- Titolo
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Atene e Roma
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- Autore
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Lino Di Stefano
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- Collana
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Il Cormorano
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- Pagine
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80
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- Anno
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2016
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- Prezzo
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€ 10,00
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Capitolo I
La “fantascienza” nel mondo classico
Nel clima di generale attenzione che varie collane stanno dedicando, in questi ultimi tempi, alla “rinascita” del mondo classico, s’impone, il libro Luciano: Una storia vera che raccoglie ben cinque opere dello scrittore, libellista e rètore siriaco di lingua greca. Una delle ultime voci più vibranti, per genialità, capacità espressive e “vis polemica”, della letteratura ellenistica della cosiddetta Seconda Sofistica e, per dirla con un critico, il Tuscano, «un gustosissimo artefice dei tipi, un fantasioso pittore di situazioni psicologiche, un peregrino alla ricerca della Verità».
La raccolta in questione, si avvale, da una parte, dell’ottima traduzione di Luigi Settembrini (1813-1876) – il geniale autore de Le ricordanze della mia vita, il patriota che marcì per otto anni nelle carceri borboniche e patì l’esilio in Inghilterra, lo scrittore definito da Francesco De Sanctis come colui «nato a patire più che a fare, nato al martirio più che alla vittoria, santo tra santi, di una fede tanto più ardente quanto più pura di ogni interesse personale» –; dall’altra, delle Introduzioni, per ciascuna opera, delle note e delle illustrazioni di Alberto Savinio che. com’è noto, si distinse come pittore, scenografo, scrittore e musicista dopo essersi formato – era fratello di De Chirico – nella temperie culturale Surrealistica di Parigi e dell’Europa intera.
E proprio le illustrazioni saviniane, di stampo surrealistico, rendono il libro più attraente, unitamente all’apparato ermeneu-tico, sempre opportuno e puntuale, vista, altresì, come s’è accennato, la bella e chiara versione settembriniana che non risente affatto dell’usura del tempo salvo l’obsolescenza di qualche termine arcaico, giustamente sostituito dal Savinio con un vocabolo più vicino ai nostri tempi. La raccolta lucianea si apre con un’opera, l’Alessandro o il falso profeta, la quale non è altro che la storia di un ribaldo e megalomane che, spacciandosi per mago e discepolo di Pitagora, anche perché dotato, dice Luciano, «d’intelligenza e di sagacia», riesce nell’intento di irretire nelle sue maglie il grosso pubblico, diremmo noi oggi, per ragioni di fama e di lucro.
Fingendo, con geniale spudoratezza, di padroneggiare gli arcani segreti della natura e le arti occulte più subdole, Alessandro, uomo temerario, riesce ad ordire tante maligne trame – anche contro Luciano medesimo, che rischia di rimanere strangolato «come un sacrilego», egli dice – fino al punto di bruciare le stesse opere di Epicuro, dal sofista di Samosata perfettamente definito «divino sacerdote della verità, del quale egli solo ha conosciuto e rivelato la bellezza, e liberatore di coloro che ne seguitano la dottrina». Altrettanto bella quanto celebre la seconda pubblicazione, intitolata Il Menippo, o la Negromanzia, libro, chiarisce Al¬berto Savinio nell’“Introduzione”, «della maturità di Luciano, scritto intorno al 167». L’opera, redatta in dialogo, di cui l’autore è maestro, racconta le vicende di Menippo, appunto, che torna, co-m’egli si esprime, «dal regno della morta gente». Il colloquio fra quest’ultimo e l’amico Filonide, che gli chiede testualmente quale bisogno lo «mosse di andare laggiù», risulta stringente ed efficace, anche perché precorrendo, lo scrittore di Samosata, di molti secoli gli autori – nella fattispecie Virgilio, Dante ed altri – che immaginarono un viaggio nell’oltretomba, egli ce ne offre un quadro quanto mai realistico e macabramente seducente. Considerato, inoltre, che le pene infernali non sono altro che la conseguenza dei comportamenti umani tenuto conto – così Filonide replica a Menippo che gli chiede «come va il mondo, e che si fa nella città» – che, appunto, nel mondo «niente di nuovo, tutto è vecchio: si ruba, si spergiura, si fa usura, si scortica a dismisura».
Parole che sembrano scritte oggi, tanto convinta è in Luciano la considerazione, rafforzatasi con gli studi, che «chi predicava spregiar le ricchezze, le teneva afferrate coi denti; (...) chi spregiava la gloria, si sbracciava per conquistarla; quasi tutti biasimavano pubblicamente il piacere, e in privato non si attaccavano che al solo piacere».
Ne viene fuori, a questo punto, un quadro di rara icasticità, con Filonide curioso di conoscere la sorte degli uomini “post mortem” e Menippo, sotto mentite spoglie Luciano, pronto a soddisfarlo non solo col racconto della visione dei grandi uomini, ma anche con l’osservazione che «a guardare quello spettacolo, io ripensavo alla vita umana, che mi pare come una lunga processione». Con la Fortuna, aggiunge lo scrittore siro, che «è il cerimoniere che ordina e distribuisce gli uffici e le vesti». Chiarito che «la vita dell’ignorante – e qui ci sembra di sentire il Leopardi – è la migliore e la più saggia», con tale raccomandazione rivolta a Filonide e all’uomo in quanto tale, Luciano si accomiata dal lettore. «Manda alla malora i filosofi e i loro sillogismi, che son tutte sciocchezze».
Dopo il fantastico viaggio in cielo, nel libro Icaromenippo, dove incontra Empedocle, innumerevoli celesti e Giove, lagnantesi con gli Ateniesi, rei di non fargli «più festa da tanti anni», e dopo il richiamo di quest’ultimo per essersi spinto così in alto, la raccolta bompianea presenta quelli che sono considerati i capolavori del sofista di Samosata, vale a dire Lucio e l’asino e Una storia vera. Il primo, tratto da un racconto di un certo Lucio di Patre, ispirò sia il nostro Apuleio con le sue Metamorfosi – ritenute, a ragione, un’opera originale nel suo genere –, sia, appunto, Luciano, il quale soprattutto in tale volume, così come in altri, per Savinio, «nella sua qualità di artista “fine civiltà” (...) è tutto e nulla». Scritte in uno stile avvincente e in una forma quanto mai fluente, Lucio e l’asino, per un lato, e Una storia vera, per l’altro, confermano non solo le particolari qualità letterarie dell’“Archistator praefecti Aegypti”, bensì pure «l’alta fantasia», direbbe Dante, con cui quest’ultimo imbastisce l’ordito. Con l’eroe impegnato ad eli-minare l’asino rimasto, son parole di Luciano, «nudo quel Lucio che ero dentro», e costretto a sopportare infinite peripezie prima che le rose gli restituiscano dimensioni umane.
Per quel che concerne, invece, la Storia vera, «una delle ultime opere di Luciano, scritta tra il 177 e il 179», son parole di Savinio, essa rimane, senza dubbio, una grande prova del Siro, per il semplice motivo che la stessa influenzò non solo uomini del calibro dell’Ariosto, Rabelais, Collodi, Verne ed altri, ma evidenziò anche le peculiari attitudini del sofista a presentarsi come uno scrittore di fantascienza “ante litteram”. Viste le vicende, quasi da guerre stellari, fra Ippogrifi, Scagliamiglio, Aglipugnanti, Struzzipinconi, Insalumati, Tritobecchi e simili e il largo uso di altri neologismi onomatopeici, quali Pulciarcieri, Nottivago, Nonsisveglia, Tutta-notte etc., che tutt’insieme rendono alla perfezione il clima sur-realistico delle situazioni. Non mancano, in tale fantastoria, le prese in giro dei filosofi, quantunque nel rispetto di Platone, che «dicevasi abitare una città che egli stesso aveva fatto, con quel governo e leggi che egli le aveva dato».
Conclusa la faticosa, intricata e fantomatica avventura nei sentieri celesti – dopo la brutta esperienza nel ventre della balena – Luciano torna, dantescamente, a riveder la terra con la soddisfazione e, dice l’autore, «il prurito di lasciar qualche cosetta ai posteri». Alberto Savinio, sapiente curatore ed illustratore delle cinque opere lucianee, conclude giustamente la sua fatica con tali espressioni che sono da condividere in “toto”. «Tanta poesia era in questo uomo “della fine”, che dalla voluta parodia venne fuori una delle più straordinarie opere di poesia».