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  • Titolo
  • La rondine innamorata
  • Autore
  • Rosario Stabile
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 80
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 10,00

Già l’inizio di questa raccolta esprime particolare positività e gioia. Rosario apre il suo primo racconto con l’arrivo della primavera. È ben noto che la primavera è sinonimo di risveglio e di rinascita, espressi in questo caso con parole studiate semplici e poetiche allo stesso tempo: «Il periodo piú bello dell’anno è la primavera, quando arrivano le belle giornate, sbocciano i primi fiori, fioriscono gli alberi, gli uccelli con il loro cinguettio colorano il cielo di festa». I primi personaggi che incontriamo sono il principe e la rondine, che dà il titolo all’intera raccolta.
Velatamente sembra che Rosario voglia autoidentificarsi a volte nell’uno a volte nell’altra. Il principe, come Rosario, è circondato sempre da tante persone (che nel caso del principe sono i membri della servitú, nel caso di Rosario la famiglia e gli amici). Nonostante ciò, ci sono giorni in cui si sente solo. Ma supplisce a questa solitudine una gioia: la compagnia di un amico speciale: un tenero animale. Questo accade ne “La rondine innamorata”, ma anche nella quotidianità di Rosario. Nella storia, la sua spiccata sensibilità e il suo innato affetto fanno diventare subito il principe e la rondine amici, con spontaneità. Cosí come nel racconto “Io e Asia” saranno Rosario e il pastore tedesco Asia a diventare presto amici. E ancora nel racconto “Pedra e lo spirito del lupo”, quando il giovane Erik si avvicinò per la prima volta a Pedra e lei «affettuosamente gli leccò la mano, come a volerlo accarezzare». Subito «il nonno gli spiegò che con quel gesto Pedra aveva scelto il suo migliore amico e che [...] il giovane doveva ritenersi molto fortunato, perché di tanti cani quello era in assoluto il piú intelligente e affettuoso». Oppure nel racconto “A Stella e Luna, inseparabili amiche”, quando il piccolo Matteo si trova a dover scegliere un gattino, sceglie la dolce micetta Stella come sua migliore amica, a cui ben presto si aggiunse un’altra amica, la cagnolina Luna. Cosí avviene anche in “Leo, amico di una vita”, appunto, in cui il gattino Leo «occupa un posto speciale» nel cuore di Rosario. E ancora in “Cettina” dove Rosario afferma: «Era la migliore amica che si potesse desiderare a volte anche meglio di tante persone». E spesso usa parole che indicano emozioni o sentimenti riferiti ad animali. Ad esempio nel racconto “Io e Asia” troviamo affetto, bontà, tristezza, sofferenza, prontezza a difendere chiunque si trovi in difficoltà... O nel racconto “Il sogno” scrive che tra gli animali «regnavano pace, fratellanza e smisurato amore per il prossimo» e che una loro caratteristica innata era l’accoglienza degli ospiti. O ancora nel racconto “A Leo, amico di una vita” il suo «piccolo batuffolo di pelo grigio» è affettuoso, dolce, tenero e soffre, quando Rosario non è con lui.
Rosario nell’arco della sua vita ha avuto davvero tanti amici a quattro zampe (o a due zampe e due ali). Lui stesso scrive: «La mia casa ha ospitato cani, gatti, criceti, tartarughe, un merlo indiano, canarini», animali che nella relazione privilegiata con Rosario diventano per lui quasi persone. All’inizio del racconto “A Leo, amico di una vita” Rosario giungerà persino ad affermare di credere che anche gli animali hanno un’anima, anzi, secondo Rosario hanno piú diritto loro di averne una, rispetto a «quelle persone che li odiano e fanno loro del male, maltrattandoli o abbandonandoli per strada».
Già nel primo racconto si evince la purezza dei sentimenti di Rosario. Quando al castello giunge la bellissima principessa e il principe se ne innamora, la rondine non si rattrista, né esprime in alcun modo gelosia, anzi «era felice per il suo amato perché finalmente non sarebbe stato piú solo» e persino in punto di morte trova motivo di gioia: «Emise il suo ultimo canto e fu il piú bel canto di tutta la sua vita. Fu felice di morire tra le mani del suo amato principe».
Questo saper cogliere il bene in ogni episodio, occasione, avvenimento che la vita può presentare, anche in quelli apparentemente tristi, infelici, dolorosi è una caratteristica che consente l’autoidentificazione di Rosario – che per altri aspetti nella stessa storia si autoidentifica nel principe – nella rondine.
L’amore di Rosario per gli animali si esprime, toccando un apice, nel secondo racconto che inizia proprio dicendo che «chi ama davvero i cani, li ama tutti, non solo quelli di razza pura». E questo la dice lunga sulla personalità di Rosario. Per esprimere liberamente il suo punto di vista, cede la parola al suo orsacchiotto che nel racconto “Il sogno” dice: «Vedi perché noi viviamo in pace e armonia? Non ci arrabbiamo mai, se qualcuno ci fa del male lo perdoniamo. Ci perdoniamo a vicenda, qui la parola “guerra” non esiste nemmeno. Noi non abbandoniamo mai un amico, soprattutto se è in difficoltà e non critichiamo quello che fanno gli altri perché siamo impegnati solo ad amarci e rispettarci, cose che voi umani fate molto raramente». Anche se questa visione può apparire pessimista, Rosario non manca di lasciar presto spazio alla speranza. Infatti la sua stessa presenza nel “pianeta degli animali” e la garanzia della sua adesione a quelle regole, nonostante sia un uomo, stanno a significare che le eccezioni esistono. Subito dopo, a conferma di quanto appena detto, Rosario nel sogno chiede all’orsacchiotto di «farlo restare lí con loro per sempre». Ma l’orsacchiotto gli risponde: «Purtroppo non si può, tu sei un umano, il tuo posto è sulla terra, anche se lí ci sono molti problemi è bello viverci lo stesso e amerai gli animali che sono stati mandati laggiú». L’orsacchiotto de “Il sogno” non è l’unico animale a prendere la parola. Anche Leo, il gattino «piccolo batuffolo di pelo grigio» di Rosario, mentre lui studiava, si esprimeva talmente bene attraverso i suoi gesti che sembrava quasi volergli dire: «Basta compiti, adesso gioca con me!». E ancora Cettina, la gattina dell’omonimo racconto a detta di Rosario «aveva davvero qualcosa di speciale, aveva una particolare sensibilità, quasi umana secondo me, se ne stava per molto tempo seduta sul tavolo di fronte a me e mi guardava con uno sguardo intenso, come se volesse parlarmi, poi c’erano alcuni suoi gesti che ti lasciavano senza parole».
Nei racconti di Rosario incontriamo sia animali reali che Rosario ha conosciuto, sia animali frutto della sua immaginazione. In tutti i casi però le descrizioni sono sempre puntuali. In generale nella sua scrittura i ricordi dei dati sono estremamente precisi. Nel racconto “Pedra e lo spirito del lupo”, ad esempio, la principale caratteristica del lupo è il coraggio, che lo porta a sentirsi responsabile come guida del branco e sempre pronto a difenderne e a proteggerne i membri. Allo stesso modo ogni animale descritto da Rosario ha delle proprie caratteristiche. La speranza e la positività sono il “filo rosso” che percorre tutti i racconti di Rosario. Nulla può ostacolare la speranza. Ne è esempio simpatico il racconto, in cui Stella e Luna, una gattina e una cagnolina crescono come due sorelle, allattate dalla stessa mamma. Luna era stata abbandonata ancora cucciola, ma Tommasina, la gatta mamma di Stella e di altri quattro gattini, non ha esitato ad adottare un sesto cucciolo, che altrimenti da solo non ce l’avrebbe fatta a sopravvivere. E Rosario fa dire al padroncino Matteo, a mo’ di sentenza: «Cane e gatto? Chi l’ha detto che non si può?». E Tommasina non è l’unica mamma gatta a tempo pieno, c’è anche Cettina, la gattina protagonista dell’omonimo racconto, che, oltre ad essere «una mamma premurosa» con i suoi piccoli, tanto che Rosario afferma: «Non avevo mai visto una gatta cosí dolce e attenta come lei», è una mamma che adotta tutti i cuccioli orfani. Rosario infatti scrive: «Era la madre di tutti i gattini abbandonati».
Sempre riguardo alla speranza, che in queste storie non muore mai, nell’ultimo racconto “Silvia e Tommy”, la piccola Silvia riesce addirittura solo con la forza del suo amore ad addomesticare una volpe, Tommy, nonostante l’incredulità di tutti coloro che la circondavano.
Non mancano nei racconti di Rosario temi di piú ampio respiro sociale. La monotematicità in queste storie, reali o inventate che siano, è solo apparente. In “Le avventure di Chicco”, ad esempio, Rosario affronta in maniera esplicita e diretta il tema dell’abbandono. Ma questo racconto è emblematico anche per molto altro. Infatti al suo interno contiene numerosi temi importanti e interessanti a livello umano e sociale: la solitudine degli anziani, le nipoti che accudiscono la nonna solo per l’eredità, la vita dei senza tetto, lo sfruttamento degli animali, l’eccesso di velocità, la crudeltà dell’uomo ed altri. E lo stesso racconto è emblematico anche per un’altra caratteristica propria dei racconti di Rosario: il lieto fine. Ogni “avventura” di Chicco finisce bene. Nei racconti di Rosario, durante lo sviluppo della trama, spesso si creano situazioni di pericolo o di suspense, ma alla fine tornano sempre equilibrio e armonia. E Rosario riesce sempre a trarre il positivo, da ogni circostanza. Cosí, un libro aperto con la rinascita della primavera si chiude (nell’ultimo racconto, “Silvia e Tommy”) con un patto di eterna amicizia tra due persone tra le quali non era mai corso buon sangue. Questo sta a denotare la persona di Rosario, sempre volto al positivo, sempre fiducioso nella speranza, sempre pronto a dimostrare che «nulla è impossibile».
Grazie Rosario per la tua testimonianza di vita.

Dalla prefazione di Chiara Franchitti

  • Titolo
  • Il paese sulla scogliera
  • Autore
  • Manfredo Di Biasio
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 72
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 10,00

Scogli nella memoria

È proprio il caso di parafrasare il titolo di questo appassionato libro di racconti che Manfredo Di Biasio ha raccolto nei cassetti della memoria: in quei suoi cassetti il vecchio scrittore è andato a cercare – per proporre, e condividere con gli attenti lettori, il mondo che è stato il suo ma non è lontano dal nostro che adesso siamo – lacerti di esperienze toccanti, personali o meno, ma vissute tutte come scogli ai quali aggrapparsi tra i marosi in tempesta di un mare ostile – la vita. Tale infatti è la nostra esistenza, anche se a volte quel mare sembra accoglierci amichevole e festoso (come nel racconto che dà il titolo al libro), poiché spesso invece siamo “preda di burrascosi notturni” da cui almeno usciamo “vissuti”: se abbiamo la fortuna di uno scoglio che ci salva. Può essere una situazione che si evolve in nostro favore, o un amico che ci sorregge nel bisogno, l’appiglio consente di riprendere il cammino che si stava facendo difficile e periglioso.
Manfredo Di Biasio ha scritto e pubblicato tanto, ha cominciato giovanissimo con una raccolta di versi, ma in oltre mezzo secolo ha accumulato – oltre le numerose e varie pubblicazioni – pacchi di inediti nei quali ogni tanto va a mettere mano, forse per un’intima esigenza di mettervi ordine, di sistemare e fare i conti col passato. Così la memoria privata si fa storia collettiva, mentre si aprono scorci di vita ormai remota nel tempo. Quegli episodi e quelle persone che (ri)vivono nelle sue memorie sono al tempo stesso frammenti della grande Storia che tutto avvolge e spesso travolge. Qui gli anni cruciali sono quelli terribili del dopoguerra, gli anni cinquanta del secolo scorso, quando parecchi si videro spinti, costretti a cercare fortuna altrove, lasciando i luoghi e le (poche) sicurezze familiari per andare a soffrire un’esistenza appena più dignitosa. Alcuni fortunati hanno infine potuto ritornare a casa, lì dov’erano rimaste le care memorie, in un paese solatìo sulla scogliera.
Anche se «gli anni hanno posto una barriera in-valicabile tra quel tempo vissuto quasi inconsape-volmente e l’oggi», non è banale ricordare – come appunto fa Manfredo, apertamente o per mezzo di esempi narrati – che «la storia si ripete», perché le nuove generazioni sappiano da dove vengono, e che quanto hanno a disposizione è frutto (o colpa, certo: dà frutti, amari, anche la colpa) di coloro che li hanno preceduti, vivendo sopportando e godendo «uragani e dolci maree»… – ancora una metafora marina – che «hanno costellato il tragitto esistenziale di ognuno di noi». Di quegli anni di formazione, «resta una memoria limpida, che gli anni hanno reso dolcissima».
Se siamo eredi, è anche vero che dobbiamo ri-spetto a chi ci ha dato l’eredità di cui viviamo. E in queste pagine di Manfredo si può comprendere perché. Gli undici racconti che compongono Il paese sulla scogliera costituiscono infatti un album (di immagini) che prende vita in un paese ideale, il paese di tutti che leggono e si ritrovano. Ci hanno lasciato in custodia non solo le case nelle quali vi-vemmo un tempo (forse «inconsapevolmente» liberi di fronte alla vita, al futuro), ma la stessa esistenza vissuta da chi ci ha preceduti e si fa in noi la nostra esistenza da vivere secondo insegnamenti – per quanto non sempre condivisibili (alla luce del tempo nostro, che è diverso da quello che fu) – irrinunciabili, inalienabili.
Questi agili racconti sono scritti quasi in punta di penna (Manfredo la usa ancora), col gusto pieno di chi partecipa una confidenza, un regalo ad un amico. E vi compaiono familiari, amici, conoscenti: tutti tasselli di un mosaico variegato che vanno a costituire un affresco da guardare tutt’insieme, poiché le diverse piccole storie fanno parte della Storia con la maiuscola, e quella è possibile comprenderla soltanto se ciascuno vive e comprende la sua personale piccola storia. E la fa crescere, insieme con gli altri.
La terza persona (usata in quattro racconti) dis-simula appena la volontà di staccarsi da certe storie, che appaiono ugualmente sofferte, come quelle narrate in prima persona – e che a volte sembrano an-ch’esse costruite apposta per essere esposte a mo’ di esempio. La vena di Manfredo Di Biasio scorre in entrambi i casi con sorprendente fluidità, segno di adesione alla sua scrittura che è specchio di esistenza. In queste pagine veloci alla lettura scorrono figure e figurine di vario genere, in prevalenza di ambiente e provenienza piccolo borghese. Personaggi femminili indimenticabili, anche se tratteggiati in poche pagine: Annina, Ceschina (la stessa “Farfalla” del racconto “Via della Pineta”, inconoscibile ma verissima nella forza dell’invenzione letteraria)… e ci sono poi i ragazzini che fanno i grandi e grandeggiano in episodi che si fissano nella memoria – la loro, mentre poi crescono davvero, e quella del lettore che appunto ne coglie le smanie esibizionistiche tipiche di chi ancora non conosce del mondo altro che le regole del suo piccolo mondo.
È inevitabile, forse, in un libro come questo che si anima e si sostanzia di ricordi (e i tempi ricordati non sono più tanto vicini), una vena malinconica, nella quale peraltro – chi lo conosce poeta, lo sa – Manfredo è maestro. Maestro perché per lui quella vena non è un rifugio consolatorio, e nemmeno una bandiera di impotenza (oggi si campa anche di questo): si nasconde nel tenersi un po’ in disparte a riflettere sul bene perduto solo perché ha imparato ad apprezzare il bene che comunque ha saputo conquistarsi – una lezione che soprattutto i lettori più giovani di questi suoi racconti dovrebbero fare propria – e ringraziarlo.

Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • Ghimíle Ghimilàma
  • Autore
  • Massimo Acciai Baggiani e Francesco Felici
  • Collana
  • Il Cormorano
  • Pagine
  • 256
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 20,00

Capitolo I

Che cosa contraddistingue una “lingua inventata” da una lingua che si voglia considerare “naturale”, esistente quindi prima di essere codificata come tale e dotata di un’apposita grammatica specifica che la renda comunicabile e apprendibile? È ancora praticabile il sogno settecentesco della lingua “perfetta” o co-munque “universale”? Si potrebbe ancora proporre oggi la “lin-gua finale” che ponga fine al proliferare dei linguaggi come conseguenza dell’anatema divino piovuto su Nimrod e la Torre di Babele (come narra la Bibbia collocando questo episodio alle origini dell’umanità)?
L’illusione di Ludwik Lejzer Zamenhof di aver creato una lin-gua che rendesse inutile tutte le altre e che, in questo modo, col-laborasse in maniera fattiva e decisiva all’affratel-lamento dei popoli è ancora viva come è vivo l’esperanto, anche se non ha avuto il grande successo auspicato dal suo ideatore. Una lingua che permettesse a tutti di comunicare e di evitare le secche dell’incomprensione e del misunderstanding è al centro di tanti altri tentativi successivi. Un altro esempio di aspirazione alla to-talità del dettato linguistico è il volapük di don Martin Johann Schleyer, anch’esso un tentativo di agglutinare le lingue indoeuropee per renderle comprensibili a tutti i popoli della Terra, un disegno ecumenico (il suo creatore affermò di essere stato ispirato direttamente da Dio in sogno) che voleva evitare le guerre e i conflitti legati alle incomprensioni umane. Ma l’elenco sarebbe pressoché inesauribile, data la fertilità dei tentativi e i conseguenti fallimenti successivi.
La lista delle lingue inventate, sia ausiliarie che artistiche (come pure di quelle logiche e/o filosofiche) è amplissima e non è certo possibile tener conto di tutte le versioni di linguaggi pos-sibili, verbali e non verbali, partoriti dalle fervide menti di lin-guisti, scrittori e figure di filantropi (come Zamenhof) desidero-se di aiutare l’umanità a superare i détours de Babel (per citare un celebre saggio sull’argomento ad opera di Jacques Derrida).
Le “lingue inventate”, allora, sono il tentativo di costruire un linguaggio su base comune per unificare le aspirazioni migliori dei popoli e creare una base universale di contatto tra di essi (come succede con la musica che diventa lingua cosmicamente comprensibile da tutti gli esseri viventi negli Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg).
Di conseguenze, scrivere in esperanto o in volapük significa voler sperare in un mondo migliore che arriverà quando le in-comprensioni umane legate al linguaggio saranno state spazzate via da una lingua speciale e unica che le comprenda tutte e le renda capaci di comunicare veramente.
Gli studiosi di filosofia del linguaggio e i teorici della comu-nicazione hanno sempre analizzato questo snodo del pensiero e cercato di creare soluzioni-ponte in grado di esorcizzare il vuoto di comprensione esistente tra gli uomini: la teoria del meta-linguaggio in tutte le sue varie coniugazioni da Charles Morris ad Alfred Tarski a Korzybiski è un esempio di questo sforzo ine-sausto di riconciliazione linguistica.

  • Titolo
  • Su un muro di lapislazzuli
  • Autore
  • Ghassane Bahou Amarsal
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 98
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 10,00

Un esordio e una promessa

“fai esplodere i loro segreti con la poesia”

La vecchia collana della “stanza” aveva già ospitato poeti marocchini esordienti in lingua italiana: Mohammed el Amraoui (Una tartaruga nella testa) e Dalila Hiaoui (Brez-za del Sud). In questa nuova serie salutiamo, con una punta di orgoglio, il nuovo esordio di un poeta marocchino, Ghassane Bahou Amarsal (proposto peraltro proprio da Dalila Hiaoui - ed è un modo simpatico per legare insieme le due esperienze editoriali, grazie alla poesia del Ma-rocco).
L’avvocato Ghassane si presenta in Italia con le credenziali giuste: la sua poesia è densa di cultura ed è scritta con sentimento e attenzione. Ci sono immagini nei suoi versi che rimangono scolpite per la forza espressiva che le anima. Ci sono versi che da soli valgono la lettura di un testo. Si può senz’altro concordare con il professore El Gendy, autore di un esteso saggio critico su questo libro: è una poesia «da leggere e rileggere per scoprire tutti i sui segreti».
Leggiamola dunque, in cerca dei momenti più significativi del suo farsi messaggio, del suo divenire nostra, nella traduzione del gruppo di lavoro “Amici della poesia araba” che ci rende possibile questo incontro. E davvero servirebbero molte pagine per raccontare e interpretare l’e-sperienza poetica di Ghassane, la sua delicatezza e insieme la sua vasta conoscenza dell’animo umano.

استهلال ووعد
“فجّرْ نجواهم بالشعر”
سبق للسلسلة الشعرية القديمة “La stanza” أن استضافت تجربة شاعرين مغربيين في مستهل إصداراتهما باللغة الإيطالية، وهما: محمد العمراوي ودليلة حياوي (نسيم الجنوبBrezza del sud/). وفي هذه السلسلة الجديدة نحيّي بلمسة من الفخر البداية الجديدة للشاعر المغربي غسان باحو أمرسال باقتراح من الشاعرة دليلة حياوي. وإنها لفرصة طيبة للوصل بين تجربتي نشر بفضل الشعر المغربي).
المحامي غسان حل بإيطاليا مقدما أوراق اعتماد صحيحة: شعره المفعم بالثقافة والمنظوم بإحساس وروية. هناك تصاوير بأبياته تبقى منحوتة ومتحركة في آنٍ بقوة تعابيرها. بل هناك أبيات في حد ذاتها تختزل قراءة نص بأكمله. ويمكن الاتفاق دون شك مع الأستاذ الجندي الذي خص هذا الديوان بقراءة نقدية مستفيضة حين قال: [..تحتاج إلى إعادة قراءة حتى نستكشف كنه هذه اللغة، ونسبر أغوارها...]..
فلنقرأها إذن بحثا عن اللحظات الأكثر تعبيرا في رسائله وفي حلول هذه الأخيرة لتصير لنا من خلال ترجمات فريق العمل: أصدقاء القصيدة العربية، الذين جعلوا هذا اللقاء ممكنا. حقاً يلزمنا صفحات وصفحات لتحليل تجربة غسان الشعرية والحديث عن رقته جنبا إلى جنب درايته الواسعة بالنفس البشرية. 

Questo “muro di lapislazzuli” è infatti anche una promessa: l’autore vi dichiara tutta la sua umanità, con il fardello che la storia vi ha im-presso e la gioia che gli dà la vita quotidiana quando gli sorride e pure quando lo impegna nel lavoro e nei rapporti con gli altri. Perché è proprio “nella poesia” che esplodono i segreti della vita, e nella poesia vengono salvati e conservati – affinché altri dopo di noi ne possano godere. Ed è questo il senso – profondamente umano – dell’operazione poetica dell’avvocato scrittore Ghassane Bahou Amarsal. La sua è una promessa: se imparate a prendere la vita nel verso giusto, io vi sarò vicino con la mia parola e testimonierò insieme a voi la bellezza del mondo.
Che il libro si chiuda con un inno a Gaeta (e che la foto in copertina alluda anch’essa a Gaeta) è un omaggio non casuale, nel solco della tradizione di poesie dedicate alla città del Golfo da entusiasti visitatori. Ed è anche bello che l’uscita di questo libro di Ghassane coincida con il decennale delle pubblicazioni della collana “la stanza del poeta” (febbraio 2006), che nella sua prima serie di 111 libri è stata appunto stampata a Gaeta.

Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • Kaj tamen
  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 80
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 10,00

La imago en la spegulo
Estas tuj klara la senco de tiu ĉi eldona ago (kolekto de poeziaj paĝoj dislokitaj en la lastaj kvin jaroj), de tiu ĉi lirikaj konfesoj, kiun Amerigo Janakono proponas al la legantoj.
Ekde la unuaj tekstoj, fakte – kaj eĉ oni dirus ekde la titolo, kiu estas cela manifesto –, ni legas la ĝustajn ŝlosilojn por eniri en la libron, en ĝian teman vefton; ni legas la emblemajn vortojn, la stilemojn, la versojn, kiuj diras al ni kiel orientiĝi, ĉar ili parolas al ni pri liaj ekzistoproblemoj – kiuj estas ankaŭ la niaj –, filtritaj de lia (bone konata, al kiu sekvas lin ekde ĉiam) sprita mildeco, de lia Horaca vivmezuro.
Ni komencas de “Enigmo”, ĉar estas klare por ĉiuj, ke «Ne estas klarigoj» por tio, kion ni ja devas vivi, malgraŭ iuj asertoj de la sciencoj aŭ la ordonoj de la fido (por tiu, kiu havas ĝin), ni estas ofte devigataj iri palpe en la mallumo kaj ni estas nekapablaj kompreni la enigmon, kiu ni mem estas. “Kaj tamen” (kaj kiu scias kiom en tio rilatas Galileo kaj lia scienca determinado en la volo solvi la enigmojn de la universo), kvankam «Ni estas la imago / kiu pasas sur la spegulo / ni estas la vento kiu fuĝas», ni ne povas eviti rigardi nin en tiu spegulo, en la reflektoj, kiuj diras al ni en kiu punkto ni alvenis, kiom ni forĵetis kaj kiom ni devas klopodi fruktigi por antaŭeniri: «Ĉio / – ĉiu horo, ĉiu minuto – / estis inda esti travivata».
Tiu ĉi estas rememoraĵo de antikva leciono, pri kiu oni povus ankoraŭ ĝeni le bonan nomon de Horaco, sed estas pluraj tiuj, kiuj venas en la menson. «sed eĉ la eteraj kasteloj / de la atendoj / utilas al la vivo»: proponi al si objektivojn helpas rigardi antaŭen, flankenmetante la pasintecon, konsiderante plibone la pezon de la estanteco, kiu utilas ĝuste por konstrui kastelojn de atendo.
«Pravis eble Pirandelo»: neniam ni estas nur tio, kion ni vidas, eĉ ne tio, kion ni klopodas esti, kiam ni sukcesas alĝustigi la “civilan kordon” por sinprezenti publike: ni estas ĉiam tio, kion la aliaj vidas en ni. Kaj tamen (estas ĝuste la okazo parafrazi la aŭtoron) oni ne povas halti sin rigardadi tro, sin ornami kvazaŭ dandoj aŭ ŝajnigi nekutimajn aspektojn por konformiĝi al la modoj: male oni devas montri la vizaĝon, kiun oni havas, la unuan, kiun la spegulo resendas al ni, la plej “normalan”.
La poezio estas «voĉo de libero». Kaj estas eĉ «kuracilo» la poezio – ĉefe kiam ĝi reportas flose, eble eĉ kun iom da bedaŭro aŭ da elreviĝo, forajn momentojn, memoraĵojn kvietiĝintajn kaj tamen vivajn en la kiraskesto de la animo, kiu ĉion gardas... Tiel «Revenas reaperas revivas la naiveco / de fora amo»: ĝi estas nur pala imago, sed dum momento estas vera vivo, ĝi estas travivita emocio, kaj fariĝas, en poezio, eĉ kunpartigenda atesto. La libero esprimiĝi en poezio, fakte, estas bezono de komparo, estas realigo de serenaj krevoj en la ĉiutaga malheliĝo de la eventoj. Oni troviĝas kaj retroviĝas en la ludo de la vortoj, kiuj aludas, sugestas kaj sorĉas sed ankaŭ naskas elanojn de humaneca partopreno al la universala turbo de l’ ekzistado.
La naskiĝvilaĝo (kiu estas tiu, en kiu ankoraŭ li vivas, la poeto) estas la ideala fono por kontempli la vivadon de la simpla homaro, tereno de privilegia analizo de sagaca observanto. Kaj, en tiu kadro, la familio – kiel aparte la filo, kiu edziĝas (en la fina sekcio de la libro, “Nupto”, tute dediĉita al lia edziĝo) – alprenas rolon de eĉ pligranda homa valoro, konsiderenda kaj sendenda kiel ekzemplo, kaj konsistigas – kiel ĉiam por Amerigo – vasta baseno de uzantoj de literaturaj sti-muloj, pro la elvokiva forto, kiu ankoraŭ havas en li, formiĝinta pere de la kla-sikuloj, de la granda poezio de la pasinteco, la familiaj rilatoj en la poezia dimensio.
Lasta konsidero farendas pri la rilato, kiu ligas min – ekde jam preskaŭ tri jardekoj – al la amiko Amerigo, frato de poezia aventuro. Ligas nin ĝuste la komuna pasio por poezia verkado, ne nur: ni estas ambaŭ firme konvinkitaj, ke la poezio (por tiu, kiu faras kaj por tiu, kiu uzas ĝin) povas esti “kuracilo”, sed larĝasence, tio estas en la senco, ke oni povas sin rekoni en la vortoj de aliulo, rekoni ilin kiel proprajn kaj senti konsolon per ili. Kuracilo do taŭga por malsamaj situacioj, ĉiufoje kiam en la doloro de la tagoj oni perceptas la neceson aŭ nur la deziron pri amika voĉo, pri bona vorto.
La fakto, fine, ke Amerigo Janakono estas eldonisto ne malebligis, kvankam li disponas pri pluraj sia eldonserioj por publikigi libron, publikigi iujn en la serio, kiun mi direktis dum ĉirkaŭ dek jaroj, “la ĉambro de la poeto” (en kiu aperis Versetoj kaj versaĉoj en 2006 kaj Ama hobojo en 2009), kaj honoras min per sia nomo kune kun tiuj de multaj amikoj, kiuj tion faris kaj faras, konvinkitaj – kiel li – ke “la ĉambro de la poeto” havas murojn sen pordoj nek fenestroj, pli ĝuste, eĉ ne murojn: tiu ĉi nia ĉambro estas en kerna esenco nur idea spaco, kie kunveni ĉiufoje kiam oni tion deziras, certaj povi trovi en ĝi aliajn amikajn spiritojn, partoprenantaj en la granda, tre serioza ludo (iu enigmo deĉifrenda kune), kiu estas la poezio, kiam ĝi parolas al la vivo.

Jozefo Napolitano

  • Autore
  • Salvatore Rinaldi
  • Titolo
  • La famiglia e la vita umana nella comunità degli zingari
  • Pagine
  • 232
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 22,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-69-3


Introduzione

La presente ricerca mira a fornire una lettura del fenomeno socioculturale degli zingari in prospettiva bioetica. L’input per la definizione di tale progetto di studio deriva sostanzialmente dalla “visibilità” pubblica sempre più massiccia delle comunità degli zingari, in seguito ad una crescente attenzione mediatica, dovuta principalmente a fatti di cronaca che vengono a porli in cattiva luce. Motivo, questo, che alimenta e rinforza ulteriormente stereotipi già esistenti e particolarmente diffusi.
È facile indurre, quindi, che del loro modus vivendi siano noti determinati aspetti. Pur puntualizzando che questi meriterebbero un necessario filtraggio critico ed un’apposita attività di ricerca, mirati a ponderarne la veridicità, è ragione di interesse cogliere che circa la loro concezione di famiglia, della vita umana e degli annessi risvolti e questioni si sa veramente poco.
Sulla base di tali presupposti, è maturata l’intenzione di far luce sull’argo-mento, tra le enormi difficoltà nel reperimento di fonti bibliografiche, superate dalla forte disposizione a rendere un contributo culturale e bioetico piuttosto inedito.
Al fine di far emergere gli aspetti maggiormente significativi, oltre che fon-danti per questo approccio di ricerca, si propone di delineare innanzitutto, il fenomeno in analisi nelle sue principali componenti.
A tal riguardo, nella prima parte dello studio, si fornirà una trattazione dalle dimensioni sociali, culturali, antropologiche. Più specificamente, le attenzioni analitiche saranno rivolte, innanzitutto, agli aspetti antropologico-culturali della famiglia degli zingari, puntando sulle dinamiche e sulle questioni della vita umana intesa e vissuta dalle etnie oggetto di tale analisi. Di seguito, si svilupperà il tema del matrimonio, della sessualità, della nascita e della morte. I capitoli in cui si illustreranno tali contenuti sono il secondo, terzo, quarto e quinto.
Terminato questo momento analitico, si è ritenuto opportuno fornire una trattazione di ampio respiro giuridico, attraverso cui evidenziare la rilevanza di tale componente sullo sfondo della bioetica e dei diritti umani. Tale tematica verrà trattata nei capitoli sesto, settimo, ottavo e nono impugnando le chiavi del biodiritto e della biogiuridica, con una riflessione sull’antidiscriminazione, circoscritta alle discriminazioni a base etnica e razziale . Tale orientamento analitico è dettato dalle necessità di approfondimento delle tematiche legate ai fenomeni migratori ed, in particolare, delle garanzie dei diritti umani nell’ambito del diritto dell’immigrazione . Inoltre, si tenderà ad individuare strumenti più efficaci di tutela individuale e collettiva contro gli atti di discriminazione. Ciò anche per porre in evidenza la relazione che esiste tra il dilagare del razzismo e della xenofobia, il grado di tutela dei diritti fondamentali della persona, lo status di cittadinanza, le politiche migratorie e le prassi amministrative sotto i profili dell’esclusio-ne/inclusione degli immigrati in Italia e le eventuali ripercussioni sull’istituto familiare degli zingari.

  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Titolo
  • A zonzo nel tempo che fu
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 112
  • Anno
  • 2016
  • Prezzo
  • € 16,00
  • Isbn
  • 978-88-96028-46-9

Lo struggente ricordo
di un mondo senza cose:
“A zonzo” assieme ad Amerigo Iannacone
“nel tempo che fu”

Amerigo Iannacone ha la sensazione che Leopardi, declamando il “natio borgo selvaggio”, si riferiva a Ceppagna. È la stessa che ho provato io per il mio paese natale, Carpinone. Condivido pienamente la scelta del primo capitolo di questa raccolta, intitolato e dedicato a Ceppagna. E come poteva essere altrimenti? Il vissuto dell’infanzia ci resta nel sangue per tutta la vita. E quando si ha il dono di una scrittura limpida e precisa come quella di Amerigo, accade che A zonzo nel tempo che fu si legge tutto d’un fiato. Pochi tratti, vergati con essenzialità, ci descrivono il carattere dei molisani… dall’ammiria fino alla demmiria.
Lo scrittore di Ceppagna, con stile lapidario, riesce a riportare in vita l’incanto perduto che noi, della generazione postbellica, ci portiamo dentro, abbarbicato ai gangli della nostra infanzia e della nostra adolescenza… come nel Pozzo, quando all’inizio descrive la casa in cui ha abitato fino a nove anni: «Non ci si chiedeva se era bella o brutta: era una casa e tanto bastava». Si vedono riapparire quelle pareti della cucina-centro della casa non spoglie… ma addobbate solo con oggetti essenziali. Ecco la differenza fra le case moderne e quelle della nostra infanzia, quelle della gente semplice come me ed Amerigo: oggi le nostre abitazioni sono grondanti di oggetti, d’una marea di cose inutili. Nel post-guerra, negli anni cinquanta, non mancava nulla di essenziale. L’acqua era scarsa? Allora doveva bastare. Quella del pozzo della famiglia Iannacone bastava tutto l’anno. Poi giunse l’acquedotto. Il pozzo venne distrutto. E pianse. Non era il pozzo a piangere… ma Amerigo che vedeva tramontare una stagione della vita, quell’infanzia che non sarebbe tornata mai piú.
L’essenza di questa carrellata di racconti-ricordi – spesso permeata dell’ironia che appartiene all’Amerigo uomo – sono le radici che diventano valori su cui poggiare una vita intera: e dalle radici salde e definite – che sono il fondamento dell’esistenza di noi molisani – forse è nata qualche nuova speranza. A zonzo nel tempo che fu non è semplice rimembranza, ma rilettura critica di quegli anni, di quel momento storico, in quella terra, il nostro Molise… una rilettura talvolta spietata che non risparmia nulla e nessuno, che getta luce anche sulle ombre della vita paesana, sull’ammiria generata dallo sguardo rivolto più ai fatti degli altri che ai propri.
Il mio vissuto è quello di Amerigo: la nostra infanzia-adolescenza è stata permeata di colori cosí intensi e nitidi, che gran parte della nostra produzione poetica-narrativa ne è stata finora influenzata (e penso continuerà ad esserlo sino alla fine di questa nostra piccola unica irripetibile vita). Mai affiora una sola briciola di malinconica nostalgia o indifferenza; talvolta si effonde lo stupore dinanzi ad un impulso selvaggio come quello di cucinare un gatto… dopo essersi cucito un bottone a lutto per la morte di un altro. Dalle pagine di Amerigo emerge la profonda energia della vita, un’energia custodita nell’asprezza della terra e delle condizioni storico-ambientali in cui erano vissuti i nostri tatoni, i nostri genitori… e in cui siamo nati noi. E gli anni della nostra infanzia sono stati duri, durissimi… ma felici, senza cose, ma a contatto con la natura. La forza armonizzante di questo lungo racconto è la forza dei nostri padri, uomini ancora vivi col loro esempio anche se cenere coi loro corpi: è la persistenza nel tempo del valore di dissodare la terra, di mondarla dalle pietre e dalla gramigna prima di seminarci il grano.
L’Amerigo narratore subisce l’influenza dell’Amerigo poeta: non spreca una sola parola, va dritto al dunque, essenziale, e riesce, in poche pagine, a sprigionare storie complete, intense, bellissime, che non concedono dispersioni retoriche e linguistiche. Pochi gli aggettivi, tipico dei grandi scrittori.
Aleggia, tra le righe, la forza di chi ha dentro la consapevolezza che magari un solo atomo del nostro corpo, una sola sinapsi del nostro cervello… provenga da loro, dai nostri progenitori, dalle antiche glorie dei Pentri – i piú coraggiosi dei Sanniti… quei nostri avi che preferirono essere trucidati, piuttosto che avere piú terre e dividere con Roma la conquista del mondo. Aleggia l’omaggio piú bello che Amerigo abbia fatto al Molise: la sua poesia Terra di silenzi, in cui dice che forse questa non è terra di fiori e nemmeno di frutti, ma solo di radici… che non possono essere recise.
Tutti amano la propria terra, anche quella piú inospitale, anche la piú avara di luce e di bellezza. La terra di Amerigo, la mia terra, il nostro Molise, forse possiede qualcosa di unico. Avevo provato tante volte a dare una spiegazione razionale all’attaccamento viscerale a questo nostro lembo di cuore, senza mai riuscirci. Qualche briciola di verità l’ho scovata in questi racconti, passeggiando nel groviglio di vicoli di Ceppagna, sulla collina brulla, incontrando le donne con la testa piegata sotto il peso del canestro di vimini colmo di roba da vendere (formaggio, ricotta, uova) per poter comprare qualche chilo di pasta o di riso, nel mandarino e nel pugno di fichi secchi che portava la befana, nelle mine della guerra inesplose raccolte per venderle al ferrovecchio… e che qualche volta facevano volare in aria – come a mazz’e piuze – brandelli di vita…
Aleggia, tra le righe, la vera partecipazione ai difetti e al dolore dei suoi paesani, una comunione che illumina queste pagine, il cui riverbero vola verso il lettore… filtrato dal cristallo della scrittura e diventando letteratura vera. Per raccontare un mondo durissimo ma semplice come il nostro Molise, quello di tanti anni fa, occorreva non solo la penna di un grande scrittore, ma soprattutto la sensibilità di un uomo dal cuore grande come quello di Amerigo.

Adriano Petta

  • Titolo
  • Il mio Molise
  • Autore
  • Anna Cervo
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 96
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 12,00

È passato mezzo secolo e piú dagli anni in cui sono ambientate le vicende narrate in questo nuovo libro di Anna Cervo; cinquanta, sessant’anni certo non sono pochi, ma per certi aspetti è come se fosse passato un millennio.
Com’era la vita in un piccolo centro di montagna, San Giovanni, una frazioncina di Cerro al Volturno, e come era in tutti i paesi montani di Molise e Abruzzo e un po’ di tutto il centro-sud appenninico, è oggi inimmaginabile per un ragazzo nato dopo il cosiddetto boom economico. Nei piccoli centri di montagna, non c’era riscaldamento, se non un rustico camino, non c’era acqua corrente, non c’erano fognature, non parliamo del telefono. Il piú delle volte nei piccoli centri di montagna non c’era nemmeno la strada, ma ci si arrivava percorrendo una mulattiera.
A diciannove anni, Annalena, la protagonista di questo racconto, che poi altri non è che l’Autrice stessa, maestra elementare di prima nomina, arriva a San Giovanni di Cerro al Volturno, proveniente da una cittadina come Caiazzo, che non era una metropoli, ma dove comunque i servizi essenziali non mancavano. Il primo impatto è scioccante, la ragazza si trova spiazzata per la mancanza anche delle comodità essenziali. La casetta dove andò ad alloggiare per il riscaldamento doveva contare su un camino che faceva fumo e le finestre lasciavano infiltrare un vento gelido. Nel tempo libero non c’erano per la maestrina molti diversivi. Non altre distrazioni aveva che passeggiare lungo i sassosi sentieri di montagna. A questo va aggiunto che la sua prima nomina capita nell’anno scolastico 1955/56, e proprio in quell’anno scolastico, in febbraio, ci fu l’eccezionale, storica nevicata, ricordata come “la nevicata del ’56”.
Il primo contato con questo mondo, che si potrebbe definire arcaico, fu per Annalena molto duro, ma la ragazza cercò di adattarsi e gradualmente cominciò ad assuefarsi. Inizialmente si sentiva sconsolata, ma con il passare delle settimane e poi dei mesi finí con l’abituarsi a quella vita di paese, alquanto difficile e necessariamente sobria, e finí per affezionarsi sempre di piú a quei luoghi, a quella gente, ai suoi bambini, fino a condividere la vita degli abitanti del paese, le loro abitudini, le loro vicende eventi problemi, fino anche ad aiutarli nei loro lavori di campagna e nei problemi della loro vita quotidiana.
Nei successivi anni scolastici Annalena ebbe l’incarico in altri piccoli centri dell’Alto Molise, come Castel San Vincenzo e nella frazione La Cartiera, e anche qui il suo soggiorno fu piú o meno analogo, anche se non si ripeté il brutto impatto del primo anno.
Quegli anni furono per la maestra un’esperienza indimenticabile e tutto sommato bella, oltre che interessante. Tanto si affezionò, a quei luoghi e a quella gente, che oggi, a cinquanta, sessant’anni di distanza ne conserva nitido il ricordo e sente il bisogno di tradurre quei ricordi in testimonianza scritta. È quasi un bisogno, una necessità a cui non può rinunciare. E nasce questo libro.
Un libro interessante e piacevole. Interessante per il contenuto che recupera e consegna alla carta stampata ambienti e atmosfere che non esistono piú e piacevole anche perché Anna Cervo ha una buona capacità di scrittura, con una forma scorrevole e uno stile elegante. Una prosa limpida e fluente.
Dopo cinque decenni Anna Cervo ritorna in quei luoghi, che ritrova cambiati, e ritrova anche persone che le erano diventate, all’epoca, familiari. Racconta nell’introduzione:
«La mia esperienza risaliva agli anni cinquanta e il pensiero di rivedere, sia pure per un fuggevole ritorno, quei luoghi creava in me una strana emozione. [...] Fu cosí che, tornata a casa, ebbi voglia di raccontare al mio diario tutti i ricordi dei primi anni di scuola in terra molisana, per non dimenticare emozioni e sentimenti, persone, fatti ed esperienze che hanno segnato un breve periodo della mia vita.»

Ceppagna, 2 novembre 2015
Amerigo Iannacone

  • Titolo
  • Tremiti 2015
  • Autore
  • I poeti extravaganti
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 80
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 10,00

Dieci anni! Tanti ne sono passati da quel caldo 19 agosto 2005... Allora fu “Il treno dei poeti” a portarci dal Molise all’Abruzzo, dalla stazione di Carovilli (ma io salii a Pescolanciano) fino a Campo di Giove, dove leggemmo le nostre poesie e mangiammo al sacco ottimi panini molisani, su un prato di fronte alla Maiella. Ideatori della poetica avventura, Francesco Paolo Tanzj e Ida Di Ianni; partecipanti: Giovanni Petta, Giuseppe Napolitano, l’inglese Jessica Tandy e un gruppetto di ospiti francesi: Georges Drano, Patrick Geffroy, Léa Ciari e Nicole Drano Stamberg.
Da ripetere! Commossi e convinti dall’atmosfera creatasi quel giorno, decidemmo subito che l’anno dopo l’avremmo rifatto. E andammo per la prima volta alle Tremiti, dove conoscemmo altri poeti, altri amici. In realtà, non avevamo bisogno di un pubblico: ci bastavamo noi, ad ascoltarci, insieme ai pochi che ci accompagnavano. Poi venne “La corriera dei poeti”, nel 2007 (a Itri e Campodimele), e infine – dal 2008 senza interruzione – “La nave dei poeti” è diventato un appuntamento stabile, giunto ormai alla nona edizione.
Alternando San Nicola a San Domino, sulle Isole di Diomede (che bel nome, peccato l’abbiano cambiato...) abbiamo celebrato il rito della parola condivisa, certi di unire nelle nostre voci anche le nostre anime di “poeti extravaganti” (la definizione di Ida che ormai ci contraddistingue proprio da quando cominciammo a frequentare le Tremiti). Leggere di anno in anno poche poesie e farle partecipare a chi con noi crede nel valore della parola scritta, ci ha dato, a qualcuno di più, è normale, il coraggio che da soli non avevamo o non sapevamo di poter mostrare: di anno in anno si sono aggiunti e alternati poeti di mezza Italia meridionale: pugliesi, molisani, abruzzesi, campani, laziali, a parte gli ospiti stranieri (di Francia e Inghilterra, di Spagna, Polonia...).
E intanto, fin dall’inizio, fin dal mio libretto Il treno dei poeti, nella neonata collana “la stanza del poeta”, cominciai a pubblicare le poesie dei partecipanti – quelli che hanno voluto, ovviamente – perché del viaggio e della condivisione di parole ci fosse un documento da conservare e far conoscere ai partecipanti degli incontri futuri. Così è stato, così è, anche se non c’è più la vecchia collana e “la stanza del poeta” adesso è una collana edita nell’ambito delle Edizioni Eva, peraltro a cura dell’amico – e partecipante storico – Amerigo Iannacone.
Alla nona edizione dell’incontro poetico tremitese, come sempre organizzato da Antonio Mucciaccio, hanno partecipato il 13 settembre 2015: Margherita Agresti, Umberto Cerio, Gilda Cieri Stramenga, Amerigo Iannacone, Virginia Macchiaroli Mucciaccio, Gabriella Nicole Valeria Napolitano, Giuseppe Napolitano, Cristina Luisa Pace (ha letto le sue poesie la madre Adele), Luigi Peternolli, Rosalia Ruggiero, Irene Vallone, portando a 50 il numero complessivo dei “poeti extravaganti” che nel corso di dieci anni hanno dato vita alla simpatica consuetudine dei nostri incontri.
Dieci anni, dunque (ma undici edizioni), e 50 poeti. Numeri simbolici e augurali. Cercheremo di incontrarci ancora, magari non solo alle Tremiti, sviluppando un percorso di conoscenza (reciproca e personale insieme) – e peraltro alcuni di noi durante l’anno sono presenti insieme in diverse iniziative culturali delle nostre regioni di residenza.
Buona lettura! Non facciamo graduatorie, non emettiamo giudizi: è chiaro che tra noi ci sono autori i quali hanno all’attivo decine di pubblicazioni (e consenso critico e premi vari), e ci sono pure – di anno in anno capita – esordienti o scrittori di poche cose ancora inedite, ai quali viene concessa l’opportunità di aprirsi al pubblico, di scambiare opinioni e soprattutto “uscire” – in questa pubblicazione – trovando a disposizione lettori che da soli difficilmente troverebbero.
Auguri a tutti, perché, sulle onde di Diomede o dovunque, la parola sia conforto e traguardo.

Giuseppe Napolitano

  • Autore
  • Donatella Mambrini
  • Titolo
  • Ridi con gli occhi
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 88
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 10,00

Un'opera necessaria

«Un’opera contro natura, una di quelle cose che non si dovrebbero fare, eppure è un libro necessario, non soltanto perché così l’hanno sentito gli autori, ma proprio perché doveva esserci, era giusto che il lavoro di una vita fosse degnamente ricordato. E peccato che quella vita sia stata così crudelmente breve, da impedire a quel lavoro di essere apprezzato ancor più di quanto già lo fosse; peccato che sia toccato ad altri, ai genitori, il compito di mettere insieme i cocci e ricostruire una vita precocemente spezzata. Ecco perché è contro natura: tocca ai figli narrare la storia dei padri, non viceversa! Se accade, l’opera di ricostruzione è partico-larmente dolorosa, certo più di quanto lo sia quella di un figlio che racconta le vicende pa-terne».
Così scrivevo, anni fa, quando mi trovai a condividere il dolore degli amici Georges e Nicole (poeti francesi) per la perdita del loro figlio, manifestato in un libro, Le mouvement interrompu, costruito senza retorica e senza lacrime – ma solo apparentemente, poiché il pianto di un genitore per la morte immatura di un figlio non ha bisogno di mostrarsi esteriormente, poiché segna intimamente e si trasmette intimamente.
Quando l’amica Pina Scotti mi ha proposto per la pubblicazione lo scritto della signora Mambrini, ebbi un momento di esitazione: non mi piacciono i racconti, nemmeno proposti in forma poetica, se vogliono solo partecipare un dolore privato e chiedere sollievo al dolore, come direbbe Dante: per aver compagni al duolo.
Lessi quindi con cautela, ma fui subito preso da come il lavoro era composto e presentato. Mi sembrava un dossier, contenendo infatti non solo le pagine materne dedicate al figlio scomparso, ma le lettere e persino gli sms di amici del ragazzo, in primis della fidanzata, e inoltre articoli di giornale ed altre testimonianze. Senza retorica, senza compiacimento per un dolore che doveva rimanere privato, ma era necessario che si facesse dono per chi potesse comprenderne lo strazio.
Ne scaturisce, del povero Francesco strappato dal mare alla vita a soli 27 anni, un ritratto umano e letterario insieme, poiché infine il ragazzo emerge in queste pagine come il personaggio di una storia più grande di lui: diventa figura di sé. Donatella Mambrini, dopo aver dato la vita a un figlio che duramente la sorte le strappa, lo rimette in vita – e senza più il rischio di perderlo – nelle pagine di un libro che ormai le farà compagnia per sempre, tenendola anche vicina a tutti coloro che ebbero amicizia e affetto per quella sua creatura e non ebbero il tempo di curarlo di più.
C’è molta poesia, in definitiva, in queste pagine, ed è perciò che Ridi con gli occhi... è accolto in collana pur essendo un racconto in prosa articolato come un’inchiesta giornalistica. La poesia sta nel cuore di una mamma che ha voluto aprirsi ai lettori e sta certo nel cuore dei lettori che della mamma di Francesco vorranno leggere le parole contro natura che ha dovuto pronunciare per liberarsi, un po’, soltanto un po’, di un peso insostenibile.

Giuseppe Napolitano
settembre 2015