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  • Titolo
  • Anselmo Barone
  • Autore
  • A cura di Maurizio Zambardi
  • Pagine
  • 88
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 16,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-51-8


Biografia

Anselmo Barone nacque a San Pietro Infine l’11 novembre del 1890. Compiuti gli studi classici presso il Convitto dell’Abbazia di Montecassino si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Napoli, dove si laureò nel giugno del 1915.
Allievo prediletto dell’illustre clinico Antonio Cardarelli era de-stinato ad una folgorante carriera universitaria. Richiamato, però, da gravi ragioni familiari a San Pietro Infine, iniziò a svolgervi, con un certo disincanto, l’attività professionale, convinto di tornare al piú presto a Napoli, per riprendere gli studi, temporaneamente interrotti.
Ma il quotidiano contatto con le sofferenze, la estrema indigenza e le durissime condizioni di vita della quasi totalità degli abitanti di San Pietro Infine sconvolsero la mente e il cuore di Anselmo Baro-ne: egli capí che il suo posto non poteva essere ormai che tra quella gente. E cosí divenne missionario nel suo paese, dedicando alla co-munità tutto sé stesso, fino a quando il male che lo aveva colpito glielo consentí.
Morí a San Pietro Infine il 3 agosto 1956.

  • Titolo
  • Eppure
  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 64
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 9,00

L’immagine sullo specchio

È subito chiaro il senso di questa operazione editoriale (raccolta di pagine poetiche sparse negli ultimi cinque anni), di questa confessione lirica che Amerigo Iannacone offre ai lettori. Fin dai primi testi, infatti – e si direbbe addirittura fin dal titolo, che è un manifesto d’intenti –, leggiamo le giuste chiavi per entrare nel libro, nella sua trama tematica; leggiamo le parole/emblema, gli stilemi, i versi che ci dicono come orientarci, parlandoci delle sue problematiche esistenziali – che sono le nostre –, filtrate dalla sua (ben nota, a chi lo segue ormai da sempre) arguta bonomia, dalla sua oraziana misura di vita.
Cominciamo da “Enigma”, perché è chiaro a tutti che «non ci sono spiegazioni» a quello che ci tocca vivere, malgrado certe affermazioni delle scienze o le ingiunzioni della fede (chi ce l’ha), siamo spesso costretti a brancolare nel buio e incapaci di comprendere l’enigma che noi stessi siamo. “Eppure” (e chi sa quanto c’entra Galilei e la sua determinazione scientifica nel voler sciogliere gli enigmi dell’universo), anche se «siamo l’immagine / che passa sullo specchio / siamo il vento che fugge», non possiamo evitare di guardarci in quello specchio, nei riflessi che ci dicono a che punto siamo arrivati, quanto abbiamo sprecato e quanto dobbiamo cercare di mettere a frutto per andare avanti: «Tutto / – ogni ora ogni minuto – / fu degno sempre d’essere vissuto». Questa è una reminiscenza di una lezione antica, per la quale si potrebbe ancora scomodare il buon nome di Orazio, ma sono diversi quelli che vengono alla mente. «Anche gli eterei castelli / delle attese / servono alla vita»: proporsi obiettivi aiuta a guardare avanti, mettendo da parte il passato, considerando meglio il peso del presente, che appunto serve a costruire castelli di attesa.
«Aveva forse ragione Pirandello»: non siamo mai solo quello che vediamo, nemmeno quello che ci sforziamo di essere, quando riusciamo ad aggiustare la “corda civile” per presentarci in pubblico: siamo sempre quel che gli altri vedono in noi. Eppure (è proprio il caso di parafrasare l’autore) non ci si può fermare a rimirarsi troppo, ad acchittarci come damerini o fingere aspetti insoliti per adeguarci alle mode: invece si deve mostrare la faccia che si ha, la prima che lo specchio ci rimanda, la più “normale”.
La poesia è «voce di libertà». Ed è anche «medicina la poesia» – specie quando riporta a galla, magari anche con una punta di amarezza o disillusione, momenti lontani, memorie sopite eppure vive nella cassaforte dell’animo che tutto custodisce... Così «Ritorna rinasce rivive il candore / di un amore lontano»: è solo una pallida immagine, ma per un attimo è vita vera, è rivissuta emozione, e diventa, in poesia, anche testimonianza da condividere. La libertà di esprimersi, infatti, in poesia è necessità di confronto, è apertura di squarci sereni nel quotidiano ombrarsi degli eventi. Ci si trova e ci si ritrova nel gioco delle parole che alludono, suggeriscono e incantano ma pure accendono empiti di umana partecipazione all’universale trottola dell’esistere.
Il paese natale (che è quello in cui ancora vive, il poeta) è lo sfondo ideale per contemplare il vivere dell’umanità spicciola, terreno di privilegiata analisi di un acuto osservatore. E, in quell’ambito, la famiglia – come in particolare il figlio che si sposa (nella sezione finale del libro, “Nuptiae”, interamente dedicata al suo matrimonio) – assume un ruolo di ancora maggior valore umano, da considerare e mandare ad esempio, e costituisce – come sempre per Amerigo – un vasto bacino di stimoli letterari, per la forza evocativa che ancora hanno in lui, educato ai classici, alla grande poesia del passato, i rapporti familiari nella dimensione poetica.
Un’ultima considerazione va fatta sul rapporto che mi lega – da ormai quasi tre decenni – all’amico Amerigo, fratello di avventura poetica. Ci lega appunto la comune passione per la scrittura poetica, non solo: abbiamo entrambi la ferma convinzione che la poesia (per chi la fa e per chi la usa) possa essere “medicina”, ma in senso lato, nel senso cioè che ci si possa riconoscere nelle parole di un altro, riconoscerle come proprie e provarne dunque conforto. Medicina dunque adatta a situazioni diverse, ogni volta che nel dolore dei giorni si avverta il bisogno o solo il desiderio di una voce amica, di una parola buona.
Il fatto infine che Amerigo Iannacone sia un editore non gli ha impedito, pur avendo a disposizione diverse sue collane per pubblicare un libro, di pubblicarne alcuni nella collana che ho diretto per circa dieci anni, “la stanza del poeta” (nella quale uscirono Versetti e versacci nel 2006 e Oboe d’amore nel 2009). Anche ora entra in una collana da me diretta, e mi onora della sua firma insieme a quella di tanti amici che lo hanno fatto e lo fanno convinti – come lui – che “la stanza del poeta” abbia (anche in questa nuova serie che esce sotto le insegne delle Edizioni Eva) pareti senza porte né finestre, anzi, nemmeno pareti: questa nostra stanza è in definitiva soltanto uno spazio ideale, ove riunirsi ogni volta che si ha voglia, certi di potervi trovare altri spiriti amici, partecipi del grande, serissimo gioco (un enigma da decifrare insieme) che è la poesia quando parla di vita alla vita.

Dalla prefazione di Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • Dolci, giocosi ricordi
  • Autore
  • Silvio Prezioso
  • Pagine
  • 136
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 12,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-45-7


Prefazione
“Tutti i grandi sono stati bambini una volta”.
                                   (Da Il Piccolo Principe)

Dopo anni di studi e meticolosa ricerca, cucite insieme l’esperienza, le conoscenze personali e le fonti ravvisate nell’arco di vent’anni di osservazione della realtà frosolonese, nasce questo libro, per il quale, l’amico Silvio mi ha invitato a scriverne l’introduzione. A seguito della gentile, gratificante e inaspettata richiesta e, soprattutto dopo aver letto le pagine che seguono, naturale è stata la scrittura di queste poche righe che spero racchiudano al meglio il senso del libro.
Silvio, dunque, dà vita a questo scritto, nel quale, depurata la mente dal mero ricordo, rivive egli stesso e fa rivivere in tutti noi, un passato che fu... giocoso! Il gioco, protagonista delle righe, diventa guida per il lettore, che si aggira cosí tra le sfaccettature della propria identità e, allo stesso tempo, tra i vicoli di Frosolone, tra le antiche emozioni, tra gli affetti di un tempo, per tornare finalmente ad oggi, consapevole dell’arricchimento interiore di cui i ludi della sua infanzia lo hanno colmato.
Sí, proprio il gioco diventa descrittore di tutta una vita! Da elemento paideutico, di fondamentale importanza per la crescita del bambino, perché momento di creatività, di conoscenza e di relazione con gli altri e con lo spazio esterno, diventa elemento di analisi antropologica.
I giochi, infatti, rispecchiano uno status sociale ben preciso, un determinato periodo storico e sono pertanto una fonte storica. Ritengo che sia questo il merito di Silvio: partendo dalle descrizioni dei giochi dei bambini di Frosolone quando la TV era in bianco e nero, passando per i primi contatti avvenuti in forma ludica tra le mamme e i propri figli, e via via ai divertimenti col padre, egli fotografa e tramanda una realtà su base scientifica.
Cosí, partendo dai giochi entro le mura domestiche, descrive quelli svolti all’esterno come la palla, mazze e píuze, l’azzícche..., per arrivare a descrivere esce Girolamo, o per canticchiare le puerili filastrocche e gli stornelli di un tempo. E ancora i divertimenti dei bambini col monopattino, lo scambio delle figurine fino al telefono senza fili...
Tutti i giochi, dei quali ho citato solo alcuni, vengono descritti dettagliatamente nel loro regolamento e funzionamento e sono correlati a divertenti “marachelle” inscenate da bimbi frosolonesi ormai adulti, i cui nomi compaiono nel testo, generando stupore e riso in noi lettori!
Dunque, sentimenti, emozioni, e al contempo ragazzi canzonati dai grandi, lotte tra quartieri, punizioni della serie “quande ereviè a la casa ia l’avet!”, riempiono un crogiolo di dolcezza e affetto, filtri con cui Silvio ricorda la sua infanzia nel discorrere delle righe. Noi lettori potremo simpatizzare con Silvio, il quale in fondo altro non desidera se non il perenne legame con la nostra realtà, che può essere ancor piú amata se la guardiamo con gli occhi dello stupore e della meraviglia.
Credo infine che lo scritto lasci una scia di malinconia ed in parte di invidia in noi giovani d’oggi, figli di una società “socialnetworkizzata” che nulla riesce a vivere se non un triste contatto virtuale con se stessi e con gli altri. Il contatto fisico con gli amichetti, i profumi primaverili respirati a pieni polmoni durante una corsa, le “sbucciature” alle ginocchia per una caduta, le urla delle mamme affacciate alle finestre, sono ormai relegate all’orizzonte dei ricordi e Silvio, con la profondità concettuale del suo scritto, ci invita ad attingere giocosamente a quelle vive emozioni di un tempo che ancora oggi sono di fondamentale vitalità per tutti!

Mimma Fazioli

  • Autore
  • Giuseppe Napolitano
  • Titolo
  • Cartoline da Gaeta
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 80
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 8,00

L’anima profonda e pulsante di Gaeta respira e pervade questa originalissima opera di Giuseppe Napolitano: le strade e i paesaggi, gli uomini e le donne, la storia più antica e il presente più com-plesso, rivivono in ogni verso, in ogni immagine dipinta tra queste pagine. Escono fuori da queste cartoline, e si materializzano quasi davanti ai no-stri occhi, tutti gli angoli che fanno grande, e quasi incomprensibilmente bella, la nostra Città, dal Campanile a San Giovanni a Mare, dal lungomare di Serapo alla Cappella d’oro, a tutti i preziosi “scrigni” che si perdono e si nascondono tra le sue strade e i suoi marciapiedi. E dentro questo universo sono dipinti i mille volti degli uomini che la vivono e la popolano, come formiche sulla spiaggia di Serapo vista dal mare di Fontania, come pescatori che con delicato ed energico gesto intrecciano i fili del proprio lavoro alla ricerca di orizzonti più grandi, come i vecchi che alla Vecchia Stazione “inseguono il sole d’inverno e l’ombra d’estate giocando ai tavolini”.
Queste cartoline sono il prezioso frutto di una riflessione che unisce cuore e mente del poeta in quasi venti anni di vita, dalle prime impressioni che colpirono i suoi occhi quando giunse nella terra di Planco ed Enea, alle suggestioni che spinge il vedere Gaeta dalla finestra di Formia, fino alle emozioni e delusioni che la realtà di oggi offre a chiunque voglia ancora sorprendersi ad amarla. Non può non colpire l’amarezza che trapela dai versi dedicati alla “stranezza” della vita politica locale, alla incomprensibile mancanza di attenzione per la “bellezza” da cui invece siamo straordinariamente circondati e che purtroppo non compren-diamo fino in fondo. Perciò Gaeta appare come una “Femmina indolente... affacciata ai bordi della storia”, alla quale sfuggono le occasioni più importanti e più belle, così come fuggono via gli anni a segnare le belle facciate di chiese e monumenti.
Eppure “Gaeta la bella” continua a far innamorare di sé, da qualunque luogo giungano i suoi “ultimi ospiti”, continua ad affascinare, con la sua lunghissima storia e il suo rimanere instancabilmente aggrappata ad essa, forse troppo, forse troppo poco. Così ha fatto con i poeti del Mediterraneo che Giuseppe Napolitano ha radunato qui, trasformando il nostro porto e la nostra rada nell’approdo felice di versi che mai così belli furono composti per questa terra. Sarà forse questo “sangue di mare che pulsa dentro il nostro cuore”, o forse la “memoria d’antico che attraversa le vie e si diffonde sui muri... restando incisa nei pensieri degli uomini”, ma questa magia continua ad incantare e sorprendere, anche se poi ad aspettarci all’alba restano i sogni e i gesti incompiuti nel tempo da tutti coloro che a Gaeta hanno dedicato un pensiero.

Sabina Mitrano
Assessore alla cultura del comune di Gaeta

  • Titolo
  • En Ĝojo kaj Ploro
  • Autore
  • Manjo Verdulino
  • Collana
  • Tri Steloj
  • Anno
  • 2015
  • Pagine
  • 72
  • Prezzo
  • € 10,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-08-2


Antaŭparolo

La poezio ne havas geografiajn ĉirkaŭlimigojn kiel ne havas ĉirkaŭlimigojn la lingvo Esperanto. La poezio apartenas al la mondo kaj al la mondo apartenas Esperanto. La poezio parolas al la koro antaŭ ol la orelo de la homo kaj Esperanto parolas pri racio, homamo kaj frateco inter la homoj.
Multaj estas la esperantistoj, kiuj verkas aŭ klopodas verki poemojn, kaj eĉ iuj kiuj neniam verkis eĉ unu verson en sia gepatra lingvo, kiam ili esperantistiĝis ili komencis verki. Kaj estas interese – mi ne parolas kompreneble pri atingitaj rezultoj – konstati, kiel Esperanto allogas la poetojn. Vere estas ke tiuj, kiuj alproksimiĝas al Esperanto, estas ja personoj pli sentemaj kaj ofte pli kleraj ol la meza homo, sed estas vere ankaŭ, ke Esperanto, pro sia eŭfonieco, pro sia muzikeco, pro sia fleksebleco kaj ankaŭ pro sia internacieco, taŭgas pli ol aliaj lingvoj por la poezia verkado.
Kaj se Esperanto allogas verki poemojn eĉ tiujn, kiuj neniam estis verkintaj poemojn en sia gepatra lingvo, ĝi eĉ pli allogas, kompreneble, tiujn kiuj jam verkadis poezion antaŭ lerni Esperanton.
Unu el tiuj estas la aŭtorino de tiu ĉi libro, kiu – profesorino pri eksterlandaj lingvoj – antaŭ ol en la internacia estis verkinta poemojn en pluraj lingvoj.
La nomo Manjo Verdulino estas, kiel oni povas facile kompreni, pseŭdonimo. Pseŭdonimo per kiu la poetino intencas evidentigi sian amon al Esperanto kaj sian strebon al la internacieco (ŝi eĉ ne diras al ni, en kiu ŝtato ŝi loĝas, sed diras nur, ke ŝi loĝas en Eŭropo). «Mia patrujo – ŝi skribas – estas la mondo. / Mia haŭto havas la kolorojn de la ĉielarko. [...] Mi parolas Esperante / pri la paco universala.»
Pluraj temoj trairas tiun ĉi poemaron, unu el la plej oftaj kaj signifoplenaj estas la religia temo, kaj tre ofte la versaĵoj fariĝas preĝoj: «Kie estis Vi, Disinjoro, / kiam mi ploris? / Mi ne povis vidi Vin... / Mi estis en la vento / sekiganta viajn larmojn... // Kie estis Vi, Disinjoro, / kiam mia koro / bruladis pro la doloro? / Mi estis en la pluvo / refreŝiganta vin… // [...] Kie estis Vi, Disinjoro, / kiam mi estis soifa / kaj malsata? / Mi estis kaj estas / en la Eŭkaristio, / Kiu vin nutras / kaj malsoifigas / por ke ne plu / vi mortos…»; “Preĝo”: «Disinjoro, / multajn aĵojn / mi ne volas. / Nur ombrelon / kiam pluvas, / varman kovrilon / kiam frostas, / [...] ke / ĉiu homo / ĉiam memoru / pri la bono / de la homaro!»
La spiritecon ni tre ofte renkontas en la libro, sed ni trovas plurajn aliajn sentojn, precipe la amon. La amo estas temo, kiun ni trovas laŭ ĝiaj pluraj sencoj: la amo por la naturo; la amo por la naskiĝloko («En mia bela vilaĝeto» kie «la koro amas / eĉ la rubojn»); la amo por la partnero («Mi bezonas / kisi lipojn, / karesi vizaĝon, / brakumi iun forte, / koron pulsantan / unisone / kun la mia, / dolĉajn vortojn susuratajn…»). Kaj ni trovas ankaŭ atentemon kaj homaman senton al la aliaj, ĉefe al la plejaj bezonuloj (“Vagisto”, “Maljunuloj” kaj eĉ “Malfeliĉa hundo” kiun oni forĵetis «kiel ŝuaĉon»).
Tre bela la poeziaĵo dediĉita al nia majstro Zamenhof, titolita “Ho, Ludoviko Lazaro!”: «Neniu deklaris / vin sanktulo / ĉar miraklisto vi ne estis, / ho, Ludoviko Lazaro! // Sed viro kiu al mondo proponas / fratecon, amon kaj egalecon / por mi estas la plej sankta en la homaro!»
Konlude, en tiu ĉi libro ni trovas “ĝojon kaj ploron”, kiel en la vivo ni renkontas ĝojon kaj ploron. Kaj ni trovas, evidente, ankaŭ momentojn de pasio – ama pasio, ideala pasio, religia pasio –; momentojn de sereneco, momentojn de kortuŝo.
La verkmaniero de Manjo Verdulino estas tuja, senpera, sen apartaj leksikaj preciozemoj, sed ĝi estas efika kaj plaĉa. La versoj estas ĝenerale liberaj kaj sen rimoj kaj tamen ili plutenas iun sian agrablan internan muzikecon.
Tiu ĉi estas la unua esperanta poemaro de Manjo Verdulino, kiu jam estis publikiginta librojn en aliaj lingvoj, se ni povas diri, ke ĝi atingis tute pozitivan rezulton, kiu estas inda resti en la Esperanta literaturo.

Amerigo janakono

  • Titolo
  • Ferma il tuo esodo
  • Autrici
  • Carmen Buono, Chiara Franchitti
  • Collana
  • Il nastro e la penna di una voce
  • Pagine
  • 84
  • Prezzo
  • € 12,00

Per comprendere il titolo – Il nastro e la penna di una voce – della collana che questo libro apre, bisogne-rebbe conoscere le due giovani che la curano, Carmen Buono e Chiara Franchitti, il “nastro” appunto e la “penna” di una “voce”, la voce di don Salvatore Rinaldi, portavoce di Voce piú alta. Tra i molti talenti di don Salvatore, personaggio ben noto nella sua città e nella sua provincia, c’è quello di avere la capacità di esprimere concetti elevati par-lando a braccio. Capacità di parlare – si diceva una volta – come un libro stampato. Ogni domenica don Salvatore celebra piú di una Messa e tiene piú di un’omelia, sempre a braccio, e tutte sono originali, tutte sono autentiche, tutte di grande interesse. E adatta, don Salvatore, il suo modo di parlare al pub-blico dei fedeli che ha davanti, con una lingua eleva-ta o addirittura aulica oppure con un linguaggio basso, magari inframmettendo parole o espressioni dialettali. Non si ripete, non è mai monotono, mai banale.
Partecipando alla Messa, Carmen, il “nastro”, re-gistra, Chiara, la “penna”, trascrive, le omelie di don Salvatore. Un lavoro prezioso, perché salvano dall’o-blio e consegnano alla carta stampata testi di grande interesse, che diversamente andrebbero perduti. E sono infatti proprio di grande interesse – e il lettore se ne renderà conto leggendo il libro – le omelie di don Salvatore; lo sono sia per la sua notevole prepa-razione culturale e teologica (ricordiamo che è stato per anni il chierichetto di Paolo VI), sia per le sue in-nate doti di intelligenza e anche di creatività.
È ovvio che quello del “nastro” e della “penna” è un lavoro non sempre facile, perché l’efficacia di un testo orale è legato anche all’espressività, al tono della voce, al ritmo, alla mimica ed ad altri elementi non riproducibili con la scrittura, e poi il pubblico della carta stampata è un pubblico diverso da quello che partecipa una mattina a una funzione religiosa. E quindi nel riportare per iscritto un testo che era orale e fatto a braccio c’è bisogno di un lavoro di editing e talvolta di adattamento e comunque senza mai inter-venire nei concetti e senza alterare né il contenuto, né lo spirito del testo. Un lavoro che le due giovani hanno fatto in modo eccellente pur senza mai sosti-tuirsi o sovrapporsi a don Salvatore. Di don Salvato-re infatti sono tutti i testi, anche se talvolta, leggendo delle bellissime espressioni, viene da domandarsi «possibile che abbia espresso a braccio un concetto cosí elevato e in modo cosí appropriato, con parole tanto belle?». Sí, don Salvatore ha queste capacità: sono delle doti innate, sia pure affinate da cultura e da studio.
Probabilmente c’è da rammaricarsi solo per il fatto che, per ovvi motivi, il “nastro” e la “penna” non riescono a partecipare a tutte le Messe e a registrare tutte le omelie. E d’altra parte don Salvatore non è tipo da considerare preziose le proprie parole, che in realtà quasi sempre lo sono, e quindi non si scrive mai in prima persona i testi.
Questo volume intende aprire una serie di pubblicazioni, nella collana che porta appunto il nome di Il nastro e la penna di una voce, ognuna delle quali avrà un proprio titolo e sarà legata a un periodo dell’anno liturgico. Si parte con Il tempo di Pasqua (2013-2014), seguiranno altri raggruppamenti di omelie che potranno essere sul Natale, sulla Quaresima, su Pasqua 2015, e cosí via.
Questo è quanto si ripromettono Carmen Buono e Chiara Franchitti, perché, come dicevano i nostri avi, verba volant ma scripta manent.

Amerigo Iannacone

  • Titolo
  • Il sogno e la realtà
  • Autore
  • Adriana Panza
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 128
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 12,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-41-9

Se non avessi letto il nome italiano dell’autrice Adriana Panza, avrei pensato che questa lunga coinvolgente narrazione era ancora la sconfinata nostalgia del gran-de perduto amore di Karen Blixen Finecke (1885-1962), la scrittrice danese che visse in Africa, precisamente nel territo-rio keniota, dal 1914 al 1931. Lei incontrò, sul suolo africa-no, un uomo della sua stessa razza, singolare, che amava re-citare poesie anche seduto su una comune cassa da imbal-laggio, anche in momenti impensati, col suo senso innato per la libertà: «Devi mutare il tuo canto luttuoso / in un ritmo gaio; / non verrò mai per pietà, / ma per piacere.» (Dal libro La mia Africa di Karen Blixen Finecke, Universale Economica Feltrinelli, Milano, Anno 2001, Euro 7,23, pag. 266). E quindi nomade – il titolo dell’opera artistica in papier collé dell’autrice nella copertina del precedente libro, Tra storia e vita di Adriana Panza è appunto Il Nomade,– avventuriero inglese spericolato col suo aeroplano leggero, Denys Finch-Hatton e si innamorarono perdutamente, poi un giorno ar-rivò la notizia del suo incidente aereo e tutto finí, anche la sua permanenza in Africa. Il suo libro che la rese celebre, riassunto della sua esperienza africana, uscí nel 1937 col ti-tolo La mia Africa (Out of Africa), e nel 1985 il regista ame-ricano Sydney Pollack ne fece un’indimenticabile e strug-gente pellicola cinematografica, con la straordinaria scelta dei due primi protagonisti, quali Meryl Streep e Robert Red-ford, tanto da meritarsi l’anno dopo ben sette premi Oscar: miglior film, regia, sceneggiatura, suono, scenografia, foto-grafia e colonna sonora composta da John Barry, le cui note riconducono inequivocabilmente verso qualcosa che si rim-piange, di annullato per sempre. Un intreccio, dunque, tra letteratura, cinema, esistenza realmente vissuta tra le gioie e il dramma che conchiude tutto, e l’ideale sogno di poter vivere su questa Terra un amore vero per lunghissimo tem-po. «I bianchi cercano in tutti i modi di proteggersi dall’i-gnoto e dagli assalti del fato; l’indigeno, invece, considera il destino un amico, perché è nelle sue mani da sempre; per lui, in un certo senso, è la sua casa, l’oscurità familiare della capanna, il solco profondo delle sue radici.» (Dalla quarta di copertina del libro La mia Africa). Invece qui, lui si chiama-va Alfredo e a lui è stato completamente destinato questo ro-manzo dove nulla è stato consegnato nelle fauci dell’oblio: ogni attimo, ogni data, ogni posto visitato o in cui si è sog-giornati per un certo periodo, in Africa, in Italia; gli incontri, gli spettacoli, la storia sociale parallela alla loro storia d’a-more, tra Alfredo e colei che adesso lo immortala, i perso-naggi teatrali, le forme teatrali – il teatro dell’Assurdo, il teatro di Luigi Pirandello –, della musica di allora – Lucio Battisti, Mina agli esordi e cosí Adriano Celentano –, della letteratura come Lev Tolstoj, Fjodor Dostojevski, Gabriele D’Annunzio; i cenni storici e l’origine leggendaria dei nomi dei paesi come Pescasseroli, in Italia, «dall’unione dei due nomi: Pesca e Serolo.» (Pag. 100). Ovvero un altro grande amore finito in tragedia, quello di Pesca, una bellissima sara-cena e il crociato Serolo. Una cronistoria che appare come un ricamo certosino dalle innumerevoli sfumature, nella quale e in parallelo si smatassa l’unione delle due esistenze incontratesi laggiú a Baidoa, posta a quasi trecento chilome-tri da Mogadiscio, la capitale della Somalia e il punto d’inizio di questa meravigliosa storia d’amore. Con Mogadiscio inizia e con essa termina la narrazione, certamente a simboleggiare il tragitto di una grande circonferenza che racchiude le pro-prie e le altrui conoscenze. Alfredo era ed ha lavorato da Pe-rito Agrario, e conosceva ogni pianta col loro specifico nome in latino e sapeva anche l’origine mitologico del nome dei «fiori del Crocus sativus limneo, meglio conosciuti con il no-me di zafferano (dall’arabo: Zaafran), una delle piú antiche spezie dalle mille qualità, usata per dare quell’inconfondibile sapore e colore a tante pietanze prelibate.» (Pag. 65). Lo zafferano, mitologicamente parlando, nacque quando il gio-vane Krokos fu scoperto dal dio Ermes che amava la ninfa Smilace, la sua preferita, e allora per vendetta venne trasfor-mato nel colorito fiore del Croco.
Diverse sono state le destinazioni d’impiego per Alfredo e conseguentemente per la sua famiglia. Il ritorno in Italia, prima dai suoi a Macerata, poi la permanenza a L’Aquila, a Cassino, e infine la tragedia di “Quel giorno”: «Era una domenica come tante altre, ma con un tempo uggioso e pieno di nebbia ed io ero impegnata al massimo nelle mille faccende di casa.» (Pag. 111). Una fioritura d’immagini che non si affollano con simultaneità, non si disturbano fra loro, non si scontornano, ma defluiscono semplicemente alla maniera di come diceva il filosofo antico greco Eràclito di Èfeso (ca520-ca460 a. C.) che tutto scorre, niente rimane inalterato anche da un attimo all’altro, anche l’acqua del fiume non è mai la stessa. L’autrice Adriana Panza era consapevole che il marito scriveva poesie, aveva scritto anche un testo teatrale, avrebbe voluto fare l’attore e per un attimo della sua breve vita si trovò ad interpretare il ruolo del protagonista de L’uomo dal fiore in bocca, uno dei capo-lavori di Pirandello, che poi venne magistralmente interpre-tato nel 1970, per la RAI, dal grande mattatore Vittorio Gass-man (1922-2000); ma invece ha svolto, sempre coscienzio-samente, quel lavoro che i genitori gli avevano consigliato da giovane, lo stesso di suo fratello maggiore Ugo, anche lui perito agrario.
Presumibilmente è stato questo il motivo trai-nante che ha dato impulso al fluido narrativo dell’autrice, la quale di fronte alla mancata realizzazione artistica del mari-to si è sentita in dovere di commemorare non solo lui, ma la sua eclettica vocazione letteraria: egli ha lasciato pubblicata una sua raccolta poetica dal titolo Frammenti e una comme-dia teatrale in tre atti, dal titolo Esistenza sbiadita. Un tributo dunque per colmare un vuoto iniziato da quel lontano 1972 con un richiamo inesistente, e quindi un presentimento ve-nuto all’improvviso quando stava da sola. Anche Karen Bli-xen scrisse di un oscuro presentimento nell’attesa del (non-avvenuto) ritorno di Denys, morto nell’incidente col suo aereo, nel suo libro di memorie: «Ogni volta che sono stata male o ho avuto delle preoccupazioni in Africa, ho sofferto di una strana idea che non potevo scacciare. Avevo la sensa-zione, in questi casi, che tutto intorno a me fosse in pericolo o in pena e che, nel dramma, io mi trovassi chissà come dalla parte sbagliata e venissi quindi guardata con diffidenza e paura da tutti.» (Da La mia Africa, pag. 270). Alfredo e il figlioletto di appena otto anni, sono adesso in quel cerchio che la moglie-madre ha disegnato, grazie alla sua compiuta opera narrativa, per loro, per proteggere il loro ricordo dalla corruttibilità, e questo cerchio è il tragitto di una vita che ha richiamato a sé nitidamente le altre vite purtroppo spezzate prematuramente, ma che galleggiano nell’amniotica attesa di un meraviglioso risveglio.

Isabella Michela Affinito

  • Autore
  • Giuseppina Scotti
  • Titolo
  • I porti dell'anima
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 48
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 8,00


Non l’ha fatto a caso, Giuseppina Scotti (niente succede per caso, in poesia), non ha costruito a caso questa esile raccolta di testi, dando ad essi, a tutti, un titolo morfologi-camente equivalente e disponendoli nell’ordi-ne alfabetico, appunto, dei titoli... Ora possiamo chiederci perché e cercare una chiave logica, oppure seguire il percorso poetico che la poetessa ci offre, facendoci semplicemente guidare sulla strada che ha scelto di percorrere alla ricerca – sembra – di una sua “verità” (ed è il titolo dell’ultimo testo). Una verità che potrebbe poi essere condivisibile, certo, ma è e deve restare la sua proposta, il suo gioco esistenziale.
Manca però la “bontà”, all’inizio, che avrebbe degnamente aperto la silloge – e chi conosce l’autrice, la sua disponibilità e la sua dedizione al mondo dell’arte, sa che è una delle sue più vive qualità. Come lo è del poeta che, se non è buono, non sa darsi, e la poesia è dono.
Si leggono, navigando per questi porti dell’anima, strani accostamenti e addirittura illuminanti coppie di titoli (tanto per rimanere ad esaminare la struttura dell’esile libro, comunque denso, malgrado la scarna offerta): sarà sempre un caso che ci siano affiancate “Felicità” e “Fragilità”, “Incredulità” e “Irrealtà”, “Vacuità” e “Verità”? Dobbiamo pensare che per caso l’iniziale “Complessità” vada a sfociare nella “Verità” finale?
Conoscere Giuseppina Scotti da tanto tem-po (ci incontrammo a Norcia, in una cornice poetica e mistica che subito ci fece amici e confidenti) e ritrovarla, ri-conoscerla in que-ste poesie, è il sigillo della certezza che non muta verso: con lei si va dritti al cuore, sem-pre, in un abbraccio di freschezza e bel-lezza, poiché bella e fresca è sempre la sua maniera di esprimersi.
Della poesia di Pina so tutto; nel tempo ne ho scritto e parlato, presentando alcuni dei suoi libri... il bello di questa nostra amicizia è nell’essersi mantenuta curiosa di noi, nell’aver conservato, nei lunghi anni che passano e pure ci spingono a porti diversi, la voglia di sapere le nostre cose e scambiarcene le impressioni poetiche avute in sorte.
I porti dell’anima sono quelli in cui la vita ci sospinge, a volte facendoci sbattere sul molo, incauti o distratti, a volte fortunati se ci attende un amico o un’anima buona con una lanterna nella notte buia...
Un “ciottolo lanciato a perdersi nel vuoto” è l’avventura del vivere (in “Felicità”), un dado che non smette di volteggiare facendoci ansiosi di conoscere il verdetto: la poesia scruta oltre il nostro sguardo quotidiano e vaga in cerca di approdi in cui rifugiarci.
Il dubbio è in fondo la vita stessa (come dice Pina, in “Spiritualità”): non c’è bisogno di scomodare i filosofi, ma è proprio la capacità di farsi domande sull’esistere che ce lo rende amico, e il poeta è anche capace di darsi risposte, di vincere quel dubbio e conquistare una sua ragione, una dimensione in qualche misura soddisfacente.
Se si volesse evidenziare qualche tema, le molle che spingono l’arte in versi di Giuseppina Scotti, qui troveremmo un intimo scatto, “in impeto di sentimento costruito dal nulla” (“Nullità”), verso un cielo più puro, un bene più raccolto, “in nudità d’anima immersa in pensiero divino” – per festeggiare una ricorrenza anagrafica importante (non si dice l’età di una donna, ma di un poeta sì), non si poteva fare un regalo più importante: questa silloge di versi è uno dei vertici nella produzione poetica di Pina, e avermela affidata per questa nuova collana della stanza del poeta è ancora un segno forte della nostra amicizia, del quale la ringrazio, augurando a lei un sereno anno e ai lettori di cogliere insieme a lei la tangibile manifestazione della sua generosa interpretazione dell’essere donna e poeta.

Giuseppe Napolitano
20 maggio 2015

  • Titolo
  • Coscienza:
    già e non ancora
  • Autore
  • Salvatore Rinaldi
  • Pagine
  • 148
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 14,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-40-2


Siamo lieti di ospitare nella collana IBIS, di psicologia e neuroscienze, il saggio del Prof. Salvatore Ri-naldi sul tema della coscienza.
Il nome del Professore non ci era estraneo per i suoi studi antropologici sulle culture degli Zingari Rom e per i numerosi interventi su argomenti di bioetica, disciplina nella quale il Professore può vantare anche un Dottorato di Ricerca.
Ma Rinaldi – anche se avvezzo a muoversi in vari ambiti del sapere – è soprattutto una persona di fede cristiana ed un sacerdote, quindi è naturale che abbia voluto dare al presente lavoro un taglio decisamente teologico.
A nostro avviso principalmente due sono i punti di riferimento che orientano tutto il saggio: la Sacra Scrittura – a cominciare dalla dottrina dell’apostolo Paolo – ed i documenti del magistero cattolico. Riecheggia infatti l’insegnamento della Gaudium et Spes, la poderosa costituzione pastorale attraverso cui il Concilio Vaticano II seppe parlare di speranza alla nostra confusa e scoraggiata contemporaneità.
Quindi lo scritto di Rinaldi (la cui prima stesura risale ad oltre 20 anni or sono), sia pure nella sua brevità ed essenzialità, si pone come prezioso completamento alla miriade di studi sulla coscienza che, a partire dagli anni ’50, hanno invaso le riviste scientifiche e filosofiche.
L’argomento “coscienza” è indagato da secoli, anche se nell’accezione “moderna” ne fa specifico oggetto di riflessione (forse per primo) il filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, nella seconda metà del 1600. Dobbiamo però attendere l’avvento delle discipline che studiano il cervello, anatomicamente considerato, perché il tema della coscienza divenga interessante per quei “figli dell’Illuminismo” che avrebbero poi dato forma al concetto di scienza che utilizziamo oggi. È il neurofisiologo Carl Wernicke, sul calare del XIX secolo (1874), che tenta una localizzazione cerebrale della “funzione” della coscienza, considerandola in stretta relazione con la possibilità del soggetto di avere dialogo interiore.
Se per Wernicke la coscienza è dunque una sorta di meccanismo fisiologico addirittura rapportabile ad un’area specifica della corteccia dell’encefalo – ed in quanto tale assimilabile ad una funzione d’organo – per lo psicologo Wilhelm Max Wundt, connazionale e contemporaneo di Wernicke, è qualcosa di assai piú complesso, «premessa di ogni esperienza interiore» (è sempre il 1874 – anno in cui Wernicke pubblica gli studi sulle aree cerebrali), né circoscrivibile, né commensurabile.
Procedendo da queste due posizioni, lungo il corso del XX secolo, si configurano le grandi correnti di pensiero che disserteranno sulla coscienza: alla visione di Wernicke si ispirano gli studi che tentano di analizzare la coscienza attraverso tecniche di indagine bioelettrico-funzionale, a partire dalle ricerche del ’29 di Hans Berger, l’inventore dell’EEG (elettroencefalogramma), fino ad arrivare alle moderne apparecchiature per la neuro-imaging funzionale, quali la PET (tomografia ad emissione di positroni) e la SPET (tomoscintigrafia cerebrale ad emissione di singolo fotone) che consentono addirittura di fotografare di stati di coscienza “in movimento”.
Con la posizione di Wilhelm Max Wundt si coniugano invece quelle interpretazioni fenomenologico/fi-losofiche per le quali la coscienza è qualcosa che trascende la mera materialità neuroanatomica. Citiamo solo alcuni nomi: Karl Jaspers, Edmund Husserl, Maurice Merleau-Ponty, Martin Heidegger, Gerard Edelman, che considerano la coscienza assai piú di una funzione, senza necessariamente aprirsi a scenari spiritualisti o addirittura metafisici.
Da oltre 50 anni gli scienziati piú attenti hanno comunque cercato di superare la dicotomia organicismo sí, organicismo no, per aprirsi alla prospettiva di una complessità mirante all’integrazione di diverse branche del sapere – come il congresso internazionale di Boston sulle neuroscienze cognitive, del 1956, ebbe a dimostrare: ricordiamo i lavori di George Armitage Miller, Noam Chomsky (che nel 2005 ha ricevuto la Laurea Honoris Causa in Psicologia all’Università di Bologna), Hilary Putnam, Jerome Bruner. Ancora ne fu prova l’attività della rivista Journal of Cognitive Neuroscience – emanazione del congresso – che ospitò, sul tema della coscienza, contributi tanto di noti neurologi, quanto di celebri filosofi.
Ormai gli studi sulla coscienza non sono piú appannaggio di un’unica categoria di specialisti, ma necessitano di un poderoso sforzo di collaborazione interdisciplinare. In questo panorama, che sempre piú tende ad allargarsi, trovano, a pieno titolo, diritto di cittadinanza le discipline morali, cioè quelle che indagano la relazione tra coscienza e coscienza etica, ed è propriamente in tale contesto che si inserisce il saggio di Salvatore Rinaldi.
Potremmo dire che la dimensione etica è una funzione della coscienza? Forse sí, almeno se utilizziamo con una certa elasticità la parola “funzione”. La lingua tedesca – sempre piú preoccupata della nostra circa il rischio di confusione dei significati – preferisce usare due diversi termini per definire la coscienza in senso lato e la coscienza morale: nel primo caso usa l’espressione Bewusstsein e nel secondo la parola Gewissen, intendendo quell’insieme di processi, sia a livello cognitivo che emozionale, che stanno alla base della formazione della misteriosa voce interiore che, dalla notte dei tempi, guida le azioni degli uomini e con esse i loro destini… Ma qui ci fermiamo, altrimenti entreremmo nel territorio del Prof. Rinaldi, al quale invece è d’uopo che cediamo la parola.

Forlí, 16 marzo 2014
Gianni Tadolini

  • Autore
  • Salvatore Di Benedetto
  • Titolo
  • Dalla Sicilia alla Sicilia
  • Pagine
  • 104
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 18,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-42-6


Prefazione
Introduzione a Salvatore di Benedetto (1911-2006)
e alla sua produzione letteraria in prosa e in poesia

Salvatore di Benedetto nasce in una famiglia benestante borghese di Raffadali (Agri-gento) il 19 novembre 1911 e muore il 1° maggio del 2006. All’età di diciotto anni, ancora studente liceale, a causa della sua partecipazione nella ricostruzione del Partito Comunista in Sicilia, viene arrestato e condannato al confino per cinque anni, inviato al soggiorno obbligato prima in Etiopia, allora colonia italiana, e poi a Ventotene. Da qui viene condotto in catene a Palermo per l’esame di laurea alla facoltà di giurisprudenza. Riacquistata la libertà, si trasferisce al nord e a Milano frequenta la facoltà di Lettere in quell’Università; qui si occupa di attività antifascista clandestina, di azioni partigiane durante la guerra e ricostruzione del Partitito Comunista nell’Italia settentrionale e centrale. È stato a lungo un militante attivo del Partito Comunista ed è stato, per quattro legislature, eletto Deputato e Senatore nel Parlamento Italiano. Ritornato in Sicilia si impegna in una nuova battaglia per l’emancipazione dei contadini siciliani, in un’atmosfera di lotta costante contro la mafia, che in quel tempo assassinò parecchi suoi compagni militanti. Questo coraggioso sostegno della classe operaia gli ha guadagnato la stima dei suoi conterranei, ed è stato quindi, per i successivi trent’anni, ininterrottamente riconfermato Sindaco della sua cittadina natale Raffadali. Quale Sindaco di Raffdali è stato il promotore ed iniziatore di molte attività culturali e sociali per il miglioramento ed il progresso della vita civile e sociale.
Numerosi sono stati altresí i suoi interessi nel campo della cultura e della letteratura quale scrittore. È stato scrittore, poeta, studioso delle tradizioni popolari, collezionista di reperti archeologici e ricercatore appassionato della Storia locale. È morto il 1° maggio 2006.
Della sua opera in prosa sono degni di nota e di lettura i seguenti volumi:

- Civiltà contadina, ed. IlaPlama 1978;
- Dalla Sicilia alla Sicilia, ed. IlaPalma 1980;
- La Sicila non è un isola, ed IlaPalma 1983;
- Il paese del marinaio, ed.IlaPlama 1988;
- Viva il sogno, ed. IlaPlama 1990;
- Nessuno muore, ed. IlaPlama 1995; ed altri.

L’unica sua raccolta di poesie è Le parole nemiche, Edizioni IlaPalma 1980. Secondo Salvatore di Benedetto, uomo attivo ed impegnato su vari fronti, la parola è nemica: essa è la continuazione della perenne lotta contro le mistificazioni che allontanano l’uomo dal dovere di fare, agire, cambiare la propria sorte. Persiste la profonda inadeguatezza della parola scritta e parlata per esprimere in modo compiuto ed esaustivo la forza del pensiero. Per lui la poesia è un fatto intimo che tende a raggiungere gli altri, per solidarizzare con i sentimenti ed i perché della vita degli altri esseri umani. Lui, quale poeta, usa la parola in modo parsimonioso: è poeta non colui che dice, ma colui che crea le parole come se fossero fiamme e serpenti, poiché le verità non possono essere celate, ed asserire e vivere queste verità è uno sforzo immane.
Cosí si giustifica, secondo il poeta, anche il suo costante impegno politico e sociale a favore dell’emancipazione delle classi operaie.