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  • Autore
  • Raimondo Colardo
  • Titolo
  • Deserto sulla terra
  • Pagine
  • 96
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 12,00


Deserto sulla terra

Natura morta: rami secchi,
foglie ingiallite, terre aride
fiori appassiti.
Foreste che bruciano,
fiamme avvolgenti
si elevano in alto
tra fumi e frammenti.
Su ceneri bollenti
faccio i miei passi
e il preludio
del cammino mortale
si appresta.
Morti viventi
che vagano nell’ombra
fra le polveri del deserto
in cerca di quel poco che
ancor ci resta.
Non si vedrà piú l’ape
volar di fiore in fiore
né ci riscalda il sole
né luce piú si vedrà
Tombe senza nomi
morti senza croci
campane senza rintocchi.
Ma tutto questo
all’uomo non riguarda
perché non vede,
non sente... non guarda!

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • Manuale di esperanto
  • Pagine
  • 170
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 15,00
  • Isbn
  • 978-88-88030-82-1


Introduzione

L’esperanto è una lingua soprannazionale, patrimonio di tutta l’umanità, che si prefigge lo scopo di diventare la seconda lingua di tutti, da utilizzare preminentemente nei rapporti internazionali, in modo da eliminare i problemi derivanti dalle barriere linguistiche.
Ideato nel 1887 da Ludwik Lejzer Zamenhof, l’esperanto, secondo le parole dello stesso iniziatore, «non ha nessun legiferatore e non dipende da nessuna persona in particolare» ed «esperantista è chiamato chiunque conosce e usa la lingua esperanto indipendentemente dallo scopo per cui la usa».
Zamenhof nacque nel 1859 a Bialystok, in Lituania, regione della vecchia repubblica polacca che l’impero russo si era annessa, e morí a Varsavia nel 1917. A Bialystok in quel periodo convivevano — e non sempre pacificamente — diverse etnie, con diverse lingue, e fin da bambino Zamenhof si trovò ad osservare le difficoltà e i problemi dell’incomprensione linguistica.
Dopo un primo tentativo di creare una lingua internazionale in età adolescenziale, progetto andato a monte perché il padre gli distrusse gli appunti temendo che lo distraessero dagli studi, nel 1887 Zamenhof pubblicò la prima grammatica di esperanto, un libretto di 40 pagine in lingua russa, firmandosi con lo pseudonimo di Doktoro Esperanto, Il Dottore che spera, (Zamenhof era oculista). Il volumetto ebbe subito un’eco notevole in tutto il mondo e nel corso dello stesso anno furono pubblicate anche le versioni in polacco, in francese, in tedesco e in esperanto. Quello che era lo pseudonimo dell’autore, fu ben presto adottato per indicare la stessa lingua.
L’esperanto iniziò rapidamente a diffondersi, nacquero associazioni esperantiste in tutta Europa, cominciarono a uscire periodici in esperanto. La nuova lingua cominciava anche ad avere l’avallo di personalità illustri. Uno dei primi ad accettarla fu Lev Tolstoj. Nel 1889, rispondendo a V. Majnov, il grande scrittore russo scriveva: «Io ritengo l’apprendimento di una lingua europea comune (vale a dire la lingua internazionale esperanto) cosa assolutamente urgente [...]. Per quel che mi è possibile, io cercherò di diffondere questa lingua e, la cosa piú importante, cercherò di convincere tutti della sua necessità». Tostoj fu anche collaboratore del periodico La Esperantisto (L’esperantista), organo del nascente movimento esperantista pubblicato a Norimberga, organo che fu chiuso dalla censura zarista proprio in seguito alla pubblicazione dell’articolo di Tolstoj “Saggezza o fede?”.
Nel 1905, ebbe luogo in Francia, a Boulogne-sur-Mer, il primo congresso universale di esperanto, cui parteciparono 668 congressisti, provenienti da tutta Europa. Grande fu l’entusiasmo e il successo e da allora annualmente, eccetto qualche anno nei periodi bellici, si sono succeduti i congressi universali in città di volta in volta diverse. Ai congressi universali si andavano aggiungendo congressi nazionali, congressi settoriali, convegni, ecc. Sono nate riviste e trasmissioni radio quotidiane, ed è nata una vasta letteratura originale, oltre che tradotta.
L’esperanto è una lingua molto facile sia dal punto di vista fonetico sia dal punto di vista grammaticale. La grammatica, rigorosamente razionale, si articola in poche regole e senza alcuna eccezione. Il vocabolario è formato da radici provenienti da varie lingue, per la maggior parte dal latino e da lingue del ceppo indoeuropeo, prevalentemente con l’accoglimento, per ogni parola, della radice di maggiore facilità fonetica e maggiormente diffusa a livello internazionale.
Oggi l’esperanto ha una considerevole diffusione nei cinque continenti, nonostante il discorso esperantista sia portato avanti generalmente da appassionati e da studiosi, senza interessi né economici né di altro genere, ma solo dalla volontà di risolvere il problema della comunicazione internazionale.
Esiste un’organizzazione esperantista a livello mondiale, (la UEA, Universala Esperanto-Asocio, Associazione Esperantista Universale), la cui sede centrale è attualmente in Olanda, a Rotterdam, cui fanno capo oltre 50 associazioni nazionali. Quella italiana è la FEI, Federazione Esperantista Italiana, è ente morale e ha sede a Milano. Ma molte altre associazioni e istituzioni esistono nel mondo, a volte collegate tra loro, a volte indipendenti. Esiste inoltre una rete di delegati dell’UEA diffusi in piú di una cinquantina di paesi. Ci sono circoli esperantisti dislocati qua e là ed esistono associazioni esperantiste di categoria (scienziati, insegnanti, ferrovieri, medici, non vedenti, giovani, cattolici, mormoni, ecologisti, ecc.).
Di notevole rilievo è la letteratura originale in esperanto, dove si possono trovare opere di saggistica, narrativa, poesia, manualistica, ecc. Non pochi sono gli scrittori e poeti di grande talento che usano l’esperanto per le loro opere originali. Il primo fu lo stesso Zamenhof, che ha lasciato un’ampia messe di opere. Ci sono poi, come si può intuire, migliaia di opere tradotte da tutte le lingue, che danno la possibilità di avvicinarsi alle letterature di tutto il mondo, pur non conoscendo le lingue in cui sono state scritte le opere. Molte sono le riviste che si pubblicano un po’ dappertutto, dal semplice notiziario alla rivista scientifica, dal periodico di informazione a quello letterario. Inoltre parecchie emittenti radiofoniche (Varsavia, Pechino, Vienna, Roma, Berna, Città del Vaticano, Radio Radicale, ecc.) trasmettono regolarmente programmi in esperanto e, da ultimo, su Internet è possibile trovare un po’ di tutto, dai corsi di lingua gratuiti, ai servizi librari, dall’organizzazione alla storia del movimento esperantista.

  • Autore
  • Laura Schioppa
  • Titolo
  • Fragmenta
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 88
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 8,00


Una giovinezza da vivere insieme

ERANO I CAPEI d’oro a l’aura sparsi...
Citare Petrarca, quando si ha a che fare con la poesia di una donna che si chiama Laura, potrebbe addirittura sembrare ov-vio, forse banale... Ma (a parte la sugge-stione dei capelli biondi) il pensiero corre spontaneo a quei versi, a quelle parole, a quell’angelico seno e alle chiare fresche acque, dopo aver letto le poesie di Laura Schioppa... e desidera, il pensiero, confermarsi nell’idea che una poesia giovane ma attenta, personale ma leggibile, una poesia di oggi che non abbia dimenticato come si scrive, sia ancora possibile – e benvenuta.
Benvenuta, quindi, la poesia di questo piccolo libro, il terzo nella nuova serie della “stanza”, e ancora di una poetessa molisana, dopo Antonella Sozio.
È ancora giovane, troppo giovane, la nostra Laura, per volersi frammentare – come allude il titolo di questo suo (secon-do) libro – e donarsi a chi abbia non sol-tanto le orecchie per intendere, ma l’animo ben disposto a condividere. Detto che non è all’esordio, va pur detto – perché non sempre accade – che Laura sta lavorando con passione su di sé e sulle sue qualità espressive: anche questo le fa onore, nell’a-rengo difficile ove è scesa a misurarsi. Forse qualcosa ancora va regi-strata, ma si può essere certi, conoscendone ormai la volontà e l’onestà nel proporsi, che presto si avranno altri frutti da questa sua passione che cresce e matura.
Dall’incipit di «Viviamo di incertezze / e paure» si arriva facilmente ad afferma-zioni apodittiche, come «È un soffio la felicità»... Qui si può seguire un itinerario, scandito del resto nelle tre sezioni del libro (e la seconda è a due voci, a rafforzare l’idea di un darsi e l’attesa di una risposta per darsi ancora), un percorso che porta a conoscere, mentre l’autrice stessa si conosce.
Ed è lei stessa che dice, presentandosi:
La poesia è fatta così, è indomabile.
Del mio essere, sono tre gli elementi e la mia fine, in senso di violazione a cui ogni resistenza è vana al possesso; mi posseggono quando la vita punge con la sua dolcezza, forza, dolore:
Natura, madre-mondo, indole prepo-tente [natura cioè nel senso più ampio del suo essere: natura concreta che mi contorna, natura umana di chi mi circonda, e natura personale che mi controlla].
Amore, custode impietoso.
Mare, mio segreto amante.
In questi tre elementi è dunque l’unione della mia fine che in me è principio: tre “FRAGMENTA” di me.

Lasciamoci sedurre: Laura non ci porta dove non sappiamo, ma è stimolante an-darci con lei, con la sua serenità (mal-grado non manchino qui i momenti di aspra riflessione sui mali del mondo e sulla cattiveria dell’uomo). Lasciamoci prendere dal gioco sottile delle sue suggestioni, anche se è chiaro che si tratta di sogni destinati all’alba veritiera...
Con Laura ci ritroviamo a leggere le pagine di formazione di un cuore (e di una mente, certo, la mente ha la sua parte portante, qui) e ce ne facciamo testimoni a tutela di una serietà che convince e coinvolge: la giovane autrice di questo libro, nel frammentarsi per noi, poca voglia ha di scherzare, mettendoci anzi in gioco insieme a lei alla scoperta di un tutto che ci appartiene.

Giuseppe Napolitano

  • Autore
  • Isabella Michela Affinito
  • Titolo
  • Viaggio interiore
  • Pagine
  • 112
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 12,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-39-6


Isabella Michela Affinito è una donna che segnala dimestichezza coi segni zodiacali e crede (ci credeva anche Dante) nell’influenza degli astri sulle umane inclinazioni. Per quel che riguarda lei, ritiene di subire – ma in positivo – l’ascendenza della luna che caratterialmente la connota. E intanto mostra di vivere uno stato permanente di tensioni interiori.
Avendo contattato nel corso degli studi l’Arte della Grecia antica, ne ha metabolizzato messaggi e forme, che per un certo tratto della sua esistenza, coniugandoli con approcci di artisti più vicini ai tempi nostri (vedi, per dirne uno, Vincent Van Gogh), ha scelto di affidare – nella rappresentazione – alla Pittura. Ma siccome quello della Pittura, pur essendo nobilissimo, è messaggio muto, nel senso che nonostante l’uso, il migliore possibile, dei suoi elementi costitutivi: colori, giochi di luci e di ombre, senso prospettico, profondità etc., non può esplicitare percorsi ragionati della memoria, né dubbi, né ripensamenti, né confessioni, né prospettive, l’autrice ha sentito il bisogno di supportarlo con la parola scritta. E non poteva – la parola – non comprendere anche il verso. Di qui nascono le numerose raccolte venute alla luce nel corso degli anni testimoniando una fecondità creativa che ha pochi eguali nella “nebulosa” dei tantissimi odierni corteggiatori delle “vergini muse”.
Dell’ultima (per ora) silloge della Affinito, già il titolo – Viaggio interiore – fa riferimento a un itinerario dell’Anima tutt’ora in corso, consolidando così l’idea che è la vita, di per sé, un viaggio nel gran mare del mistero (Gran mistero è la vita e nol conosce che l’ora estrema aveva fatto dire ad Adelchi tal Manzoni poco men che un paio di secoli or sono). Naturalmente quando il verso si costituisce di tal genere di problematiche, distanti anni luce da quelle della poesia – per così dire – civile (o sociale, se si preferisce), non può che esibire sostanza e contorni sfumati, entrambi rimessi a un lessico che predilige l’area semantica dell’astratto, dell’aeriforme, dell’enigmatico (non a caso una lirica reca a titolo Sibilla interiore) e a strutturazioni sintagmatiche parimenti riluttanti alla concretezza del reale oggettivo.
Si avverte nel corso della lettura l’incontenibile urgenza dell’Autrice di partecipare agli altri le profondità impervie della sua complessa psiche. Il che senza mezzi termini dichiara lei stessa nel preambolo in prosa che precede le liriche, scritto non per tessere l’elogio del diario (che da qualche tempo quotidianamente redige), e spiegarne l’utilità, ma anche con evidente intento esplicativo delle motivazioni esistenziali a monte della presente sua produzione in versi, già intuibile peraltro nella “Prefazione dell’Autrice”. Il tutto ribadito poi in chiusura in una intervista e in una “autopresentazione”.
Ci appare – dunque – Isabella Michela Affinito una intellettuale che dopo aver consumato in sé una serie di interessanti esperienze di vita, di indagini speculative, dopo essersi interrogata sui temi che ab aeterno si propongono in quegli spiriti ipersensibili sintonizzati su lunghezze d’onda non captate dalla massa, avvertono prepotente il bisogno di dire, ben sapendo che quanto custodito all’interno delle proprie coscienze, trasmesso agli altri può divenire veicolo di maturazione umana e di crescita culturale.
La veste formale delle liriche prescinde da moduli della tradizione per procedere alla libera, inseguendo un proprio pentagramma, che di volta in volta si adegua al mutar dello status interiore e alla materia trattata.

Aldo Cervo

  • Titolo
  • Frammenti di speranza
  • Autrici
  • Carmen Buono, Chiara Franchitti
  • Collana
  • Il nastro e la penna di una voce
  • Pagine
  • 112
  • Prezzo
  • € 12,00

Per comprendere il titolo – Il nastro e la penna di una voce – della collana che questo libro apre, bisogne-rebbe conoscere le due giovani che la curano, Carmen Buono e Chiara Franchitti, il “nastro” appunto e la “penna” di una “voce”, la voce di don Salvatore Rinaldi, portavoce di Voce piú alta. Tra i molti talenti di don Salvatore, personaggio ben noto nella sua città e nella sua provincia, c’è quello di avere la capacità di esprimere concetti elevati par-lando a braccio. Capacità di parlare – si diceva una volta – come un libro stampato. Ogni domenica don Salvatore celebra piú di una Messa e tiene piú di un’omelia, sempre a braccio, e tutte sono originali, tutte sono autentiche, tutte di grande interesse. E adatta, don Salvatore, il suo modo di parlare al pub-blico dei fedeli che ha davanti, con una lingua eleva-ta o addirittura aulica oppure con un linguaggio basso, magari inframmettendo parole o espressioni dialettali. Non si ripete, non è mai monotono, mai banale.
Partecipando alla Messa, Carmen, il “nastro”, re-gistra, Chiara, la “penna”, trascrive, le omelie di don Salvatore. Un lavoro prezioso, perché salvano dall’o-blio e consegnano alla carta stampata testi di grande interesse, che diversamente andrebbero perduti. E sono infatti proprio di grande interesse – e il lettore se ne renderà conto leggendo il libro – le omelie di don Salvatore; lo sono sia per la sua notevole prepa-razione culturale e teologica (ricordiamo che è stato per anni il chierichetto di Paolo VI), sia per le sue in-nate doti di intelligenza e anche di creatività.
È ovvio che quello del “nastro” e della “penna” è un lavoro non sempre facile, perché l’efficacia di un testo orale è legato anche all’espressività, al tono della voce, al ritmo, alla mimica ed ad altri elementi non riproducibili con la scrittura, e poi il pubblico della carta stampata è un pubblico diverso da quello che partecipa una mattina a una funzione religiosa. E quindi nel riportare per iscritto un testo che era orale e fatto a braccio c’è bisogno di un lavoro di editing e talvolta di adattamento e comunque senza mai inter-venire nei concetti e senza alterare né il contenuto, né lo spirito del testo. Un lavoro che le due giovani hanno fatto in modo eccellente pur senza mai sosti-tuirsi o sovrapporsi a don Salvatore. Di don Salvato-re infatti sono tutti i testi, anche se talvolta, leggendo delle bellissime espressioni, viene da domandarsi «possibile che abbia espresso a braccio un concetto cosí elevato e in modo cosí appropriato, con parole tanto belle?». Sí, don Salvatore ha queste capacità: sono delle doti innate, sia pure affinate da cultura e da studio.
Probabilmente c’è da rammaricarsi solo per il fatto che, per ovvi motivi, il “nastro” e la “penna” non riescono a partecipare a tutte le Messe e a registrare tutte le omelie. E d’altra parte don Salvatore non è tipo da considerare preziose le proprie parole, che in realtà quasi sempre lo sono, e quindi non si scrive mai in prima persona i testi.
Questo volume intende aprire una serie di pubblicazioni, nella collana che porta appunto il nome di Il nastro e la penna di una voce, ognuna delle quali avrà un proprio titolo e sarà legata a un periodo dell’anno liturgico. Si parte con Il tempo di Pasqua (2013-2014), seguiranno altri raggruppamenti di omelie che potranno essere sul Natale, sulla Quaresima, su Pasqua 2015, e cosí via.
Questo è quanto si ripromettono Carmen Buono e Chiara Franchitti, perché, come dicevano i nostri avi, verba volant ma scripta manent.

Amerigo Iannacone

  • Titolo
  • Frequentazioni letterarie 2
  • Autore
  • Aldo Cervo
  • Collana
  • Il Cormorano
  • Pagine
  • 424
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 22,00

L’Olivo di Venafro

Quando gli amici Ida e Tobia, infaticabili propulsori di cultura di questo sempre piú fervoroso Molise, mi comunicarono di avermi motu proprio inserito tra i relatori nel convegno sull’Olivo venafrano, ne fui ben lieto per la portata – per cosí dire – estimativa che quell’inserimento recava implicita, e anche per il fatto che l’olivo ha svolto un ruolo importante, forse non meno degli stessi studi, nella formazione del mio carattere, del mio corredo creativo, della mia sensibilità.
Avevo sei anni quando in un locale adiacente alla mia casa, fatto costruire da mia madre cogli utili di modestissime proprietà terriere e tirando, al mercato del mercoledí, sui costi dell’ortofrutta coi fruttivendoli di Limatola e di Alife, fu istallato un frantoio. In quel frantoio (che dalla lettura del libro di Ferdinando Alterio ho finalmente imparato in che differisce dal trappeto) fui per poco meno di mezzo secolo a contatto con il fascinoso ultimo scampolo di civiltà contadina, che di lí a poco sarebbe stata travolta dall’irruzione, anche nelle nostre campagne, della modernità.
Di quella civiltà contadina, non tanto l’empirica saggezza, ma la proverbiale arguzia, l’impertinente ma schietta mordacità lessicale divennero per sempre parte integrante dalla mia formazione umana e culturale.
Venendo al tema, credo che con L’Olivo di Venafro la Volturnia Edizioni segni un’altra delle prestigiose tappe, che da alcuni anni va conseguendo nel campo dell’editoria.
Il volume, che è presentato da Emilio Pesino, presidente del Parco Regionale Storico Agricolo dell’Olivo di Venafro, e reca la prefazione di Franco Valente, tra i piú attrezzati e combattivi studiosi del Territorio, è introdotto dallo stesso autore con una pagina sulla “nobiltà” dell’albero dell’ulivo, sacro alla dea Atena, ma assunto dalla nostra religione a simbolo di pace, in gara – aggiungo – con l’alloro, la fronda peneia, alla cui prosopopea vanagloriosa contrappone il candore di una disarmante umiltà.
Dopo un excursus storico-letterario sull’Olivo nei Paesi del Mediterraneo, il volume passa a cogliere le svariate correlazioni che l’Olivo ha avuto con la mitologia, per andarlo poi a ritrovare nei Poemi omerici e, a seguire, nella produzione letteraria latina.
Trattato poi il tema delle proprietà cosmetiche e curative dell’un-zione con l’olio d’oliva, il testo procede con la descrizione dei vari tipi di olio in Roma antica; poi punta – ma per solo un paio di capitoli – l’obiettivo su Venafro, con l’indagine su quelle che furono un tempo le qualità dell’olio venafrano e il reperimento di citazioni dell’olio medesimo in scrittori latini.
Qui, non ancora soddisfatto dell’ampio percorso compiuto, ed anche per un atto di deferenza verso il Signore Iddio, l’autore, col puntiglio del ricercatore che lo contraddistingue, se ne va a indagare l’Olivo, e l’olio nelle connessioni metaforiche e allegoriche con le Sacre Scritture. Intendo Vecchio e Nuovo Testamento.
Viene poi, nel testo, la volta dei sistemi di lavorazione e di spremitura delle olive, a partire da trascorse epoche, e si descrivono i vari tipi di macine e di presse, iniziando da quelle con vite in legno. Seguono pagine dedicate al paesaggio olivicolo di Venafro nelle descrizioni di viaggiatori d’ogni tempo, dove si riferisce anche della leggenda di San Francesco d’Assisi che, di passaggio per Venafro in una notte di neve, si sarebbe riparato sotto a un ulivo miracolosamente risparmiato dalla bufera.
A seguire, dopo un cenno a Cultori e Studiosi dell’olio, si parla dell’olivo cosiddetto “gaetano”, che fiorirebbe e darebbe frutto due volte l’anno, presente nel non lontano agro di Ciorlano. E si parla anche del discusso “ulivo maschio”, sulla cui esistenza non s’è tutti d’accordo.
Il lavoro dell’Alterio si avvia infine a conclusione con pagine di confronto tra olivo di Venafro e olivo della Provenza, e pagine rievocative di Giovanni Presta, medico pugliese del Salento, vissuto tra il 1720 e il 1797, studioso di olivicoltura, e di Niccola Pilla, che per primo stilò una classifica delle varietà delle olive di Venafro.
Ultimo capitolo è quello riservato agli scrittori locali che si occu-parono dell’olivo e dell’olio, dove s’impone per potenza suggestiva la visione descritta da Benedetto e Giovanni Antonio Monachetti di una Venafro simile a un uccello (io avrei detto aquila) di cui gli oliveti che risalgono le pendici dell’incombente montagna sono le aperte ali.
Qui la prosa, già ben supportata finora da immagini, cede il passo alla documentazione fotografica. Si inizia con ulivi ripresi nella vetustà sacrale dei poderosi tronchi, taluni dei quali rassomigliabili – nelle contorte, sofferenti innervature – al gruppo del Laocoonte, o piú semplicemente al busto ossuto e muscoloso del vecchio contadino forgiato dalla fatica.

Favole di contorsioni,
di dolore silente, di atavica nobiltà,
tronchi di nodi secolari
tra le pietre antiche del Sannio
...

ha scritto, nel suo tipico stile tirato e sofferto, Ida Di Ianni sulla prima delle arboree rappresentazioni.
Seguono poi immagini di centri abitati sommersi nell’abbraccio verde argenteo di rigogliosi uliveti; poi ancora di utensili per la raccolta, la defoliazione, la macinazione e la spremitura delle olive, e la conservazione dell’olio.
Infine alcune misure dell’olio.
Sulla macinazione e la spremitura delle olive, e sulle misure adoperate per il computo sia della quantità delle olive da molire che dell’olio ricavato in quella che fu nelle campagne del Sud l’ultima stagione preindustriale: dico gli anni ’50, voglio intrattenermi un po’. Ma non sforerò il tetto dei cinque o sei minuti.
Io che sono di Caiazzo, paese legato a Venafro e al Molise in generale dal cordone ombelicale del Volturno, provengo da una zona dove l’olio d’oliva fu voce importante dell’economia, prima che la proterva ignoranza di Bruxelles intervenisse a imporre paletti e divieti, e ci venisse a spiegare che le acque reflue dei frantoi inquinavano i torrenti e il letame bovino andava non piú ammucchiato all’aperto ma serbato possibilmente in salotto prima di essere sparso e di subito ricoperto dall’aratro nei terreni da seminare. In quell’epoca di oscurantismo preindustriale, che non conobbe il progresso dei pesticidi e dei fertilizzanti chimici, nel paese mio le mole dei frantoi, a una o a due ruote in pietra viva, erano trainate da muli e cavalli bendati, e la pasta delle olive veniva poi sparsa in tante store circolari, che poste l’una sull’altra formavano l’insaccatura, sulla quale era fatto scendere con sapiente lentezza il piatto della pressa, spinto in basso da una poderosa vite di acciaio. Dopo la spremitura a freddo, si passava alla “caura”.
Le ulive erano misurate in ceste (ma le ceste non erano tutte eguali) o in coppe, un arnese di legno simile a un settore di cono, di cui erano provvisti i frantoi. L’olio invece aveva piú di una misura: si partiva proprio dalla “misura”, un contenitore da sei coppe, pari a quattro litri, per scendere poi alla “coppa”, pari a due terzi di litro, alla mezza coppa, pari a un terzo di litro, e al misurino (u’ mmusurielle), pari a un nono di litro. Il rapporto tra quantità di olive molite e olio ricavato dava luogo alla resa, e chi realizzava una “misura” (quattro litri) a cesta, si diceva che aveva fatto una buona resa.
Poi c’era il decalitro, che a Caiazzo chiamavamo “’u monaco”, perché raccoglieva, a mo’ di questuante, l’olio di paga trattenuto dal frantoio, pari a sei coppe per ogni trentasei che andavano al proprietario delle olive.
Oggi tutto questo complesso meccanismo di misurazioni, giustificato all’epoca dell’istituto della mezzadria, che imponeva millimetriche operazioni di spartenze tra padrone e mezzadro, è stato soppiantato dalla bascula elettronica, che pesa, e in tempo reale ti dà peso e scontrino fiscale con l’importo da pagare in euro.
Ma le moliture non possono piú rispettare le singole partite, sic-ché spesso ti porti a casa olio di olive non tue, e col tuo che finisce altrove. Vado a chiudere.
Il lavoro di Ferdinando Alterio, sintetizzare il quale è come voler fare il riassunto, in un quarto d’ora, della Divina Commedia, è dunque un percorso tematico che si origina da quelle che nelle nostre scuole si chiamano (o si chiamavano?) Unità didattiche. E l’Unità didattica è in questo caso l’Olivo.
Un’opera poderosa, quella dell’Alterio, la cui sterminata biblio-grafia fa fede del rigore scientifico e della cultura a largo spettro dell’autore, che batte tutti i sentieri culturali possibili e immaginabili: intendo dire la letteratura, la mitologia, la filosofia, le religioni, le scienze, la storia, visti i nomi che vi ricorrono, da Omero a d’An-nunzio, da Pallade a Pasifae, da Platone a Nietzsche, da Osiride a Mosè, da Plinio il Vecchio a Columella, dal cartaginese Annibale a Ferdinando IV di Borbone. Un’opera di profonda dottrina, da raccomandare alla lettura e alla fruizione del pubblico, a partire dalle scuole, dove potrebbe essere occasione magnifica di uno studio interdisciplinare avente a obiettivo la presa di coscienza delle peculiarità culturali e produttive del territorio venafrano, e possiamo ben dire dell’in-tero nostro Sud.

27 gennaio 2012, Venafro, Castello Pandone. Correlatori: Emilio Pesino, presidente Parco regionale dell’Olivo e Franco Valente, Conservatore Beni Culturali del Comune di Venafro.

  • Titolo
  • Racconti di paese
  • Autore
  • Lino Di Stefano
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 88
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 10,00


Premessa dell’autore

Dopo i tre libri di racconti – Racconti d’una volta (1980), Racconti molisani (1987) e Storie Kalenesi (2001) – ecco un’altra raccolta piú breve volutamente intitolata Racconti di paese perché le storie si svolgono quasi tutte in un centro abitato del Centro-sud o s’ispirano a momenti che hanno come motivi d’interesse il medesimo luogo.
E si tratta, nella fattispecie, di personaggi e di ambienti profondamente cambiati o scomparsi, travolti, come sono stati, dall’inarrestabile dinamismo della società contemporanea che tutto travolge – storia, consuetudini, tradizioni, dialetti, usi e costumi – verso l’ignoto.
Chi manda piú, ad esempio, un pacco dall’America ai propri congiunti?
Eppure, nell’immediato dopoguerra questo pacco – che quasi sempre arrivava a destinazione assai alleggerito delle cose migliori – rappresentò per la gente piú indigente un aiuto per sopravvivere, considerate le condizioni economiche della stragrande maggioranza delle persone dei paesi, grandi e piccoli.
Oppure, chi si reca, oggi, in America, settentrionale o meridionale, in cerca di fortuna, o in altri paesi europei ed extra-europei? Ancora, dove trovare, al giorno d’oggi, quelle persone che diventavano dei veri e propri personaggi per le spiccate attitudini umane, professionali, umoristiche ed anche comiche rappresentanti la ricchezza dei borghi nel cui ambito si esauriva l’intera loro umana esistenza?
Esistenza fatta anche di sapienza popolare visto l’inesauribile bagaglio della loro semplice e modesta cultura costituita da proverbi, soprattutto, da massime, da modi di dire, da motti e da detti arguti che tanta ammirazione suscitavano negli amici, nei conoscenti e nei parenti. Tutto ciò, è ormai scomparso e solo in qualche piccolo insediamento umano è possibile rinvenire sporadici personaggi di tale fatta.
Rammentare tali situazioni non sembra inopportuno al cospetto di un mondo quasi interamente proiettato verso un futuro carico di incognite e denso di inquietudini.

Frosinone, 2015

  • Titolo
  • Testimonianze 2007-2014
  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Collana
  • Il Cormorano
  • Pagine
  • 376
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 22,00

Un libro di libri per i libri a venire

È un libro messo insieme parlando di libri, questo ulteriore volume della monumentale raccolta di letture che Amerigo Iannacone va componendo ormai da decenni – e sistemando da almeno dieci anni, da quando cioè decise che il cassetto era colmo (diciamo cosí, poiché bisognerebbe precisare: era intasato il disco del suo elaboratore di dati). Cosí cominciò a pubblicare Testimonianze, Nuove testimo-nianze, eccetera, per mettere ordine in quel cassetto – anche per sé, ma per offrire agli altri la possibilità di rivivere insieme a lui tutte le occasioni di incontro vissute con gli autori dei libri presentati qui e là, come un servizio itinerante reso alla letteratura, alla parola stampata, al libro.
Ecco dunque Testimonianze 2007-2014, a tracciare un percorso cronologico e geografico che testimonia appunto la sua continua di-sponibilità, la sua competenza, la sua versatilità; e che sarebbe anche utile sistemare per temi e addirittura per autori... Si avrebbe in tal modo una piccola storia della letteratura italiana contemporanea, minore forse, periferica, può darsi, ma non per questo meno importante. In questo libro sono raccolti interventi critici dedicati a una cinquantina di scrittori d’ogni genere. Ad alcuni di essi, infatti, Amerigo è particolarmente affezionato, e capita quindi che si occupi di loro piú volte. Per tutti, però, la sua parola è spesa con entusiasmo e senso critico insieme, il che significa che il risultato è un’aperta dichiarazione di stima non priva – se occorre – di un rilievo estetico, di qualche appunto metodologico.
Si potrebbe in definitiva considerare queste ultime “testimonianze” di Iannacone come un libro di libri per i libri a venire: nelle sue pagine, infatti, e cioè nell’augurio che ha sempre rivolto agli autori presentati, c’è sempre l’invito a continuare. Il nostro infaticabile scrittore, fedele quasi ad una missione di promulgatore, promotore, mentore, mallevadore, fedele insomma alla sua natura di uomo buono, mai si è negato - ha detto sí ogni volta che qualcuno gli ha chiesto aiuto, per una presentazione, una prefazione, una recensione, una relazione...
Ed è per questa sua natura generosa, per la sua naturale disposizione a parlare di altri autori, convinto com’è che si debba crescere insieme, e che si possa aiutare a crescere chi ne ha bisogno, è per la sua bontà che si è ritrovato a raccogliere ormai migliaia di pagine scritte, a custodire in esse il lavoro di mezza vita. D’altra parte, parlare di altri è come parlare di sé, poiché nelle parole altrui, nelle espressioni letterarie, nelle creazioni di ognuno si scopre un po’ di sé: lo si poteva dire cosí, o si doveva fare cosí – Iannacone non si fa pregare per dare consigli; anche se, forse per il rispetto dovuto al pubblico che ascolta piú ancora che all’autore presentato, preferisce far capire senza cattiveria, correggere con bonomia, non con la matita rossa e blu del professore.
In queste Testimonianze 2007-2014, nelle trecento e passa pagine di questo libro, ci sono anche nomi noti, scrittori che hanno pubblicato diversi libri, anche importanti e significativi; ma diversi sono gli esordienti, i giovani, gli autori alle prime armi. Per tutti, e in particolare per questi ultimi, Amerigo Iannacone è un veicolo di sicurezza, uno che si mette a disposizione con la propria esperienza fatta sul campo, anche per la sua intensa attività di editore. Per ciascuno che gli affidi un libro da presentare, diventa quindi un locomotore, un rimorchiatore, insomma (direbbe la buonanima di mio padre, che gli voleva bene, ricambiato) si fa “ciuccio di fatica” e si mette a lavorare perché il libro in questione abbia la giusta e necessaria visibilità.
Che altro? (cosí dice una famosa pubblicità affidata ad un attore famoso) Ma che altro si può chiedere all’operatore culturale, all’amico della parola stampata, all’editore, al direttore del “Foglio volante”, al poeta, al critico, all’appassionato di lingua italiana... Che altro si può pretendere dall’opera di devozione alla cultura che il caro Amerigo non abbia già fatto, e testimoniato, come appunto testimoniano le trecento e passa pagine di questo libro... penultimo certo, poiché è ancor piú certo che non finisce qui... Aspettiamoci un altro libro tra non molto.
Appunto, non finisce il suo lavoro, non si sottrae al suo impegno, anche se non glielo ha ordinato il medico (o forse sí... il dottor Cicerone: nulla dies sine linea; o il dottor Svevo: ogni giorno una pagina affinché la vita – quando è scritta – sia veramente vissuta). Sulla scrivania di Iannacone a Ceppagna, nella memoria del suo ordinatore di dati, continueranno ad accumularsi libri e pagine scritte – e in lui ancora si affastelleranno incontri con le anime amiche e perfino con quelle sconosciute che proprio attraverso le loro pagine diventeranno amiche. E via cosí per tanto tempo ancora!
Hoc est in votis, che altro?
Auguri allora per altri libri di testimonianze – è una garanzia anche per tutti coloro che, scrivendo, sapranno che almeno in lui, per tutti loro, a prescindere da valori e valenze espressive, da generi letterari e ideologie, non si negheranno un occhio comprensivo e una parola di conforto. Unico prezzo: la serietà e l’onestà del lavoro. Questo infine va detto, per onestà nei suoi confronti e in omaggio alla sua indefessa serietà: per entrare nelle grazie di Amerigo Iannacone (che che sono sconfinate, ma non infinite), bisogna comportarsi onestamente, bisogna credere in quel che si fa – come lui fa sempre.

Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • Diario itinerante
  • Autore
  • Maurizio Zambardi
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 72
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 10,00

Nel 2010, sorprendendo tutti gli amici, che lo conoscevano sí come persona colta e sensibile, ma lo sapevano eminentemente storico e tecnico e non certo poeta, Maurizio Zambardi diede alle stampe una raccolta di poesie. E comunque non volle chiamarle “poesie”, ma intitolò il libro Pensieri itineranti. Una raccolta di brevi componimenti, scritti prevalentemente in occasioni di viaggi. Perché – chi lo conosce lo sa – Maurizio ama molto viaggiare, ma è un viaggiatore che in ogni posto dove si viene a trovare non si limita a una visita superficiale come fa la maggior parte dei viaggiatori-turisti, ma entra nel merito, si innamora dei luoghi, li visita con la sua competenza di architetto e di archeologo, ma anche con la sua sensibilità di poeta, cosí come lo abbiamo scoperto dopo la pubblicazione dei suoi Pensieri. E se si trova, per esempio, in Belgio, non va a visitare solo Bruxelles, bensí anche la tragica Marcinelle.
Ora, a cinque anni dall’uscita di quella prima plaquette, si ripresenta al pubblico dei lettori di poesia – pubblico forse ristretto, ma raffinato – con questa seconda raccolta, dal titolo abbastanza simile alla prima, perché abbastanza simile è il libro, Diario itinerante. Potremmo dire che questo nuovo libro costituisce un po’ la continuazione del primo. Sono sempre pensieri, pensieri poetici in libertà, annotazioni, a volte confessioni, a volte persino sfoghi.
I testi sono sempre in versi liberi, talvolta anche in forma di prose poetiche, ma c’è sempre una sorta di afflato poetico.
Maurizio, che continua a schermirsi, a dire che non si sente poeta, e che non ha voluto che ci fosse una presentazione pubblica del suo primo libro, nutre in realtà un grande rispetto per la poesia, che ama a dispetto della sua formazione tecnica piú che letteraria. Ma, si sa, la storia della poesia – del Novecento soprattutto – è piena di tecnici e di poeti che vengono dagli ambienti piú disparati. A cominciare dal ragioniere Montale, dall’ingegnere Sinisgalli, dal libraio Saba, dal geometra Quasimodo, dal commesso di libreria Penna, e cosí via.
Leggendo questo libro, si ha l’impressione che l’autore quasi voglia evitare di esporsi, che non voglia farsi considerare poeta, e alterna a testi lirici, testi che quasi sembrano davvero appunti presi sulle pagine di un diario o descrizioni piuttosto tecniche. Cosí troviamo versi come questi: «Al profumo di una precoce primavera / sono sbocciate le tue violette / mentre la mimosa, / che tanto amavi / e che volesti far ripiantare, / esplode di giallo.», oppure: «Sei circondato / dai tuoi fedeli compagni: / il vecchio generoso pero / e la radiosa ginestra / che sbocciò per la prima volta / l’estate che mamma ci lasciò.» o anche: «Acrobatiche danze / di silenziosi balestrucci / che rasentano il suolo / al ritmo ondoso del vento». E troviamo anche testi come questi: «Domani visita e accoglienza / alla scuola che ci ospita. / Poi visita di varie località», «Giants’ Coseway / grattacieli di pietre / di una antica città / che si affaccia sul mare.», «Siamo ospiti in una casetta di mattoncini rossi in un piccolo villaggio lungo le sponde di un lago», «Visita del Villaggio di Aarhus, in pieno medioevo», quasi che Maurizio cerchi una giustificazione nei confronti di suoi lettori adusi a leggere di lui testi di natura diversa dalla poesia a volere con queste semplici annotazioni allontanare da sé il sospetto di farsi chiamare poeta o comunque giustificarsi verso coloro che non sono lettori di poesia.
Diario sí, ma anche la parola “diario” vuole in qualche modo sminuire il valore della poesia o almeno evitare di ostentarla.
A nomi di città piú o meno esotiche, piú o meno lontane (Tournai, Bruges, Rodi, Faliraki, Lindos, Amsterdam, Endhoven, Silkeboorg, Amburgo, Apokkias, New York, Bratislava, Stoccolma, Heraclion, Chania) si alternano i familiari, amati nomi dei centri della vita quotidiana (San Pietro Infine, Venafro, Sambúcaro, Cassino, Isernia), cui Maurizio è tenacemente legato. E proprio a questi luoghi, alla gente di questi luoghi sono dedicate le parole piú delicate e anche commosse: «Mi aggrappo alla vita come il naufrago ad uno scoglio nel mare in tempesta» (“In morte di Giustino”); «Un mulinello di foglie secche / danza un valzer nella strada / deserta e assolata / al ritmo di un barattolo vuoto / che rotola giú / contando i gradini della piazza.»
Particolarmente significativi nella poesia di Maurizio sono gli affetti familiari. Troviamo testi dedicati ai figli Elvira, Stefano e Laura e poi il ricordo commosso di Nonna Nannina e soprattutto, ricorrente, insistente, con parole intrise di un malinconico ricordo, il pensiero della madre perduta: «Dove sei, madre? / Nel tuo volo / è rimasta impigliata / la mia spensieratezza.» E non poteva mancare la moglie Luciana, «compagna / del viaggio piú importante», cui è dedicato il libro.

Dalla prefazione di Amerigo Iannacone

  • Autore
  • Antonella Sozio
  • Titolo
  • Il sole e l'azzurro
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 88
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00


Il tuo visino dissipa ogni nebbia...

SI POTREBBE assumere questo dolcissimo verso come esergo, e farne insieme la chiave d’ingresso nel libro e nell’animo dell’autrice. Antonella Sozio è felicemente nonna e scrive per il nipotino Lorenzo poesie d’amore senza ritegno, senza paura di esporre i sentimenti - vive nella sua poesia una storia intensa (ancor più intensa perché il piccolo Lorenzo vive dall’altra parte dell’Oceano e ancora più lontano), una storia fatta di momenti assaporati nel farsi parola e condivisi pertanto per fare innamorare anche il lettore dell’oggetto del suo amore.
È un’opera matura, di forti suggestioni, Il sole e l’azzurro, ed è insieme un regalo inusuale, da nonna a nipote, affidato alla carta stampata perché vuole rimanere come testimonianza non occasionale. La poetessa molisana – che aveva esordito anni fa quasi in sordina ed era apparsa poi solo in riviste o in pubblicazioni collettive – ha deciso, con Il sole e l’azzurro, di riproporsi ad un pubblico più vasto nelle vesti che più riconosce sue.
Ormai sicura delle sue capacità espressive, Antonella Sozio costruisce e presenta un libro che ha una propria completezza, anche se raccoglie i testi senza un ordine apparente: il filo conduttore è il desiderio di comunicare a Lorenzo quanto profondo sia il potere della sua presenza nel mondo – per ora quello degli affetti familiari, augurandogli certo di essere presenza viva nel mondo che lo accoglierà tra non molto, e addirittura (in un apotropaico rovesciamento di ruolo) lo farà artefice di una nuova dimensione esistenziale per gli stessi autori della sua esistenza:

sarò messe
solo se tu sarai seme.

E si può chiudere questa nota di pre-sentazione con un’altra citazione esemplare, che è un’altra ancora di salvezza, e una subliminale dichiarazione d’amore (e ce ne sono diverse nel piccolo libro che Jason Forbus ha tradotto con affetto paterno oltre che con la sensibilità poetica nota a chi conosce la sua poesia):

mia luce sempre
in fondo al pozzo dei giorni.

Giuseppe Napolitano