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  • Titolo
  • L'inebriante profumo delle zagare
  • Autore
  • Francesco Bruno
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 112
  • Prezzo
  • € 10,00

È l’amico Maurizio Zambardi che mi ha fatto conoscere l’autore di questo libro. A Maurizio mi lega un’antica cordiale amicizia, che si basa anche su quella che è reciproca stima. Con lui abbiamo collaborato in numerose iniziative di carattere culturale e inoltre dalla nostra collaborazione sono nate anche diverse pubblicazioni.
Anche tra Maurizio e Francesco Bruno, colleghi do-centi nella stessa scuola di Isernia, è nata una cordiale amicizia e per la proprietà transitiva dell’amicizia posso dire che siamo diventati amici anche Francesco ed io. E così Francesco mi ha portato in lettura il suo manoscritto (ma oggi dovremmo parlare di file) che io ho letto volentieri, trovandovi un racconto spedito e gradevole. È una narrazione che sta tra la memoria personale, il racconto e la cronaca, dove l’io narrante è ben riconoscibile nell’autore, sia pure con qualche tratto dove di proposito l’autore diversifica da sé il personaggio.
Il racconto ci porta nel periodo che va, grosso mo-do, dagli anni sessanta del secolo scorso ai giorni no-stri e fa rivivere l’infanzia del protagonista nella Sicilia di mezzo secolo fa, tra gli aranceti, col “profumo delle zagare” e i giochi infantili e poi il cinema, dove Francesco per qualche settimana ha fatto anche, insieme ala fratello, l’operatore, come il protagonista del Nuovo cinema Paradiso. Seguono poi, in età giovanile e adulta, i numerosi viaggi in Italia e nel mondo. E ogni viaggio è l’occasione per descrivere i luoghi visitati e per riportare aneddoti a volte curiosi.
E cosí il racconto ci porta “In giro per l’Italia”, come titola il secondo capitolo, e passiamo da Genova a Napoli, a Firenze, dove si consuma «la famosa bistecca alla fiorentina ricavata dal taglio, compreso l’osso, della lombata di vitellone non castrato con meno di due anni», a Venezia, a Napoli, dove «sembrava di essere nel racconto Il ventre di Napoli, scritto alla fine dell’800 dalla giornalista e scrittrice Matilde Serao».
Poi viene Montecarlo, poi il Canada e le Cascate del Niagara e gli Stati Uniti con un viaggio in pullman di «sedici ore di fila, di cui sei nei deserti del Nevada, tra canyons meravigliosi».
E poi l’Australia, da Adelaide a Melbourne a Can-berra, città «creata, ex novo per essere la capitale (non potendosi decidere gli australiani su quale scegliere tra le altre grandi città già esistenti)».
E l’Ayers Rock , «il piú grande monolite esistente (Urulu per gli aborigeni). Si tratta di una enorme roccia a forma di panettone, posata su una grande pianura desertica».
Ma c’è sempre il ritorno alla sua Sicilia e al profu-mo «inebriante e quasi pungente delle zagare», quel profumo intenso, che, scrive Bruno, «unito alla gioventú di allora, mi è rimasto impresso nella mente per sempre».
Dalla Sicilia si parte e alla Sicilia si ritorna, perché la Sicilia è bella e perché è l’amata terra madre.
Venafro, 8 maggio 2016

Dalla prefazione di Amerigo Iannacone

  • Titolo
  • Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice
  • Autore
  • Aurora De Luca
  • Collana
  • L'Albatro
  • Pagine
  • 152
  • Prezzo
  • € 10,00

METODOLOGIA

SI VUOLE, con questo lavoro, dare un contributo alla lettura dell’opera di Domenico Defelice e aggiungere una nuova voce liberamente e in piena consapevolezza delle capacità critiche di cui dispone: di lettrice romantica, appassionata.
Si va alla ricerca di un ‘principio di fondo’: si è rivelato una radice, e, in quanto tale, ben radicato nella terra.
Da tutta una coterie di scritti, pubblicazioni, saggi, let-tere, si propone di ricercare e tirare fuori il volto dell’uomo e il volto del poeta. Infine ci si accorge che i due per lo più coincidono, in quanto entrambi mossi dalla stessa spinta viscerale: l’amore.
Pertanto è l’amore l’angolo di visuale prediletto, amore che, si badi, non è cantato come sentimento elegiaco (che pure avremmo apprezzato) ma piuttosto come ‘partecipa-zione rabbiosa alla vita’. Si è compreso che per Defelice la scrittura poetica, che è quella in cui è piaciuto discendere, è scrittura sociale, conoscenza e rifiuto, adesione e contra-sto, è catarsi della vita.
È venuto, quindi, spontaneo titolare questo lavoro Aspra terra e creazione fertile, avendo ben in mente quel ‘principio di fondo’ esistenziale-poetico del nostro autore: la terra è dura, la vita è di terra; poiché è parso evidente che il legame tra Defelice e la Terra, tra Defelice e la Calabria, è un legame inscindibile, da risultare quasi ineluttabile, tale che le sofferenze dell’una si propagano nell’altro in onde d’urto fortissime. Da tale condizione di sofferenza, fisica e di coscienza, si è distillata la poesia come atto di semina e di inchiostro, così come avviene al contadino che, duramente, zappa la terra di cui conosce ritmi ed essenze, storture e avvallamenti, zone sterili e infeconde, finché da essa non riceve splendide fioriture e frutti genuini.
Nei Preludi non si sonda che questo, una panoramica da più angolazioni che possa restituire un Defelice tridimensionale: le sue origini, i suoi interessi, il suo carattere marcatamente ‘feroce e mansueto’, la sua poesia, la sua prosa, la sua pittura e ci si è valsi delle sue stesse parole, che si è ritenuto essere il nostro ‘principio di fondo’. Sicché è sembrato adeguato presentare una Miscellanea di opere poetiche, con la lettura delle quali mostrare stili e temi, originalità, forme, sviluppi, cambiamenti.
Di seguito l’Amore: sono state messe sotto la sua lente d’ingrandimento quattro opere poetiche, da quella più giovanile a quella più matura e recente. Di queste si è vo-luto – e tentato di – proporre un’analisi, stilistica, tematica e di evoluzione delle forme. Non si è mai tralasciato però l’intento principale del lavoro, quello di restituire un’im-magine più aderente possibile e a tutto tondo dell’autore, e per tanto, nello scendere sempre più a fondo tra le sue pa-role, si sono ricercati l’uomo e il poeta, indagato chi dei due fosse presente e in che misura.
Quel che è certo è che in Defelice Poesia è vita e vice-versa “Vita è poesia”; si è voluto infatti presentare la stessa biografia dell’autore – non certo anno per anno – intessendola con le sue stesse parole, rivelatrici di stati d’animo e concezioni d’esistenza, nonché con le parole di quei critici-scrittori che, prima e meglio di noi, hanno avuto modo di conoscere Defelice, sia personalmente, sia tramite le sue opere.
Per completare il lavoro si è creduto necessario esplora-re il mensile fondato da Defelice nel 1973, «Pomezia-Notizie», che ha compiuto ben 40 anni di vita senza cedere a quella che volgarmente si definisce ‘una crisi di mezza età’. Questo mensile, accompagnato dai Quaderni Letterari Il Croco, è stato un enorme delta di informazioni, in cui è confluita una quantità infinita di articoli e pubblicazioni.
Si stava ricercando il ‘principio di fondo’ di vita e di poesia; si crede di aver trovato qualcosa che lo attesti. Non avendo comunque certezza della bontà di tale impegno e di tali risultati, si è voluto scendere proprio nelle viscere di Defelice, all’interno di quegli epistolari “fraterni”, pubbli-cati con Il Croco. Per lo più si possiedono lettere di risposta e che portano la firma di amici e amiche, scrittori e scrit-trici, ugualmente importanti per il progetto proposto. Ma si possiedono anche alcune lettere manoscritte di Defelice dalle quali non può che risultare chiaramente il suo ani-mo, il suo spirito, la pasta del suo sguardo sulle cose, la sua mente.
In ultimo una passeggiata, una chiacchierata, alcune confessioni, delle saggezze, delle dichiarazioni ispirate, pa-role preziose dello stesso Defelice, per noi che ne faremo inestimabile tesoro.
Insomma, un lavoro assolutamente ‘scapigliato’– come io sono del resto –, appassionato sicuramente, si teme ma-gari caotico, assai pieno di salti e rimandi e citazioni, ma forse improvvisamente organico, limpido, trasparente da vederci attraverso.

Breve astratto dal libro

  • Titolo
  • Modellati dalla tenerezza
  • Autrici
  • Carmen Buono, Chiara Franchitti
  • Collana
  • Il nastro e la penna di una voce
  • Pagine
  • 144
  • Prezzo
  • € 16,00

Per comprendere il titolo – Il nastro e la penna di una voce – della collana che questo libro apre, bisogne-rebbe conoscere le due giovani che la curano, Carmen Buono e Chiara Franchitti, il “nastro” appunto e la “penna” di una “voce”, la voce di don Salvatore Rinaldi, portavoce di Voce piú alta. Tra i molti talenti di don Salvatore, personaggio ben noto nella sua città e nella sua provincia, c’è quello di avere la capacità di esprimere concetti elevati par-lando a braccio. Capacità di parlare – si diceva una volta – come un libro stampato. Ogni domenica don Salvatore celebra piú di una Messa e tiene piú di un’omelia, sempre a braccio, e tutte sono originali, tutte sono autentiche, tutte di grande interesse. E adatta, don Salvatore, il suo modo di parlare al pub-blico dei fedeli che ha davanti, con una lingua eleva-ta o addirittura aulica oppure con un linguaggio basso, magari inframmettendo parole o espressioni dialettali. Non si ripete, non è mai monotono, mai banale.
Partecipando alla Messa, Carmen, il “nastro”, re-gistra, Chiara, la “penna”, trascrive, le omelie di don Salvatore. Un lavoro prezioso, perché salvano dall’o-blio e consegnano alla carta stampata testi di grande interesse, che diversamente andrebbero perduti. E sono infatti proprio di grande interesse – e il lettore se ne renderà conto leggendo il libro – le omelie di don Salvatore; lo sono sia per la sua notevole prepa-razione culturale e teologica (ricordiamo che è stato per anni il chierichetto di Paolo VI), sia per le sue in-nate doti di intelligenza e anche di creatività.
È ovvio che quello del “nastro” e della “penna” è un lavoro non sempre facile, perché l’efficacia di un testo orale è legato anche all’espressività, al tono della voce, al ritmo, alla mimica ed ad altri elementi non riproducibili con la scrittura, e poi il pubblico della carta stampata è un pubblico diverso da quello che partecipa una mattina a una funzione religiosa. E quindi nel riportare per iscritto un testo che era orale e fatto a braccio c’è bisogno di un lavoro di editing e talvolta di adattamento e comunque senza mai inter-venire nei concetti e senza alterare né il contenuto, né lo spirito del testo. Un lavoro che le due giovani hanno fatto in modo eccellente pur senza mai sosti-tuirsi o sovrapporsi a don Salvatore. Di don Salvato-re infatti sono tutti i testi, anche se talvolta, leggendo delle bellissime espressioni, viene da domandarsi «possibile che abbia espresso a braccio un concetto cosí elevato e in modo cosí appropriato, con parole tanto belle?». Sí, don Salvatore ha queste capacità: sono delle doti innate, sia pure affinate da cultura e da studio.
Probabilmente c’è da rammaricarsi solo per il fatto che, per ovvi motivi, il “nastro” e la “penna” non riescono a partecipare a tutte le Messe e a registrare tutte le omelie. E d’altra parte don Salvatore non è tipo da considerare preziose le proprie parole, che in realtà quasi sempre lo sono, e quindi non si scrive mai in prima persona i testi.
Questo volume intende aprire una serie di pubblicazioni, nella collana che porta appunto il nome di Il nastro e la penna di una voce, ognuna delle quali avrà un proprio titolo e sarà legata a un periodo dell’anno liturgico. Si parte con Il tempo di Pasqua (2013-2014), seguiranno altri raggruppamenti di omelie che potranno essere sul Natale, sulla Quaresima, su Pasqua 2015, e cosí via.
Questo è quanto si ripromettono Carmen Buono e Chiara Franchitti, perché, come dicevano i nostri avi, verba volant ma scripta manent.

Amerigo Iannacone

  • Titolo
  • Tra i vicoli della mia infanzia
  • Autori
  • Gelsomino Marconicchio, Annamaria Marconicchio
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 136
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 14,00


Prologo

Stasera, ho trovato alcune vecchie foto in bianco e nero un po’ sbiadite. Le sfogliavo e mi ha preso un po’ di malinconia. Immagini dei miei genitori, sorelle, nonni e con loro c’ero io, un bimbetto di appena tre anni. Sullo sfondo di ognuna, i paesaggi di Frosolone, mio paese natio, tutti dello stesso anonimo color seppia. Dov’erano finiti gli splendidi colori sempre vivi nei miei ricordi? Ma a quei tempi non c’erano le fotografie a colori.
«Accidenti!» mi sono detto «Ma quanto tempo è passato?»
Ho iniziato a pensare a tutto quanto, negli anni, è accaduto intorno a me e a come me lo sono lasciato quasi scivolare addosso. Sembrava che ogni cosa fosse dovuta o senza particolare rilevanza. Ho visto il cinema passare dal bianco e nero al colore, poi le prime riprese in CinemaScope. C’ero, quando la carta igienica smise di diventare un lusso per pochi. Ho iniziato ad utilizzare olio imbottigliato e pomodori in scatola, senza neppure rendermi conto della novità. Ho permesso alla tecnologia di entrare in casa mia, con la televisione, la lavatrice e il telefono. Ho assistito all’uomo che andava sulla luna e alla caduta del muro di Berlino. Ho vissuto i drammatici anni settanta. Oggi ho il mio smartphone e il mio computer e non posso fare a meno di Internet.
Ho lasciato le fotografie sul tavolo; mi sono alzato, cercando inconsciamente uno specchio.
«Ma quanti anni ho?» mi sono chiesto, guardando la mia immagine riflessa «Che sia invecchiato senza accorgermene e senza mai diventare adulto?»
Non so perché, in quel momento mi ha sopraffatto il pensiero del piccolo Alessandro, mio adorato nipotino, e della mia scelta di non avere figli. Eppure i bambini mi piacciono un mondo, e adoro giocare con loro e coprirli di coccole; ma a me è mancato il coraggio di caricarmi della responsabilità di avere un figlio mio. Mi sono chiesto cosa avesse condizionato la mia decisione. Forse il ricordo della mia infanzia che ha formato il mio carattere, portandomi a prendere decisioni in maniera autonoma, mentre magari andrebbero condivise con mia moglie, o solo la paura di non riuscire a dare a mio figlio tutte quelle cose che a me sono mancate.
Mi sono avvicinato alla finestra e ho guardato fuori. È tardi e i negozi stanno chiudendo, la strada brulica di luci e di ombre, la gente si affretta per tornare a casa. Mi viene naturale pensare a quanto io sia stato fortunato ad essere nato in un bel paese di montagna. Come dal nulla, esplodono i ricordi.
Il mio paese… Frosolone sorge ai piedi del monte Gonfalone, su un’altura che domina interamente il basso Molise. La posizione elevata, circa 900 metri sul livello del mare, regala estati ed inverni fantastici. In estate non si viene oppressi dal caldo. Il cielo è di un azzurro profondo, che si fonde naturalmente con i colori della vicina montagna. Di sera si accende del luccichio di milioni di stelle, offrendo uno spettacolo mozzafiato. In inverno, è la neve a farla da padrona, offrendo panorami incantevoli.
Ricordo le rondini che a primavera tornavano numerose, rallegrando, con i loro voli, le vie del paese, mentre in montagna, i prati si coprivano di un vivace, unico, grande manto fiorito.
Agli inizi degli anni cinquanta, l’intera popolazione contava appena 5500 abitanti. In paese, ci si conosceva tutti; il divario economico tra le famiglie era contenuto, se si escludevano pochi benestanti. Gli abitanti erano gente mite e laboriosa e la semplicità della vita non offriva terreno fertile alla delinquenza che risultava inesistente. Vivevamo alla giornata! La cultura del buon vicinato era molto sentita e, dal momento che di danaro ne circolava ben poco, regnava in paese un forte senso di fratellanza, basato su condivisione e solidarietà. Vi era ancora qualche famiglia con retaggi nobiliari ai cui appartenenti era riconosciuto il titolo di don per gli uomini e di donna per le signore, appellativi che precedevano i nomi di battesimo. Era invece una piccola minoranza quella che ancora usava dare dei voi ai proprio genitori in senso di rispetto. In famiglia si usavano alcuni termini dialettali che erano particolarmente simpatici, come tate che significava padre, mentre nonno si diceva tatille e nonna tatèlla
La sera, appena dopo cena, i vicoli si animavano di allegria conviviale. Le donne che lavoravano all’uncinetto o sferruzzavano sull’uscio di casa, aiutandosi talvolta tra loro a srotolare le matasse di lana, quasi tutte indossavano delle caratteristiche mantelline di lana lavorate ai ferri per proteggersi dalle correnti d’aria che non mancavano mai in quei vicoli nelle ore serali. Gli anziani, seduti sui gradini delle loro abitazioni, sembrava aspettassero il tempo, mentre osservavano quanto accadeva intorno e raccontavano storie di tempi andati, della loro giovinezza. I ragazzini non erano mai stanchi di correre in giro, animando le serate con grida festose.
C’erano cosí tanti quartieri e borgate che, ad elencarne tutti i nomi, sembrava di essere in una grande metropoli. Alcuni prendevano il nome dalla famiglia che vi abitava, altri avevano riferimenti storici. C’era ad esempio un quartiere chiamato “L’Ospedale”, con riferimento ad un vecchio lazzaretto, presente in quella zona tanti anni prima, mentre nessun ospedale, cosí come lo intendiamo noi oggi, aveva mai occupato quel luogo.
Il paese si divideva in base alle tre parrocchie di riferimento di ciascun quartiere: Sant’Angelo, probabilmente la piú antica, San Pietro e Santa Maria.
Una caratteristica particolare del paese erano i soprannomi. Quasi ogni famiglia aveva il suo e alcuni erano alquanto bizzarri. La mia famiglia non ne aveva, forse perché la famiglia di mio padre era di origine termolese. I miei nonni paterni erano conosciuti semplicemente come Mast’ Peppine e Mariuccia La Furnara. La famiglia di mia madre, i Piscitelli, erano piuttosto numerosi e quasi tutti imparentati fra loro.

  • Titolo
  • Hundoj kaj katoj
  • Autore
  • Ugo Intini
  • Pagine
  • 112
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 18,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-78-5


En fantazia libro la leganto ofte permesas, ke oni permane gvidu lin al mirmondo. Ĉi tiu mondo havas la kolorojn de miraklaj elanoj kaj krome de neatenditaj strangaĵoj, kvankam iel elvenintaj el la interno. Tamen la ekzerco pri krea verkado montras aliron kaj mensan laboradon, kiu konsistas el enaj kongruoj kaj el fajnaj nervaj ĉefaj traboj, kies celo estas komunikado. Tio okazas malgraŭ la rakonta pasio, kaj krome la krea verkado okazas en kampo tiel riĉa je fruktoj, kiuj ridetas je la surprizita kaj foje plezurhava rigardo de naiva atendo. Tio ne malofte finfine konsistigas la kvaliton meman de la teksto. Jen ekzemplo de tio en la rakontoj prezentataj de la verkinto de ĉi tiu teksto: sume ni havas ĉi tie ne neeblan konan aliron, kiu vestas sin per fabela vesto. Ĉi tiu fabela vesto, kvankam ĝi havas tre vastajn horizontojn, kiuj estas ekster tempo kaj spaco troveblaj, montras sin per sia tuta forto.
Kritika pripensado de la verko de Ugo Intini ne rajtas ne kapti tiun esencan karakteron de lia verkado. Tiu karaktero trovas klaran konfirmon en la strukturo de ĉi tiu verko, kiu estas dividita en du partojn. Unu temas pri scienca disvastigo kaj la dua pri rakontado. Mi pensas, ke tia kunordigita dueco, preter la instrua celo, prezentas la aŭtentecon de la mesaĝo de Ugo Intini. La mesaĝo diras, ke scienco ne estas rigora duonpatrino, kiu per sia projektado, kontrolado kaj difinado kaptotenas siajn anojn en kristala ĉambro. La scienco, fakte, subtenas kaj amuzas la homon pri lia enkonstruita scivolemo, lia intuicia, ellabora kaj teoriuma kapablo, pri lia nehaltigebla deziro al materia kaj morala progreso.
La ridiga eco de rakontoj kiel “Hundoj kaj katoj” aŭ kiel la fabelo “Nulo kaj liaj fratoj” ne naskiĝas, ekzemple, el ripetado tro ampleksa kaj eksploda, kvazaŭ ĝi estas ŝoko el intelekta klarvideco. Ĝi, male, havas trajtojn de plaĉo, kiu fontas el la invento de situacioj kaj rolantoj. En kelkaj okazoj (ekzemple en La magiisto de numeroj) tiuj rolantoj estas reliefaj literaturaj rolantoj. Vortoj neniam perdas la montran klarecon, ili neniam nebuliĝas pro arbitraj plursenceco, ili, male, estas malkunmetitaj aŭdis duigitaj rilate al la signifo. Foje ili estas kunigitaj al fortigaj adjektivoj, kiuj substrekas radik-mankon (terura teruro, tima timo, mistera mistero, ktp.), longigitaj, silabe inversigitaj. Foje ili ricevas bildan valoron, kiel se ili mem enhavas ion abstraktan, kiu ĉesas esti abstraktaj’oksj iĝas emocio aŭ ago de la rakonto. La luda eco estas ĉiam subtenata de racio. Mi pensas, ke la spegulo de homa naturo resendas la bildon de inteligento kaj pasio. Se estas tiel, la vasta kom prenebleco de la verkostilo de Ugo Intini trovas kroman konfirmon en la tradukado, kiun la verkinto faris, de la teksto el la itala al Esperanto, kiu estas lingvo kapabla superi la malsamecojn inter la popoloj.

Riccardo Agrusti
Traduko de Renato Corsetti

  • Titolo
  • Sprazzi di verità
  • Autore
  • Giacomo Pontillo
  • Collana
  • Il Cormorano
  • Pagine
  • 56
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 9,00

Introduzione

Quando diventa pressante la riflessione su uomini e cose, nonché sull’infinito che ci avvolge, ognuno di noi, annaspando nella storia delle personali esperienze, limitate e circoscritte, si adopera per vagliarne la consistenza, mediante un’ennesima ricognizione delle proprie esperienze vissute.
Tenta cioè di pervenire, attraverso la solita indagine introspettiva, a conoscere ulteriormente se stesso, le proprie inclinazioni, i punti di partenza delle mète acquisite e delle future prospettive.
Per intanto, non essendo solido e ineccepibile, l’insieme di quel vissuto non basta a gratificare il possessore, che sovente si dimena per modificarne, laddove è possibile, il contenuto, adattandolo a nuove tematiche che sembrano piú aggiornate e significative.
È innegabile, tuttavia, che l’insieme di quelle esperienze, sia pur empiriche e irrazionali, corrispettive alle peculiarità socio-culturali dei singoli, concorre a creare l’insieme delle convinzioni solidificate, un crogiuolo di “verità”, che costituiscono la base cognitiva di una persona che ad essa attinge per le sue scelte comportamentali.
Ciascuno di noi nei vari impegni di lavoro e nelle sue proiezioni disquisitorie parte da quel crogiuolo, che, sebbene – nel migliore dei casi – in continua evoluzione, comprende un quantitativo congruo di cognizioni già assemblate (emozioni, eventi, sensazioni, errori, competenze, vicende vissute...).
A questa base si riferisce nelle sue iniziative quotidiane.
Sicché quel crogiuolo, o meglio quella base stabile e operativa, è sempre in rapporto alla ricchezza dello scibile posseduto da ogni singola entità in movimento.
Ma quel container, fonte ispiratrice di ogni forma di produzione, già di per sé frivolo e riduttivo, perché di umana pertinenza, vive e si alimenta di contingenza e provvisorietà.
E intanto il marasma delle dissertazioni, dei lavori, delle proposte operative, passa attraverso il filtro di quel crogiuolo personale che non conosce il crisma della verità obiettiva e, tuttavia, per la dabbenaggine dell’uomo, col passar del tempo, talune ipotesi rischiano addirittura di assurgere a dignità di certezze consolidate e intoccabili.
Ne consegue che spesso le regole poste in via provvisoria restano in vigore come normativa acclarata e consolidata, mentre altre proposte piú consone e lungimiranti vengono ignorate.
Tanto si evince perché l’uomo non riesce a fare diversamente, e il mondo in cui viviamo diventa l’unico possibile, sebbene infarcito di storture e manchevolezze.
Naturalmente il prodotto finito, confezionato dall’uomo, risente di quel disagio e si appalesa non sempre foriero di risultati concreti ed esaurienti.
Del resto la crisi dei valori, l’inefficacia organizzativa, il bisogno reiterato, e mai sopito, di un cambiamento etico-strutturale della società in avaria, stanno ad indicare l’incapacità dell’uomo a perseguire un modello di vita e una scuola di pensiero univoca, precisa, inconfutabile e duratura.
Le titubanze, le approssimazioni, le scelte non sempre appropriate e lungimiranti, dimostrano l’inaffidabilità delle proposte operative e l’inconsistenza della logica di umana provenienza.
In un contesto simile l’attendibilità di ogni iniziativa e/o disquisizione non è tale da rappresentare un punto di riferimento univoco e inoppugnabile, sicché, in questo mondo, le convinzioni, anche le piú rigorose, difettano nella loro elucubrazione e restano lontane dalla verità; tutt’al piú servono per dare soluzioni provvisorie ai problemi quotidiani e alle argomentazioni sulla realtà visibile.
Non riescono a conseguire un traguardo definitivo, meno che mai per ciò che riguarda l’invisibile, ovvero la sfera dell’extrasensoriale e quindi la dimensione del trascendente.
Si tratta di un vuoto, quest’ultimo, che, non essendo terreno comodo e praticabile da chicchessia, resta legato alla fantasia credula dell’uomo, che, dopo aver decifrato succintamente parvenze e minuzie aleatorie della realtà visibile, presume di poter indagare con la stessa logica anche sui grandi temi che riguardano il mistero dell’esistenza.

Giacomo Pontillo

  • Titolo
  • Attimi & gabriellate
  • Autore
  • Gabriella N.V. Napolitano
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 48
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 10,00

Volare con Gabriella

È piacevole trascorrere qualche ora a Formia e Gaeta, insieme a Gabriella.
Parliamo spesso del comportamento degli adolescenti, ed anche se non siamo delle api, improvvisamente ci ritroviamo a volare all’interno di un fiore. La poesia può essere un battito d’ali da permettere alla materia di librarsi in aria, quasi fosse un percorso leggero, un disegno nel cielo, tracciato con le dita. Ogni attimo gli adolescenti si pongono delle domande, si trovano a dover scegliere se accarezzare un profumo nuovo o dimenticarsi in quello di ieri:
Capii che il vento doveva essere lasciato libero di andare dove voleva, /e sarebbe stato un privilegio, se si fosse fermato /per accarezzarmi il viso, /prima di volare via.
La poesia degli adolescenti e preadolescenti è totale già nel proprio esserci sul Mondo. Gabriella mi fa riflettere sul diagramma cromatico delle emozioni che, negli adulti, è assorbenza e forse conoscenza, nei ragazzi genesi dei colori nuovi e chiari, come quando due fidanzatini si lasciano ma restano seduti accanto lo stesso, credendo di divenire invisibili:
E resto qualcosa che più non vedo, /e non voglio più vedere, /dopo che l’unico fiore, l’unico /che restava nel mio giardino di ortiche, / è diventato del colore dei corvi di pezza, / che volavano sulla mia maglia di pizzo nero.

Antonio Vanni

  • Titolo
  • Senza perdere la strada
  • Autore
  • Ida Di Ianni
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 56
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 9,00

La consistenza dei sogni

È da folli essere gelosi di un poeta: perché può prendersi quello che vuole, con le sue parole, anche un cuore che non esiste e dargli vita, la sua, la vita delle sue parole. E può prendersi il cuore di chi legge le sue parole e farne il cuore di altre parole...
Ida Di Ianni, lo confessa d’altronde senza na-scondersi, è solo una che scrive per amore: ha la coscienza a posto, essendosi dichiarata. Peggio per chi le affida il suo cuore di lettore – fidandosi di poterla incontrare in queste pagine. Qui lei nemmeno c’è, poiché la voce che dice ti amo non è realmente la sua, ma quella del suo poetico (si direbbe altro da sé) sentimento che si fa parola.
Questo piccolo libro si compone di poche decine di frammenti estratti da un diario quotidiano che Ida va pubblicando on-line ormai da molto tempo. Vi si snoda un arco di pensieri di appena due mesi, poco più, ma l’idea di raccoglierli (mia) vuole comporre comunque un percorso di conoscenza che sia esemplare, da lasciare cioè alla memoria – e il libro a me (a Ida pure) sembra ancora il mezzo migliore per condividere una storia, anche inventata, per dare consistenza ai sogni.
Tagliare qui è proprio doloroso – sfrondare, an-che soltanto un po’, nelle mille ramificazioni di questa grammatica dei sentimenti, significa (ed è un arbitrio comunque necessario) strappare a Dafne le sue membra, perpetuare in contrappasso la sua pena. Ida qui si veste di sé – della creatura poetica che la abita – per donare al divino amante le vesti da lacerare nell’ideale amplesso che è il sogno celeste e terreno insieme, al quale non si sfugge, nessuno sfugge – il sogno di un oltre che sia già ora.
Tra le parole chiave di questa silloge, che si vorrebbe leggere in un fiato e che invece va lentamente assaporata, gustata, c’è l’ambiguo avverbio già – che, mentre sembra chiudere, apre verso nuovi traguardi. Io sono già il mio domani: scrive Ida, ed è poesia, ed è sequenza, ed è fine, ed è il tutto che esprimo. Perché è questo il gioco sotteso in queste sue esternazioni sentimentali che sono frutto – dichiaratamente (ma un gioco serissimo, pirandelliano) – della fantasia poetica: quello che è detto è già consegnato al passato, mentre aspetta un futuro che si sa non ci sarà (ma è già presente e posseduto nel dirsi, nell’essersi compiuto, appunto, nel suo dirsi). È lo stupore del vedere oltre, del sentirsi, dell’essere al di là di ora, del momento che è già pieno del suo domani.
Non è necessario, ma il riferimento (almeno) ad un grande modello viene spontaneo: così lavorava spesso Leopardi, componendo le note quotidiane del suo Zibaldone – qualcuna diventava poesia poiché già (è il caso di parafrasare ancora) la conteneva, era poesia in nuce, come parecchie di queste note che Ida, giorno per giorno, affida alla memoria del suo telefono e quindi invia (potenza e tentazione dei nostri mezzi mediatici!) agli amici, ai lettori di Facebook, a coloro che sapranno cogliere fra le sue parole un verso, una strofa, un canto... un desiderio di comunicare che si fa, nella smisurata grammatica dell’essersi, voce d’anima per anime in ascolto.
Alcuni dei brevissimi testi che compongono questo libro involontario (preterintenzionale, si potrebbe dire, poiché nato senza l’intenzione di farlo) possono leggersi, sezionati e scanditi, come testi poetici. Forse l’autrice – avesse avuto più che il tempo la pazienza di tornarci su – ne avrebbe tratto pagine per una nuova raccolta di poesie. Forse, ma forse no: come successe (per citare ancora un grande) al Michelangelo dei prigioni, Ida ha lasciato apposta da sbozzare i grumi di parole che le occorrevano, che le si offrivano, che le chiedevano vita, subito. E ha trascritto quel che dettava dentro il suo animo, lasciando a noi la scoperta da completare, la fiamma con la quale alimentare una passione comune.
Un abbraccio sognato mentre secoli scorro-no tra le pagine e solcano i mari parole mai udite d’amore. Ogni foglio è buono, così come ogni approdo. Caldo nella mente, così, accanto a me. Basta sentirti.
Alice finirà per incontrare uno specchio che non si lascia attraversare: sarà quello della dura realtà con la quale confrontarsi al di qua del sogno. Se ancora si può permettere un viaggio nell’oltre, chiediamole però di andare con lei... Magari ti potesse accompagnare Alice nel giardino incantato senza perdere la strada – o perderla con lei. Certo, se ce la sentiamo di rischiare di perderci, e comunque non da soli...
Ida è una donna antica, dice, ed è ben consape-vole delle nostre umane fragilità. Sa bene quante favole abbiano illuso l’umanità, quanti sogni si siano infranti nel di qua dello specchio, ma sa pure come andare oltre, senza perdere la strada. E, seppure si riconosca ebbra di mancanza, sa bene come attendere il domani, anzi: io sono già il mio domani – scrive – e poi chiarisce (rivolta all’ideale oggetto d’amore al quale è rivolto ogni suo pensiero d’amore): sei già nel mio domani... Ne può conseguire che io e tu coincidono? Avremmo risolto l’enigma a fondamento di questo libro di confessioni che non si rivolge ad altri che al proprio animo, inquieto fratello bisognoso d’affetto: desidero sentirmi amata.

Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • La sorgente del fiume Bann
  • Autore
  • Celeste Ingrosso
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 248
  • Prezzo
  • € 16,00

Una scommessa vinta

In realtà, è più di una scommessa: questo romanzo dell’esordiente Celeste Ingrosso (quasi una sfida alla pazienza dei lettori, oggi che tanto poca ne hanno per seguire tante pagine scritte) si apre con una serie di colpi di scena e si chiude... ma si chiude poi realmente?
Non è il caso di svelare non solo la chiusa ma nemmeno le trame (poiché al plurale vanno indicate) di questa storia avvincente, ai limiti dell’incredibile, scritta con apprezzabile padronanza tecnica, oltre che indubbia evidente passione per il tema affrontato. Che è un tema, anch’esso, da scommetterci per vedere chi viene a “vedere” (come quando si gioca a carte e c’è qualcuno che punta forte...
Celeste dunque si mette in gioco (poiché mette in campo le sue convinzioni profonde, forse il senso stesso della sua vita), e chiede al lettore di giocare con lei, ma seriamente, come per una caccia al tesoro in cui il tesoro è la vita che si mette in gioco. Ad apertura, infatti, propone un indovinello esistenziale che appare subito inquietante, lasciando insieme intuire chissà quali sviluppi narrativi. E ci sono, ci sono subito e ce ne saranno sempre altri, più o meno sorprendenti, fino alla conclusione – in certa misura attesa ma non del tutto prevedibile: una scommessa vinta.
Chi abbia seguito fiducioso la vicenda della giovane protagonista, si ritroverà con lei ad aver percorso un periodo fondamentale della conoscenza di sé: non si può rimanere indifferenti alle proposte – che sono semplicemente umane prima ancora di essere, come sembra, filosofiche o religiose – che l’autrice vuole farci comprendere e, magari, condividere.
I protagonisti del romanzo La sorgente del fiume Bann si muovono attraverso le vicende vissute come fossero sempre sicuri di quel che li aspetta, come sapessero che – prima o poi, magari non senza qualche impiccio – tutto si metterà a posto, anzi, tutto tornerà a posto... Qui la giovane Aidha scopre un mistero che si rivelerà la sua stessa vita. E coinvolgerà altri nel riconoscimento e le sarà d’aiuto per comprendere come più e meglio le convenga vivere, per sapere di essere non solo di passaggio in questo mondo, ma di essere una e più di una, di avere avuto e di poter avere più vite da vivere.
Intorno a lei, tutto concorre a metterla sulla strada giusta, an-che con gli intoppi che arricchiscono la curiosità del lettore, mentre ai personaggi assicurano pagine supplementari di episodi da gestire. E la curiosità cresce mentre si vedono agire – con gli occhi e con l’animo della protagonista (che narra in prima persona) – i personaggi di contorno, e soprattutto il deuteragonista (che è poi il motore primo al quale si deve l’origine stessa della ricerca esistenziale che segnerà la vita di Aidha); si vedono tutti muoversi all’u-nisono, appunto come seguissero una rotta nota, tracciata...
La struttura del romanzo è simmetrica, nella successione dei capitoli e nella stessa crescita dei personaggi attraverso quei capitoli. Ci sono ricorrenze spia, che danno la chiave per comprendere quel che succede e perché sta succedendo proprio allora e proprio a loro. I capitoli sono 23: quello centrale fa da cerniera e chiude una parte aprendone un’altra, speculare nell’ordine degli eventi. Alla fine, sapremo le ragioni di certi episodi iniziali, scopriremo le motivazioni psicologiche insite in alcuni caratteri – se avremo partecipato con attenzione e disponibilità intellettuale, saremo anche appagati dall’esito a cui giunge l’autrice.
Certo, chi abbia confidenza con le teorie orientali sulla rein-carnazione meglio riesce a penetrare le linee portanti della storia, e insieme la psicologia dei personaggi e le loro azioni (calandosi – e questo è favorito dall’abilità dell’autrice di muoversi nell’epoca tardo-ottocentesca e nella geografia nordirlandese e non solo – attraverso i meandri in cui spesso i vari capitoli trascinano il lettore). Ma il romanzo si apre, proprio grazie alla lontananza spaziotemporale in cui si snoda – o si riannoda continuamente fino allo scioglimento –, tirando inevitabilmente dentro e rimettendo fuori senza sosta: La sorgente del fiume Bann diventa un porto/approdo dal quale ci si avvia per fare scoperte impensate e al quale si torna per dar ragione di quelle scoperte, appunto “scoperte” come dovevano essere. La sorgente del fiume Bann è il luogo ideale (oltre ad essere materialmente, geograficamente, il luogo centrale e il centro motore di questo romanzo) dove si finisce per trovare – come forse già si sapeva – un ubi consistere che insieme è pure un unde procedere... Un ritorno ad una nuova vita.
La giovane spericolata scrittrice che coraggiosamente esordisce con 250 pagine fitte di cose e persone, di sogni e pensieri, e ne esce sicuramente anch’ella cresciuta con la sua Aidha, anche lei, la scrittrice in erba che dimostra scaltrezza nell’organizzare e nello scrivere, predisposizione allo studio dei caratteri, fiducia – anche, non guasta – nella disponibilità del lettore medio a credere nell’as-sunto principale all’origine di tutto: siamo chi siamo già stati, e ci tocca completare, o almeno sviluppare, percorsi segnati, insieme a coloro che insieme a noi hanno fatto in parte quei percorsi.
È il nostro karma a indicarci la strada, inevitabile per quanto si tenti di evitarla, e a condurci – a tappe, ma senza tema di perderci – dov’è segnata la nostra meta. Il vero premio per quella scommessa è trovare (ri-trovare) l’altra metà che ci fu tolta – sappiamo che ci aspetta, ci sta cercando, anela al ricongiungimento. Perché dobbiamo essere due in uno, per vivere pienamente. Perché non saremo completi e felici fino a quando avremo completato (per quanto frammentato in diverse vite) il giro di esistenza che ci è stato assegnato.

Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • Atene e Roma
  • Autore
  • Lino Di Stefano
  • Collana
  • Il Cormorano
  • Pagine
  • 80
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 10,00

Capitolo I

La “fantascienza” nel mondo classico

Nel clima di generale attenzione che varie collane stanno dedicando, in questi ultimi tempi, alla “rinascita” del mondo classico, s’impone, il libro Luciano: Una storia vera che raccoglie ben cinque opere dello scrittore, libellista e rètore siriaco di lingua greca. Una delle ultime voci più vibranti, per genialità, capacità espressive e “vis polemica”, della letteratura ellenistica della cosiddetta Seconda Sofistica e, per dirla con un critico, il Tuscano, «un gustosissimo artefice dei tipi, un fantasioso pittore di situazioni psicologiche, un peregrino alla ricerca della Verità».
La raccolta in questione, si avvale, da una parte, dell’ottima traduzione di Luigi Settembrini (1813-1876) – il geniale autore de Le ricordanze della mia vita, il patriota che marcì per otto anni nelle carceri borboniche e patì l’esilio in Inghilterra, lo scrittore definito da Francesco De Sanctis come colui «nato a patire più che a fare, nato al martirio più che alla vittoria, santo tra santi, di una fede tanto più ardente quanto più pura di ogni interesse personale» –; dall’altra, delle Introduzioni, per ciascuna opera, delle note e delle illustrazioni di Alberto Savinio che. com’è noto, si distinse come pittore, scenografo, scrittore e musicista dopo essersi formato – era fratello di De Chirico – nella temperie culturale Surrealistica di Parigi e dell’Europa intera.
E proprio le illustrazioni saviniane, di stampo surrealistico, rendono il libro più attraente, unitamente all’apparato ermeneu-tico, sempre opportuno e puntuale, vista, altresì, come s’è accennato, la bella e chiara versione settembriniana che non risente affatto dell’usura del tempo salvo l’obsolescenza di qualche termine arcaico, giustamente sostituito dal Savinio con un vocabolo più vicino ai nostri tempi. La raccolta lucianea si apre con un’opera, l’Alessandro o il falso profeta, la quale non è altro che la storia di un ribaldo e megalomane che, spacciandosi per mago e discepolo di Pitagora, anche perché dotato, dice Luciano, «d’intelligenza e di sagacia», riesce nell’intento di irretire nelle sue maglie il grosso pubblico, diremmo noi oggi, per ragioni di fama e di lucro.
Fingendo, con geniale spudoratezza, di padroneggiare gli arcani segreti della natura e le arti occulte più subdole, Alessandro, uomo temerario, riesce ad ordire tante maligne trame – anche contro Luciano medesimo, che rischia di rimanere strangolato «come un sacrilego», egli dice – fino al punto di bruciare le stesse opere di Epicuro, dal sofista di Samosata perfettamente definito «divino sacerdote della verità, del quale egli solo ha conosciuto e rivelato la bellezza, e liberatore di coloro che ne seguitano la dottrina». Altrettanto bella quanto celebre la seconda pubblicazione, intitolata Il Menippo, o la Negromanzia, libro, chiarisce Al¬berto Savinio nell’“Introduzione”, «della maturità di Luciano, scritto intorno al 167». L’opera, redatta in dialogo, di cui l’autore è maestro, racconta le vicende di Menippo, appunto, che torna, co-m’egli si esprime, «dal regno della morta gente». Il colloquio fra quest’ultimo e l’amico Filonide, che gli chiede testualmente quale bisogno lo «mosse di andare laggiù», risulta stringente ed efficace, anche perché precorrendo, lo scrittore di Samosata, di molti secoli gli autori – nella fattispecie Virgilio, Dante ed altri – che immaginarono un viaggio nell’oltretomba, egli ce ne offre un quadro quanto mai realistico e macabramente seducente. Considerato, inoltre, che le pene infernali non sono altro che la conseguenza dei comportamenti umani tenuto conto – così Filonide replica a Menippo che gli chiede «come va il mondo, e che si fa nella città» – che, appunto, nel mondo «niente di nuovo, tutto è vecchio: si ruba, si spergiura, si fa usura, si scortica a dismisura».
Parole che sembrano scritte oggi, tanto convinta è in Luciano la considerazione, rafforzatasi con gli studi, che «chi predicava spregiar le ricchezze, le teneva afferrate coi denti; (...) chi spregiava la gloria, si sbracciava per conquistarla; quasi tutti biasimavano pubblicamente il piacere, e in privato non si attaccavano che al solo piacere».
Ne viene fuori, a questo punto, un quadro di rara icasticità, con Filonide curioso di conoscere la sorte degli uomini “post mortem” e Menippo, sotto mentite spoglie Luciano, pronto a soddisfarlo non solo col racconto della visione dei grandi uomini, ma anche con l’osservazione che «a guardare quello spettacolo, io ripensavo alla vita umana, che mi pare come una lunga processione». Con la Fortuna, aggiunge lo scrittore siro, che «è il cerimoniere che ordina e distribuisce gli uffici e le vesti». Chiarito che «la vita dell’ignorante – e qui ci sembra di sentire il Leopardi – è la migliore e la più saggia», con tale raccomandazione rivolta a Filonide e all’uomo in quanto tale, Luciano si accomiata dal lettore. «Manda alla malora i filosofi e i loro sillogismi, che son tutte sciocchezze».
Dopo il fantastico viaggio in cielo, nel libro Icaromenippo, dove incontra Empedocle, innumerevoli celesti e Giove, lagnantesi con gli Ateniesi, rei di non fargli «più festa da tanti anni», e dopo il richiamo di quest’ultimo per essersi spinto così in alto, la raccolta bompianea presenta quelli che sono considerati i capolavori del sofista di Samosata, vale a dire Lucio e l’asino e Una storia vera. Il primo, tratto da un racconto di un certo Lucio di Patre, ispirò sia il nostro Apuleio con le sue Metamorfosi – ritenute, a ragione, un’opera originale nel suo genere –, sia, appunto, Luciano, il quale soprattutto in tale volume, così come in altri, per Savinio, «nella sua qualità di artista “fine civiltà” (...) è tutto e nulla». Scritte in uno stile avvincente e in una forma quanto mai fluente, Lucio e l’asino, per un lato, e Una storia vera, per l’altro, confermano non solo le particolari qualità letterarie dell’“Archistator praefecti Aegypti”, bensì pure «l’alta fantasia», direbbe Dante, con cui quest’ultimo imbastisce l’ordito. Con l’eroe impegnato ad eli-minare l’asino rimasto, son parole di Luciano, «nudo quel Lucio che ero dentro», e costretto a sopportare infinite peripezie prima che le rose gli restituiscano dimensioni umane.
Per quel che concerne, invece, la Storia vera, «una delle ultime opere di Luciano, scritta tra il 177 e il 179», son parole di Savinio, essa rimane, senza dubbio, una grande prova del Siro, per il semplice motivo che la stessa influenzò non solo uomini del calibro dell’Ariosto, Rabelais, Collodi, Verne ed altri, ma evidenziò anche le peculiari attitudini del sofista a presentarsi come uno scrittore di fantascienza “ante litteram”. Viste le vicende, quasi da guerre stellari, fra Ippogrifi, Scagliamiglio, Aglipugnanti, Struzzipinconi, Insalumati, Tritobecchi e simili e il largo uso di altri neologismi onomatopeici, quali Pulciarcieri, Nottivago, Nonsisveglia, Tutta-notte etc., che tutt’insieme rendono alla perfezione il clima sur-realistico delle situazioni. Non mancano, in tale fantastoria, le prese in giro dei filosofi, quantunque nel rispetto di Platone, che «dicevasi abitare una città che egli stesso aveva fatto, con quel governo e leggi che egli le aveva dato».
Conclusa la faticosa, intricata e fantomatica avventura nei sentieri celesti – dopo la brutta esperienza nel ventre della balena – Luciano torna, dantescamente, a riveder la terra con la soddisfazione e, dice l’autore, «il prurito di lasciar qualche cosetta ai posteri». Alberto Savinio, sapiente curatore ed illustratore delle cinque opere lucianee, conclude giustamente la sua fatica con tali espressioni che sono da condividere in “toto”. «Tanta poesia era in questo uomo “della fine”, che dalla voluta parodia venne fuori una delle più straordinarie opere di poesia».