in ogni pensiero.
Perché, infine, uno psicologo vero scrive. Egli è soprattutto un descrittore, e come tale deve sapere esprimere e non soltanto capire quello che vede e che ascolta, deve raccogliere ogni storia e scriverla a due mani col paziente. Ogni filo narrativo, ognuna delle trame dei racconti che lo psicologo crea, lo aiuta a riprodurre e a rendere cosí meno doloroso il senso di una vita interiore ferita e ignota. Per questo Gianni, che è psicologo vero, scrive. Sia quando ci racconta delle potenti suggestioni delle religioni di cui tanto ha studiato, sia quando, come qui, trasmette ai suoi studenti le certezze e i dubbi di una farmacologia che seppure ci domini dall’alto dei suoi immensi poteri operativi deve comunque rimanere “minima”, e come tale criticabile.
Perché nell’epoca in cui la comunicazione rapida, immediata, trionfa e vince, la moda non può essere che quella di cortocircuitare ogni problema. E se si può guarire da una depressione con una semplice pillola, perché mai non si dovrebbe far altrettanto con i batticuore e con i sentimenti, appena provino a diventar fastidiosi? Ed ecco allora le pillole del sesso, quelle della felicità e quelle contro la timidezza: perché è una grande liberazione poter pensare di delegare a una compressa, a qualcosa di esterno e di semplice, la risoluzione dei problemi piú spinosi della nostra vita.
«Stiamo tornando indietro?», si chiede Gianni concludendo il suo libro. Credo di no, vorrei dirgli, perché il tentativo dell’uomo di trasformare in scelte culturalmente ineccepibili le sue sconfitte rispetto a se stesso, alla sua infanzia, alla sua vecchiaia, alla sua vita, ci sono sempre stati e sempre ci saranno. E perché uno psicologo vero ha da sempre il destino di doversi legare ai momenti culturali, sociali e storici in cui vive e lavora. Stiamo semplicemente continuando il viaggio; e se sarà in avanti e non indietro dipenderà dalla nostra tenacia nel continuare a studiare, ad ascoltare, a criticare e a scrivere.

Dalla prefazione di Marco Mazzoli

  • Titolo
  • La passeggiata
  • Autore
  • Antonio Vanni
  • Collana
  • Perseidi
  • Anno
  • 2007
  • Pagine
  • 68
  • Prezzo
  • € 8,00

È una prosa quella presentata da Antonio Vanni nei brevi racconti della raccolta La Passeggiata, lieve, levigata con intermezzi poetici che rivelano un animo estremamente sensibile che, nel suo insieme, lascia intravedere un temperamento ansioso.
Non sono eventi tipici del racconto realistico ma un pretesto per un “viaggio” dentro di sé, alla ricerca, tramite l’immaginazione e l’affabulazione oniriche, di una condizione “originaria”, quasi, detta à la Husserl, precategoriale, prima, cioè, in poche parole, delle forme logico-intellettuali dell’Intelletto inteso come “insieme” di forme scientifiche.
Lo sappiamo che i filosofi del Sei/Settecento (da Hobbes a Rousseau) cercavano quell’immaginifico “stato di Natura” quale postulato, o astrazione pura o convenzione ancora, per le loro teorie sullo Stato, sulla Libertà dell’Individuo e sulla Sua Natura, pur non credendo affatto che esso fosse buono o cattivo “per natura”, per condizione dell’essere esistenziale. Solo postulati, quindi, per rendere o giustificare le varie teorie politiche che andavano delineando intorno alla società umana e alle sue istituzioni. Colgo l’occasione qui, per rivalutare la teoria hobbesiana, anche se Hobbes dai piú non è molto amato, teoria tralasciata anche e poco studiata, che anticipa e di molti secoli una profonda analisi esistenziale ma, come detto, non è il luogo questo per parlarne in modo adeguato.
Se per i filosofi succitati «l’originarietà» era pura astrazione, repetita juvant, in Vanni la sua ricerca sembra acquisire un senso forte, reale, veramente esistente o esistita. E tutto sembra, in questi racconti brevi, romanticamente o con sensibilità romantica, meglio ancora, ruotare attorno a tale presupposto.
Diventa il “narrare” di Vanni quindi una mitizzazione di uno stato buono e puro, innocente dell’uomo onde la chiave per com-prendere tali racconti nella sua pienezza.
L’atmosfera dominante è quella della rêverie, del sogno ad occhi aperti quasi per recuperare una dimensione piú umana del vivere, dell’«ek-sistere» tanto duro quanto alienante che caratterizza l’uomo d’oggi, espropriato di sé, alienato dei suoi valori fondanti che non sono quelli propinatici da un turbo-capitalismo “hi-technologico”. Questo sorpassa, cela le esigenze sentite dell’uomo, lo disumanizza tramite falsi bisogni e propinandogli false mete: lo aliena o cerca di farlo e sembra che in tale operazione ci riesca e anche troppo bene, purtroppo.
Donde il bisogno di sognare, di recuperare la dimensione dell’Umanità in quanto tale che avvertiamo nell’opera breve dell’Autore molisano anche se sovente, nonostante lo spirito “catartico”, mi pare, pecchi di una certa ingenuità (ma ogni poeta è ingenuo). Comunque tot capita, tot sententiae, e poi non è detto che un’opera raggiunga la perfezione – e ci tengo a riaffermarlo – che una critica non è per nulla un’esegesi. Proprio perché si tratta di una critica, di un giudizio, letteralmente, etimologicamente, questo mio breve appunto non vuole né tende a tessere elogi ma piú modestamente ed onestamente a capire ciò che l’Autore ha creduto o crede di dire, di esprimere. È al lettore che spetta l’ultima parola. Il critico ha il compito, lui pertinente, di indirizzarlo su linee direttrici. Non può far altro, pena l’esproprio del pensiero dell’autore e proporre la sua visione in modo violento, anche se raffinatamente celato, all’eventuale lettore. Tale operazione sinceramente è contraria ai miei principî deontologici.

Enrico Marco Cipollini