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  • Autore
  • Daniel Leuwers
  • Titolo
  • Concerto Questioni d'amore
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 64
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 8,00

La concreta visione
Daniel Leuwers tra lezione e azione

Presente più volte nella collana “la stanza del poeta”, nella sua prima serie, Daniel Leuwers apre in questa nuova serie la partecipazione degli autori stranieri – ed è un onore che sia lui (oltre che un piacere, per l’amicizia che ormai ci lega da anni, fin da quando mi fu presentato dagli amici Georges e Nicole): già professore all’Università di Tours e promotore della fortunatissima collezione dei livres pauvres, è una voce importante della poesia francese contemporanea.
Quando mi ha chiesto se potevo provare a tra-durre ancora qualche suo testo, qualcosa che diventasse il (suo) terzo libro italiano, dopo Fausseté du vrai e Malamour, la mia risposta (positiva!) è stata immediata. La poesia di Daniel mi coinvolge, è colta, e sa pure come parlare con parole chiare: la sua peculiarità è comunicare direttamente attingendo a codici riconoscibili: quelli dei sentimenti
Sentimenti però – qui, d’altronde, è la vena che ci accomuna – filtrati, mediati, sempre depurati dalla ratio superiore che domina la scrittura.
Anche la scansione a volte aspra dei suoi versi è sempre poggiata su cardini mobili, eleganti: le sonorità ricorrenti, le rime – mai casuali, pur se appaiono sparse –, sono caratteri forti di una lingua che si snoda e si avvolge intorno all’oggetto descritto. La suggestione delle immagini nasce e si sostanzia dall’evocativa forza della parola. In un verso è presente quindi la cosa (o la sensazione che produce), la percezione di essa, la codificazione e il messaggio che la rende altro da quel che è: la forma poetica è pittura aggiunta alle parole, è colore, è musica e suono.
Daniel Leuwers ha appena compiuto settant’anni, ma crede ancora che la poesia possa aprire percorsi e nuove porte nel mistero dell’esistenza (anche la sua); bisogna però saper “amare ancora” e “amare l’amore”, come lui dice, bisogna saper “carezzare le tue piaghe per nascondere le mie”... La poesia è dono e ricerca insieme, è “voce profonda” e “luce particolare” che si fanno “chiaro cammino” oltre l’oscurità dei giorni. La poesia è sconfitta della solitudine ed è “mistero totale” che va penetrato con lo slancio di un nuovo sentimento al quale affidiamo convinti l’ipotesi di un cambiamento.
Questo Concerto di Daniel Leuwers si compone di tre momenti, tre poemetti a loro volta articolati in sezioni (e i numeri sembrano avere un ruolo importante nella composizione di queste suites liriche: “Trios” è formato da tre parti di tre strofe; mentre i “Quatuors” sono sempre divisi in tre, ma con quattro strofe per parte). Come d’abitudine, la vena dominante è quella erotica, appena sfiorata a volte, altrove più evidente, comunque delicata (e allusiva, certo memore di esemplari letture) nel mostrarsi e nell’esprimersi, nello schiudere paesaggi mentali che si sospendono al sogno.

***

Che in un anno questa nuova serie della “stanza” abbia raggiunto le dieci pubblicazioni è un segno di fiducia: autori affermati e giovani esordienti si fidano dell’etichetta che li accoglie. E l’etichetta si fida di loro poiché è proprio nella filosofia della collana ospitare voci nuove e promuoverne la conoscenza presso un pubblico, forse non vasto ma competente e appassionato, che difficilmente certi autori giovani e poco noti potrebbero raggiungere. Che ci siano anche qui (com’era accaduto nella vecchia “stanza”) entrambi i miei genitori è un omaggio e un augurio, a loro e a me.

Giuseppe Napolitano
settembre 2015

  • Autore
  • AA.VV.
  • Titolo
  • Poesia da tutti i cieli 2015
  • Collana
  • Premio Poesia da tutti i cieli
  • Pagine
  • 192
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 17,50

Poesia da tutti i cieli: al primo contatto con questa esperienza straordinaria che mi ha fatto conoscere una realtà per me nuova, quella del mondo degli esperantisti, ho trovato accattivante e poetica la denominazione del concorso nel quale sono stata coinvolta già l’anno scorso dall’infaticabile Giuseppe Campolo, perché l’espressione sintetizza egregiamente (sia nel senso geografico che in quello metaforico) lo spirito del premio in sé, le sue finalità nonché il dono celeste dell’ispirazione e la gratuità della poesia che unisce uomini di uno stesso sentire nel nome dell’arte sublime e nella condivisione dell’amore per la bellezza fatta parola.
Se è vero, come è vero, che l’esperanto non è solo una lingua trans-nazionale, appartenente cioè all’umanità, ma una proposta di pace e di affratellamento, di comprensione tra i popoli, questo concorso, che coinvolge esperantisti esperti, studiosi della lingua e moltissimi simpatizzanti, tutti idealisti, persone speciali che vivono nei cinque Continenti, ci appare la carta vincente.
Va sottolineato come attraverso i concorsi di Samideano, che ha assunto quale suo pseudonimo, Giuseppe Campolo intenda perseguire, con l’aiuto degli esperantisti, la finalità di attrarre a sé gli artisti, “un numero di eletti, fra i miliardi di uomini, che abbia lucidità e coraggio”, per trovare in loro supporto nell’impegno comune per la civiltà.
Questa seconda edizione del Premio ci trova – noi tutti componenti la Giuria, della quale mi onoro di essere presidente – motivati, carichi di entusiasmo come la prima volta. Ho percepito tale disposizione d’animo attraverso le mail che ci siamo scambiati in corso d’opera. In questa sorta di tavola rotonda on line, Giuseppe Campolo ha assunto la funzione di garbato moderatore, coordinatore, organizzatore, insomma, punto di riferimento per ognuno di noi.
Esprimere voti per le poesie pervenute non è stato semplice, come di solito accade, ma la valutazione è stata serena e, in definitiva, possiamo esprimere soddisfazione per i risultati raggiunti.
Vari sono stati gli argomenti trattati dai concorrenti, dai temi esistenziali che rispecchiano le più profonde esigenze spirituali dell’uomo, a quelli occasionali ispirati a sentimenti di amicizia, di amore, ai temi sociali, ai problemi, alle ansie, ai drammi, alle tragedie del nostro tempo, ovviamente in una varietà di stili.
Al lavoro di selezione si è affiancato l’ancor più complesso lavoro di traduzione affrontato, quest’anno, oltre che da Giuseppe Campolo, Amerigo Iannacone e Nicolino Rossi, anche da Gabriele Aquilina, Davide
Astori, Renato Corsetti, Rita Donatelli, Silvana Imbesi, Carlo Minna-ja, Nicola Morandi e Nicola Ruggiero, che hanno espresso la propria creatività perché tradurre poesia significa impegnarsi in un lavoro di precisione facendo dono ai lettori di un nuovo prodotto artistico, legato sí all’originale ma con sue peculiarità che rispecchiano la perizia, la sensibilità, e la capacità del traduttore di ricreare il testo senza stravolgerne l’essenza.
A tutti loro esprimiamo sincera gratitudine.

Messina, 30 agosto 2015
Anna Maria Crisafulli Sartori
Presidente della Giuria

  • Titolo
  • Le finte allegorie
  • Autore
  • Giorgio Barberi Squarotti
  • Collana
  • L'Albatro
  • Pagine
  • 120
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 15,00

Le disavventure della bellezza

...tre leggeri segni
che non vogliono dire nulla. E indica
come si può giocarci il proprio tempo
e ragione, e meglio ancora il nulla.

Ricordo che, da ragazzo, mi impressionò un quadro – non so più in quale libro lo avessi – dal titolo che mi parve stranamente inquietante: “Susanna e i vecchioni” (o qualcosa del genere). Mi chiedevo, riguardandolo, perché mai dovessero proprio i vecchi rimanere tanto abbagliati dalla nuda bellezza di quella figura femminile, la quale del resto pareva ritratta in una radiosa indifferenza. In quel tempo, peraltro, alla bellezza del corpo muliebre avevo dedicato una lirica, “Poesia della carne”, ispirata da un “nudo” del pittore Antonio Sicurezza: “corpo femmineo, immagine di Dio” – concludevo i miei versi, lontano, pur nella mia curiosa adolescenza, dall’associare tentazioni erotiche alla rappresentazione artistica (o almeno così volevo credere).
Questa premessa, volutamente privata, dovrebbe, a me in primis, chiarire il senso dell’operazione letteraria alla quale Giorgio Bàrberi Squarotti ha dedicato buona parte dei suoi ultimi anni (se crediamo alle date che segnano il succedersi continuo dei momenti creativi di questa silloge complessa). Una così lunga sequenza di immagini – ma immagini che si fanno storie – con protagonista costante il nudo femminile (parziale o integrale, offerto spesso alla violenza, anche sgradevole, ma comunque esaltato nelle sue forme, sia pure nei toni cangianti del dramma scherzoso), come dev’essere interpretata, senza cadere – ed è una sfida – nel compiaciuto rischio di un pruriginoso voyeurismo da buco della serratura?
Taccuino del vecchio cercatore? O dottrina di un estremo principiante... Volessimo parafrasare altre ben note esperienze di poeti abbastanza in là con gli anni. Ma, se è vero che la poesia non ha data di scadenza, è anche vero che non si va in pensione da poeta: finché c’è vita, si lavora – tutto qui. E il lavoro di un cercatore, per quanto vecchio, è – ancora! semplicemente – cercare (finché la continua pratica si fa gustoso esercizio dottrinario). Qui si produce in effetti l’esito sommo di una curata ricerca e se ne propone l’insieme in una scansione articolata e raffinata, e nemmeno costruita, poiché si ha la netta sensazione che le pagine (per quanto datate) abbiano avuto gestazione casuale e non preordinata – non subito, almeno – alla silloge da pubblicare.
È da credere piuttosto che si tratti di una ricorrente manifestazione della benvoluta e senz’altro opportuna-mente medicata ma ineluttabile malattia che è l’amore per la bellezza (o della bellezza), che nel nudo si sublima. E l’insistere sul tema non appare certo (dopo qualche iniziale perplessità) una gratuita dimostrazione di abilità descrittiva: l’autore di questa enciclopedica riflessione sulle disavventure della nudità ben conosce le sue riserve di stile – pressoché inesauribili.
Gli episodi narrati, a costruire la trama di questo libro ricco di sorprese incantevoli e incredibili sospensioni, sono frutto probabilmente di eccezionale capacità inventiva, ma è anche probabile che siano nati, in qualche misura, da sollecitazioni o suggestioni, suggerimenti o solleticazioni di origine concreta – può essere bastato, una volta, cogliere l’idea di una storia in un sorriso, un gesto, un atteggiamento, o un frammento di racconto, un aneddoto, ascoltato. È nota, a chi ben lo conosca attraverso i suoi libri di poesia, la predisposizione di Giorgio Bàrberi Squarotti a registrare (nei suoi viaggi o nelle soste in un caffè, camminando o chiacchierando con gli amici) qualunque stimolo provenga dall’esterno – e farne cosa sua che vive in lui e si fa poetica trasposizione o trasfigurazione. Le creature che vivono in queste pagine, e sono frutto – poliedrica fattura d’artista – di un misurato laboratorio dei sensi, hanno un’anima e un corpo, anche se è il corpo ad apparire, a sbattersi certe volte in prima persona, ma la fisicità è condizione dello spirito, è manifestazione di una interiore violenza che grida e chiede vita, nel farsi exemplum, nel dirsi in poesia.
Qui, di qui si dipana una trama incredibile e reale, onirica e materica insieme, di un presente incombente ingombrante “spoon river”: un viaggio di figure. Qui si coniuga infine l’esistenza di un mondo, il nostro mondo, come sospeso fuori del tempo, eppure nel tempo inca-stonato con le sue gemme, a splendere di piccole schegge che fanno il luminoso firmamento di una dolente (non sempre, poiché spesso è consapevolmente buffonesca) umanità: noi.

***

Già il titolo di questo libro sembra voglia mettere sull’avviso il lettore, magari quello meno smaliziato, il quale comprenda quanto ci sarà di gioco nel viaggio che sta per intraprendere: ci sono allegorie, ma sono finte, quindi è tutto reale? È così che deve intendersi, chissà. Ma dalle prime pagine si afferra il bandolo della matassa e sarà poi abbastanza facile scioglierla. Oddio, senza aspettarsi più di quello che c’è e si vede subito: la gioia di una tavola imbandita e ricca di ogni leccornia (e absit iniuria verbis, in questo caso è proprio il caso di sottolinearlo). Appena “le due cameriere, castana l’una, l’altra bionda, entrambe amabili e giustamente giovani, si siano spogliate nude” nell’osteria di Clusone, comincia la giostra e non la smette più di girare, fino alla fine del libro – un ritornello, un refrain, un rondò... insomma una ludica frenesia che trascina verso un finale subito atteso poiché giustamente immaginato (per parafrasare stavolta il gioco linguistico dell’autore). Ma prima di arrivarci converrà visitare stazioni di posta e sontuose abitazioni, siti archeologici e squallide dimore di mercanti... Senza dimenticare (altra subliminale dichiarazione d’intenti) che «questo istante è vero solo mentre tu lo scrivi»...
Inutile stare a segnalare episodi o figure particolari: hanno tutti, tutte, l’importanza che compete ad un campionario ideale, poiché tutti, tutte devono rispondere all’assunto centrale della composizione, alla volontà prima del compositore: l’unisono di un concerto nel quale ogni strumento, ogni voce ha pari dignità. Se proprio si volesse cercare lo slancio lirico più elevato, quando un po’ si distacchi dalla (voluta) voluttà descrittiva e sposi invece una più profonda linea di consapevolezza estetica, pur si potrebbero indicare alcune composizioni nelle quali più alta si leva la cifra espressiva e più esplicita si rende quindi la regola del gioco: si dichiara allora (come in “A Mondoví, veramente”) quando «si dissolvono le nubi / che decorano il culmine del sogno / dipinto», e lì, di lì, si può alzare lo sguardo verso «il rettangolo del cielo», quello puro e celeste in cui ogni immagine appare, riappare pura e scevra d’ogni malizia terrena, in un oltre che è quello della pura fantasia, la molla e la mamma dell’ispirazione, la culla del nostro sogno.

...perfetta nella forma della vera
arte, che non patisce il tempo, e ancora
eternamente nuda si mostrava
ilare, pura.

Giuseppe Napolitano
Sousse, 27-30 maggio 2016

  • Titolo
  • La neve e il mandarino
  • Autore
  • Alessandrina De Rubeis
  • Collana
  • L'Albatro
  • Pagine
  • 120
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 12,00

Non solo poesia, anche memoria e storia

Questa seconda raccolta di poesie di Alessandrina De Rubeis è la naturale continuazione o, meglio, il naturale completamento della prima, La città nel cuore (2009), con cui forma un’autobiografia in versi, che ha come sfondo e cornice una grande città, Palermo, con il suo mare, la prima; il paese natale, San Donato Val di Comino, con la sua montagna, la seconda. I due volumi hanno una notevole ricchezza e varietà tematica e un arco temporale, che copre anche l’età matura dell’autrice fino ad oggi, ma centrale in entrambi è il motivo dell’infanzia e dell’età scolare in genere, trascorsa parte a San Donato, parte a Palermo.
Il trasferimento dal paese avviene sempre in modo inatteso, e anche se in Sicilia va a vivere prima con i nonni materni e poi con gli zii, tutti molto affettuosi, la bambina inevitabilmente ne risente e ne soffre; ma la capacità di adattamento propria dell’età e il carattere vivo, ricettivo, avido di conoscenza di Alessandrina le fanno superare i disagi dei vari trasferimenti. I lunghi soggiorni nell’isola prima del definitivo ritorno a San Donato – per frequentare poi a Sora le Magistrali con ottimi docenti – consentono alle radici del suo ramo materno di attingere in loco nutrimenti anch’essi preziosi, insostituibili per la formazione del carattere e per la futura creatività poetica.
Il paese, le favolose vicende dell’infanzia sono viste, rivissute con gli occhi di quando era bambina. «Ti guardo / e ti rivedo bello come allora / quando fuoriuscivo dalla neve / solo di poco e mi sentivo lieve»: sono i versi della prima poesia, Piccolo paese, dedicata appunto al paese natale, che vive intatto nella memoria.
Questa prima composizione non solo contiene i temi principali, ma ci dà anche l’atmosfera, il tono dell’intero volume. C’è la descrizione di San Donato con l’antica torre, le case mura, le case a grappolo raccolte, le scale che si arrampicano verso l’alto, c’è l’Appennino che lo protegge alle spalle ma anche lo scuote con i terremoti, c’è la neve, c’è il miracoloso aspetto urbanistico che lo fa apparire un triangolo perfetto, frutto della maestria della sapienza antica, cioè dei maestri muratori e degli altri artigiani – scalpellini, fabbri, falegnami, pittori –, di cui l’autrice, nipote e figlia di artigiani, è giustamente fiera. C’è, nell’ultima strofa, un fulmineo trapasso, una identificazione tra il paese e l’infanzia, molto indicativi anche dello stile dell’autrice, che volentieri fa ricorso al-l’analogia: «Piccolo paese / profumo di legno e di pietra / infanzia di muschio e parietaria.»
La prima lirica ci offre un’altra indicazione, che è forse la sua piú alta: il paese natale, nell’evocazione poetica, è sempre circonfuso da un’aura sacra, da un’at-mosfera naturaliter religiosa, che è una prova di come il sacro, che in questo caso possiamo identificare col sentimento religioso, non sia una sovrastruttura ma una componente essenziale, insopprimibile della mente e del cuore dell’uomo, sin dalla piú tenera età; e questa rac-colta di Alessandrina è anche un mirabile documento poetico di tale fondamentale verità. Nel testo, il piccolo paese è un santuario, un tenero presepe, che nei terre-moti «piú sicuramente confida / nel santo nome che si è donato.»
Nelle liriche che seguono assistiamo allo svolgersi dei giorni in una perfetta armonia tra i bambini e la natura con i suoi elementi, come detto in Compagni di allegria: «Giocavamo a nascondino / nel borgo degli antichi te-sori / tutt’uno con noi / quando scoprivamo la tana.// All’aperto anche con le intemperie, / il solo rischio in quei tempi tranquilli, / ma sempre la neve la pioggia il vento, / si trasformavano in compagni di allegria.»
Vengono poi i mesi da maggio a dicembre e a gen-naio (con la befana), ognuno caratterizzato da un evento particolarmente significativo per la vita del paese e dei suoi abitanti, piccoli e grandi. Le feste religiose ricordate, prima del Natale, sono quelle del 13 giugno, dedicata a Sant’Antonio, e del 7 agosto, in onore del Patrono San Donato. Ammirevole la delicatezza da acquerello con cui viene rievocata la prima, con i gigli bianchi correlativo oggettivo del pudore dell’età infantile, e con i ragazzini che a sorpresa spuntano dai supportici, e allora un timido sorriso appena accennato tinge di gioia innocente le guance delle bambine. Tutto acceso dai fulgori del mattino estivo, dal manto rosso dell’imponente Patrono, dall’immancabile cocomero anch’esso rosso sulla tavola imbandita a festa, è invece il quadro ispirato alla festa di San Donato. Ut pictura poesis è il caso di dire con Orazio. Aggiungerei alla poesia e alla pittura anche la musica, presente con le campane in festa, i canti dei pellegrini, la banda, e, perché no, i vicoli plaudenti al passaggio della processione e i fuochi d’artificio. Quasi una spontanea concertazione delle tre arti.
Il lavoro delle donne e quello dei campi sono an-ch’essi onorati da Alessandrina: «Sedute davanti casa, le donne / intessevano ricami e storie, belle nell’antico co-stume e con un sorriso ricco di saggezza sul volto.»
L’asinello torna ad essere protagonista in questa civiltà non meno contadina che artigianale, come lo era l’indimenticabile ciuchino da Un amico vero in La città nel cuore: «Il rientro dell’asinello, / carico del raccolto e di fascine, / dava il segnale della cena / e subito i rin-tocchi / della campana dell’Ave Maria.» Sembra un quadro di Jean-François Millet, il pittore dei contadini francesi. L’asino è il compagno di lavoro paziente e pre-zioso, che noi lettori anziani abbiamo avuto la gioia di conoscere e di amare.
Siamo grati ad Alessandrina di averlo ricordato come merita anche in questa raccolta. Leggiamo infatti in Settembre: «Dolce settembre di vacanze allegre, / che ci svegliavi di buon mattino, / l’asino preparato con la soma / e due grossi cesti ai fianchi, / io e Raniero ci ca-lavamo dentro, / la zia, a piedi, manteneva la cavezza.» E in Gallinaro ricorda Salomè, l’asino delle zie, che ac-compagnava il padre nelle trasferte nel paese vicino, per fare provviste di sale, farina, uova e ortaggi. Quest’asino con tanto di nome mi ricorda l’asino Gabriele di nonna Gerarda, che alloggiava proprio sotto la stanza in cui sono nato, e i tanti asini che per oltre cento anni hanno fatto la spola, coi loro padroni sempre a piedi, tra Gallinaro e i centri del contiguo Abruzzo, Opi, Pescasseroli fino a Scanno, per fornire quei piú freddi paesi di vino, olio e frutta di ogni genere, riportando nella nostra valle saporiti formaggi e legna di bosco da ardere.
Siamo ormai nell’autunno inoltrato e, presto, in pieno inverno, Come potevano mancare i carbonai e gli zampognari? I primi «Scendevano dai monti ch’era autunno, / sulle spalle mantelli e sacchi neri», e fornivano il carbone per cucinare e soprattutto per fare il pane di casa: «Aveva un buon sapore / il pane di casa, / sapeva di forno a legna / e di donne affaccendate / che custodivano / nella madia la farina, / bianca come il grembiule / alla cintola annodato / e come il fazzoletto sui capelli, / bianco come la tavola apparecchiata / e con intorno tante sedie.»
Se nel primo libro il colore prevalente era l’azzurro del mare e del cielo, anche se solo sottinteso e tuttavia fortemente avvertito come tale, qui è il bianco della neve (quanta neve!), della farina, della tovaglia sulla tavola apparecchiata, dei capi dell’abbigliamento paesano; e mi viene spontaneo vedere in tanto bianco anche il simbolo del pudore e della santità di queste madri e sorelle sempre in faccende, per tenere in ordine la casa e unita la numerosa famiglia (vedi le tante sedie intorno al tavolo con una precisa “citazione” da Libero De Libero).
Gli zampognari annunciavano il Natale imminente e ne creavano l’atmosfera: «Erano due gli zampognari […] Venivano da un paese non lontano / [ Villa Latina] a portare in ogni casa la novena.» Rimanevano nel paese nove giorni, ospitati generosamente ma alla buona dalle due zie. Nel loro canto e nel suono del piffero e della zampogna, descritti nel romanzo La ragazza perduta, D. H. Lawrence, ospite a Picinisco con la moglie Frieda nel dicembre del 1919, sentiva la voce stessa delle nostre montagne.
Natale significava anche il presepe, immancabile in ogni casa ancora oggi. È una tradizione particolarmente sentita a San Donato, dove fino a qualche decennio fa, gli artigiani di ogni rione, con l’aiuto dei giovani, ne costruivano di bellissimi e di notevole valore artistico, per un concorso a livello regionale e non solo.
Alessandrina, sensibile al dolore e alle disuguaglianze del mondo contemporaneo, vede un presepe davvero vivente nella metro di Milano: un bimbo e una madre di nuovo gravida, che tendono la mano, mentre il padre suona nenie di Natale. Essi, sin dal primo mattino, scen-dono e risalgono nei vagoni fino all’ultima corsa, e riescono a scuotere l’assuefazione dei passeggeri. Nel libro il ricordo del passato è sempre coniugato col presente e animato dal calore della carità, dell’amore per il prossimo, in particolare per i poveri e i diseredati.
Dopo il Natale, viene per i bambini la festa piú attesa e gratificante, la Befana! Essa occupa un grande spazio nel libro e viene descritta in tutti i momenti del sacro rito, con le parole semplici e leggere che si addicono ad una favola. Siamo nel dopoguerra, negli anni 1955-56, e la vecchia bizzarra con il cuore d’oro non ha granché da portare in regalo e le calze appese al camino conten-gono poche, umili cose, ma i bambini sono ugualmente felici: «noi aprivamo nelle nostre mani / spicchi di sole dentro un mandarino.» Il piccolo frutto qui, come nella lirica seguente, che dà il titolo al volume, è visto, goduto dai bambini anche nel suo valore evocativo e simbolico. I suoi piccoli spicchi, oltre a nutrire, confortano nel freddo inverno, perché sono visti come spicchi di sole. Superfluo aggiungere che in Alessandrina il mandarino vuole essere anche uno dei simboli della sua terra sici-liana. Il Comune, in armonia con la sua tradizione de-mocratica, è solidale con le famiglie degli operai. «Arri-vò la befana comunale, / per ogni famiglia, al primo nato, / gonne, pantaloni, scarponcini / e bambole con i nomi dell’Est. / Erano le prime bambole animate / e Ta-tiana camminò verso di me. // L’anno appresso ritornai, / ma presi un paio di scarponcini, / scelta previdente la mia / per quell’inverno straordinario / che volle stabilirsi da noi / per mesi e mesi, / cedendo il passo solo all’estate.» (Tatiana).
Siamo nel nucleo centrale del volume, in cui la poesia si arricchisce maggiormente di un’altra dimensione, quella del documento storico.
Il freddo, lungo inverno del 1956 (simile nei danni a quello del 1929) è ricordato in quasi tutta la letteratura europea, recentemente anche dallo scrittore svizzero Julien Dunilac, nel suo ultimo libro di poesie Cinquante poèmes in do mineur (L’Âge d’Homme, Lausanne, 2013).
Di sfuggita ricordiamo che a Scanno si dovettero in-terrompere le riprese del film di Giuseppe De Santis “Uomini e lupi”, anche se alla troupe e alla popolazione venivano portati soccorsi con gli elicotteri. Alessandrina dedica a quell’interminabile inverno numerose compo-sizioni, e anche se gli occhi della bambina e poi quelli nostalgici dell’autrice non possono sfuggire alle sedu-zioni e alla magia della neve, la realtà affiora netta sotto l’immensa coltre bianca: «E continuò la neve / in fiocchi leggeri, / poi piú fitti, piú grandi / quasi bianchi giganti / dalle lunghe dita inanellate. / […] Si sollevò il selciato / delle strette viuzze, / scomparvero le entrate / delle case fumanti, / si camuffò anche l’angelo / che indicava ai passanti / la direzione del vento.» Ma ecco, nella pagina seguente, la strofa con la nota piú dolente: «Era l’inverno del ‘56 / che si allungò oltre la primavera / come i numeretti incolonnati / dentro le pagine della libretta nera.» La libretta nera era il quaderno dei debiti. Ci fu, è vero, un prodigarsi in aiuti, una gara generosa tra i maggiori partiti politici e tra questi le parrocchie, per alleviare le sofferenze e i disagi dei piú bisognosi, ma le conseguenze di quel terribile inverno si fecero presto sentire per adulti e bambini. Alessandrina lasciò di nuovo San Donato per tornare in Sicilia, altri bambini erano partiti per il Nord Italia, dove erano stati accolti da famiglie di buon cuore, che avevano fatto conoscere la loro disponibilità. Gli adulti ripresero la via dell’emi-grazione per gli Stati Uniti, preclusa però ai comunisti e ai segnalati come tali. Tutto ciò è detto compiutamente nella lirica Partenze: «Con l’estate del ‘56 / giunse per me la partenza, / lasciai il mio piccolo mondo / fatto di neve e di vento / e corsi col fischio del treno / a rag-giungere il sole del Sud. // Prima di me, altri bambini erano partiti / ospiti di famiglie accoglienti / in località italiane del Nord […] / E s’intensificò l’emigrazione, / si andava verso il Nuovo Continente, / dove i paesani si facevano garanti / per vitto, alloggio e lavoro.» Anche suo padre fu spinto a partire, «benché non persuaso, / ma fu sospettato comunista / e rimase dov’era il suo cuore / operaio artigiano come tanti, / categoria detta degli artisti / tutti fieri della loro appartenenza.»
La storia del paese, molto noto già allora per la pas-sione politica e l’antifascismo, diventa un tema impor-tante. Il libro di Alessandrina dimostra come un volume di poesie, ricco di riferimenti concreti, può essere una fonte preziosa per gli storici, e come la letteratura in ge-nere è uno strumento privilegiato per definire il clima di un momento e di un’epoca. Occorre tenere presente che la nostra poetessa è anche appassionata di ricerche sto-riche, in particolare sulla Resistenza e i suoi martiri, cui ha dedicato articoli assai importanti.
Se lo zio di Alessandrina è socialista, il nonno invece è un anarchico, un idealista romantico, nemico di ogni compromesso. La Sinistra sandonatese ne annoverava parecchi (faccio un solo nome, quello di Antonio Quin-tiliani, amico mio e del noto anarchico cassinate avv. Vincenzo Di Mambro, caro ad entrambi, e fratello di Maria, storica bidella della locale Scuola Media). La fi-gura del nonno sandonatese campeggia quasi a chiusu-ra della prima sezione del volume, nella lunga composi-zione intitolata Nonno, di cui riportiamo la prima parte: «Mastro Carmelo, muratore artista / ti chiamavano il mago dei tetti / ma cadendo giú rimanesti zoppo. / Ve-dovo anzitempo / di Alessandrina / (porto il suo nome) / orfano di madre che ancora eri bambino. / […] Into-navi l’inno, nel letto, ogni sera, / era la tua preghiera, / poi spegnevi il lume e ti addormentavi.» Questo nonno che vive solo e come preghiera serale, prima di addor-mentarsi, intona l’inno anarchico, e, per uno strano pudore, è poco loquace con la bambina, che invano gli chiede il racconto di una favola, ci ricorda, per contra-sto, il tenero e affettuoso nonno siciliano Zú Pè, che la notte di Natale è il primo ad accompagnare la nipotina nella chiesa gremita di fedeli.
La prima sezione del volume contiene anche compo-sizioni dedicate alla scuola elementare, le cui prime quattro classi Alessandrina frequenta nel suo paese. Siamo nella prima metà degli anni Cinquanta, le ferite della guerra sono ancora da rimarginare, e i pericoli ancora incombenti: «e i manifesti, alle pareti della scuo-la, / del bambino con le stampelle, mutilato, / che rac-comandavano di non toccare / residui bellici e oggetti sconosciuti.» Il lettore può rendersi conto del lavoro prezioso svolto dagli insegnanti con infinito amore, per proteggere i bambini loro affidati, farli crescere sani fi-sicamente e moralmente, affinché diventino bravi citta-dini. Ho sempre avuto grande stima dei docenti delle scuole elementari, sia per le solide basi che danno al-l’istruzione dei nostri figli, sia per la loro preparazione enciclopedica, per cui li ritengo la vera ossatura cultu-rale e morale del nostro Paese.
La lettura di questo libro di Alessandrina, anche lei insegnante di scuola primaria, mi ha ulteriormente confermato nella mia opinione. La poesia intitolata La scuola riassume efficacemente i valori in essa coltivati: «belli i due libri con le storie vere / poesie alla patria / e ai valorosi eroi del Risorgimento, / chiari gl’insegnamenti / volti a fare di noi / onesti cittadini / […] eravamo bambini appassionati.»
Chiude la sezione una composizione molto significa-tiva. Dopo la 5a elementare e la Media, frequentate a Palermo, avviene il definitivo rientro al paese montano. Ma Palermo rimane sempre nel cuore, diviso tra la montagna e il mare; una dualità che nell’immediato crea disagio e sofferenza, ma col tempo si rivelerà un arricchimento: «E poi il ritornare / ed essere nel con-tempo altrove / […] dualità dell’io, Giano bifronte.»

Nella seconda sezione acquista particolare rilievo la figura del padre Domenico. Un padre col cuore di bam-bino, che ha una bella voce, è un bravo artigiano-pittore. Con versi leggeri e toccanti, si rievocano gli epi-sodi piú salienti della sua vita fino all’anno della scom-parsa. Durante l’infanzia di Alessandrina e dei suoi fra-telli, il padre, dopo una giornata di duro lavoro, trova il tempo di giocare con loro e anche di raccontare le favo-le, mentre sono a letto in attesa del sonno. La domenica, ecco la tavola apparecchiata con intorno i bambini, a ognuno dei quali viene assegnata una piccola manciata di monetine, e poi, recitata la preghiera, tutti svelti a mangiare i maccheroni che attendono fumanti nella zuppiera. È il bellissimo ritratto delle famiglie numerose di una volta, semplici, contente del poco, laboriose, uni-te, felici. E qui come non sottolineare una peculiarità tutta italiana anche in quegli anni? Un artigiano “so-spettato comunista”, nel paese piú rosso della Valle, che prima di mangiare recita e fa recitare la preghiera ai fi-gli, e nel mese di maggio tutti davanti all’altarino, alle-stito in casa, a cantare le lodi alla “Vergine Bianca”, che ascolta compiaciuta gli a solo del capofamiglia.
Nella lirica intitolata La scala viene descritto con or-goglio il lavoro del padre: «Avevi una scala a libro, pe-sante, / la sistemavi nel mezzo della stanza / e su di essa tinteggiavi […] / Sulla testa mettevi un curioso cappello / che facevi con carta di giornale, / mi sembrava una barca capovolta / e tu l’artista che dipingeva il mare. / Del tuo mestiere / gelosamente custodivi / il segreto delle venature / “finto legno” e “finto marmo” le definivi / e l’accostamento dei colori / con cui ottenevi / le piú rare sfumature. / Avevi la mano ferma, l’occhio esperto, / padre, ero orgogliosa di guardarti.» E in un’al-tra lirica afferma: «Sai, io ero felice / le sere in cui rincasavi / profumato di vernice / e con indosso la giacca / un po’ macchiata di biacca.»
Sono versi che mi piace accostare a quelli dell’amico poeta italo-belga Francis Tessa, anche lui fiero di un padre pittore come quello di Alessandrina.
Questi artigiani-artisti, di cui non solo i figli e la fa-miglia, ma l’intera comunità era giustamente orgoglio-sa, in Ciociaria, sono venuti quasi tutti scomparendo, a partire dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, sia a causa dell’emigrazione, sia perché l’istituzione an-che nei piccoli paesi delle scuole di Avviamento, poi tra-sformate in Medie, e la provincializzazione di molte strade comunali, ha trasformato molti di essi in bidelli o cantonieri. Malgrado la grande bravura dell’artigiano, il suo lavoro rimaneva precario e non adeguatamente re-tribuito. La sua fuga all’estero o verso il “posto fisso” va capita e giustificata, tenendo conto anche dell’assenza di politiche di incoraggiamento del suo importante settore produttivo.
Gli anni volano, i genitori invecchiano: «hanno la te-sta bianca / e i segni del tempo / inesorabili sul volto.» Le palpebre appesantite rimpiccioliscono i loro occhi, ma lo sguardo rimane quello di una volta: «severo e pe-netrante» quello della madre, «bambino e sorridente» quello del padre.
La severità dello sguardo della madre, ancora viva, è stata già oggetto di una poesia precedente, Lo specchio, e basta da sola, nell’economia del libro, a farci capire l’arduo compito che la donna ha dovuto svolgere per guidare, accanto al marito, una numerosa famiglia.
L’amatissimo papà riconquista subito la centralità che conosciamo; «I tuoi occhi, padre, / sono racchiusi tra gli anni / e il celeste che prima vi splendeva / sem-bra ormai spento, / cammini curvo, / hai il passo lento. / Io mi domando se ti ho donato amore.» Ecco la do-manda angosciosa che ancora si pone Alessandrina. E la domanda è subito seguita da un tenero proposito: «Il piú è andato, padre, / […] / ma per quanto rimane / sento che riuscirò a recuperare.» Certamente gli affanni degli ultimi anni di Domenico sono stati alleviati anche dalle premure della figlia amorosa. E a vegliarlo nell’ultima notte della vita terrena è Alessandrina, ricavandone, quasi premio alla sua devozione e buona volontà, l’ispirazione per i versi straordinari, che trascriviamo incolonnati come sono nel libro, trattandosi non solo di uno dei vertici poetici del volume, ma anche di alcuni dei piú bei versi ispirati dall’amore filiale per il padre:

27 Febbraio 2005

Mi offrono una sedia
per l’ultima notte al tuo fianco,
ti veglio, ti sfioro la fronte
già madida di sudore.
Padre, nel tuo leggero bagaglio
porterai anche la mia carezza?

La terza sezione si apre con la confessione di una consuetudine e di un rapporto con la poesia, trattata, con incantevole confidenza, come un’amica; «Arrivi / e in quel momento / tralascio il fare / per ascoltarti. / Mi parli / e sento / quel che volevo da tempo.» Ecco la rag-giunta saggezza del giusto equilibrio tra il fare e il con-templare, il meditare, qui simboleggiato dalla poesia! Si arriva, per vie e con parole molto semplici, a un’ul-teriore verità: la poesia, che nella prima sezione era il paese stesso, qui è la fanciullezza. Un’infanzia, cioè, che pascolianamente offre la sua visione del mondo al poeta, e ne riceve in cambio il dono miracoloso di rimanere ferma, fissa per sempre, di diventare foscolia-namente eterna: «Ti accorgi / che il tempo / non infrange / i sogni cullati. / Sorridi, Poesia / sei tu la fanciullezza / che non corre via.»
Il motivo dell’infanzia percorre questa sezione anche con implicazioni meno impegnative, come nei versi: «Nell’urlo del vento / dietro i vetri appannati dal fiato / ritorniamo fanciulli in attesa.»
E compaiono anche due bambini, che ci dicono come, col passare degli anni, sono mutati i ruoli dell’autrice, qui in veste prima di madre e poi di nonna. In Ncencerrò (a Silvia) è Alessandrina che racconta la favola preferita alla figlia bambina: «Ncencerrò era la fiaba / che mi chiedevi / e al finale sempre ti addormentavi […] Io restavo a te vicina / e sfioravo i tuoi riccioli belli, / ascoltavo il tuo respiro tranquillo. / Il cacciatore / anche oggi le aveva salvate / dal pancione del lupo briccone. / Ncencerrò forse ti somigliava, / in punta di piedi me ne andavo.»
Nella poesia che chiude la sezione e l’intero volume Alessandrina si presenta nelle vesti di nonna. Visita An-zio, la città dello sbarco alleato del gennaio 1944, in-sieme al nipote Livio: «Sui muraglioni del porto i tabel-loni / che ricordano la storia / dello sbarco alleato / con case rase al suolo / e gente in fuga. // Guardiamo attentamente insieme, / ti fai piú vicino / mi stringi la mano, / e leggo nei tuoi occhi di bambino / la richiesta di pace e di amore. / Sarai tu a fare il mondo migliore?.» È una poesia impegnata a fare della memoria storica un efficace strumento di pace. Altre ne abbiamo incontrate e vi accenneremo presto, ma prima vogliamo ricordare la compresenza anche nella sezione di altri importanti motivi.
Nella penultima lirica Ma Tu ci sei, ci viene ricordato come la pace e la fratellanza tra gli uomini trovano nel sacrificio di Cristo un fondamento religioso, ispirato alla Carità, cui si ricorre sempre trovandovi il conforto piú grande e durevole: «Nella Tua Croce / che l’umanità raccoglie / come granulo di sabbia d’oro / io mi ritrovo / e in Te, Sapienza e Amore, / respiro pace e la diffondo intorno.»
Tornano nella sezione i rapporti tra gli elementi na-turali, che caratterizzano piú marcatamente il paese montano e l’uomo. Nella poesia Tramontana si mettono in rilievo sia le case del borgo che strette l’una all’altra possono resistere meglio alla sua forza (un chiaro rife-rimento alla necessità di unirci per essere forti contro nemici e avversità), sia la naturale barriera delle piante di ulivo, di cui però il vento disperde i frutti, sia infine la tenace pazienza dell’uomo che si china a raccoglierli: «Sotto l’aria cruda e pungente, / con pazienza e fatica, / li raccoglieranno ad uno ad uno, / annosa sfida tra la natura e l’uomo.»
In un’altra lirica, tra le piú belle dell’intero volume, Rosa d’autunno, si descrivono con grazia e tenerezza due doni della natura, il fiore e la «stagione che non vuole finire»; ma appare anche con grande evidenza un’altra caratteristica fondamentale di ogni poeta e artista in generale: lo stupore e la gioia che avverte piú degli altri davanti alle bellezze apparentemente minori del creato.
Sul piano dell’impegno e della memoria storica spic-ca il rendiconto in versi di un viaggio in Polonia con un gruppo di insegnanti di vari Paesi europei. La suite è in crescendo e termina con la composizione dedicata alla visita al campo di sterminio di Auschwitz: «Varchiamo il cancello di Auschwitz, / ci aggiriamo tra i blocchi / che tracciano i viali del campo, / nella piazza dell’appello, / intorno all’albero dell’impiccagione. / Incombe un cielo d’acciaio / arrugginito come le rotaie / che traducevano dentro le baracche, / lasciando a mezz’aria / i pallidi, minuscoli biglietti / che imploravano un ultimo contatto / col mondo che rimaneva fuori. // Entriamo nel museo degli effetti personali: / dietro le vetrate, montagne di oggetti / che sprofondano nel ventre della morte, / ed è tanto il vestiario dei bambini.» Tornando in albergo, vedono ai margini della strada «un contadino / con un cesto di mele rosse, / una sfida ai fantasmi della sera», ed un’ulteriore allegoria, aggiungiamo noi, dei doni della natura che risarciscono la vita umana delle follie omicide e suicide dell’uomo stesso. In questo caso, della follia nazista, di Hitler, il piú sanguinario tiranno di tutti i tempi.
Alessandrina De Rubeis ha saputo armonizzare le due identità, quella siciliana e quella ciociara, di cui si compone la sua personalità, allargando l’ambito dei suoi interessi e il suo orizzonte culturale oltre i confini della provincia, dando cosí maggiore profondità e rilevanza alla sua opera poetica e alla sua ricerca storica.
Le illustrazioni sottolineano, con discrezione ma con sincera adesione e consonanza, i motivi piú importanti del volume, e ne rendono piú evocativa e toccante l’at-mosfera. Molto felici per la tecnica raffinata i disegni di Marco Coletti; pregevolissime le foto di Mario Piselli (insegnante assai noto anche per l’alto livello dei suoi scatti), dello Studio fotografico Marini, e di Tonino Ber-nardelli.

Gallinaro, 3 dicembre 2014
Gerardo Vacana

  • Autore
  • Giuseppe Ernesto Segreto
  • Titolo
  • Il ballo della vita
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 96
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 10,00

«Ci sono storie che non possono avvenire dinanzi agli occhi di tanta gente, e credo che la mia storia faccia parte di questa ristretta cerchia». Con queste parole l’autore introduce il suo racconto, fornendo già la chiave di lettura della sua opera; essa narra una storia particolare, caratterizzata dalla descrizione di sentimenti profondi e impalpabili, e per ciò stesso inadatta alle grandi platee, anzi assolutamente intima e riservata.
Una storia dove emerge il profilo umano ed emotivo di un ragazzo di 23 anni, con tutti i tur-bamenti, gli entusiasmi e le paure della sua gio-vane età, ma dove gli spunti di riflessione sulla vita e sul suo significato sono numerosi e profondi, rivelando una capacità non comune di leggere l’animo umano ed i sentimenti che in esso albergano. Il primo, il piú importante, è l’amore, che costituisce l’elemento guida di tutta la narrazione, preparato da una vicenda che trova il suo acme nell’incontro con Margherita, la donna per eccellenza, simbolo di un eterno femminino che ricorda l’irraggiungibile Micòl, emblematico personaggio creato da Giorgio Bassani ne Il giar-dino dei Finzi-Contini.
L’amore per la bellissima Margherita, però, non esaurisce il significato del racconto, ma sembra a volte solo il pretesto per andare oltre, per scendere sempre piú nel profondo dell’animo umano o salire al di là di ciò che vediamo con gli occhi razionali della mente, in una dimensione surreale, onirica, dove trovano voce e luogo i fantasmi del nostro cuore, angeli o demoni che siano. Il passaggio continuo, a volte repentino, tra la quotidianità “normale” e il sogno, che spesso appare come una voragine che inghiotte il protagonista per condurlo attraverso fiabeschi giardini incantati o palazzi tenebrosi con labirinti angoscianti, è lo strumento narrativo di cui l’a-utore si serve per dare voce al flusso ininterrotto di razionale ed irrazionale che si avvicendano senza sosta nel nostro animo, flusso che si concretizza in immagini che evocano atmosfere a volte barocche e a volte gotiche.
Non solo romanzo d’amore, dunque, ma viaggio nell’animo umano, ricco di spunti di riflessione e condotto attraverso l’esperienza di un ragazzo qualunque, che, pur immerso nel suo mondo e nella vita forse troppo veloce dei giovani di oggi, non ha rinunciato al piacere di fermarsi per riflettere. Un racconto originale, scritto con garbo, che riesce ad avvincere il lettore sin dall’inizio, conducendolo con leggerezza ad un epilogo per nulla scontato, dove Margherita svela finalmente la sua natura di simbolo universale.

Sabrina Mazzeo

  • Autore
  • Rita De Magistris
  • Titolo
  • Uno spicchio di sole
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 64
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 8,00

Spicchio di sole spacca le nubi

Ormai ha solo l’imbarazzo della scelta, come si dice in questi casi: Rossella de Magistris ha scritto per anni e ha conservato tutto, in vista di un giorno che la convincesse a proporsi come autrice, che la po-nesse – edita e disponibile alla lettura – nel mirino di chi ancora alla poesia attribuisce un ruolo, letterario non solo ma umano. Prima ancora che essere poetessa, lei è infatti umanissima creatura che si offre nelle facce che il tempo le ha dato: co-minciando a sistemare le decine e decine di poesie raccolte nello scorrere della sua esistenza, Rossella ha deciso infatti di mostrarsi come donna, ricca di sé, del suo vivere stesso, della tenace volontà di vivere. E dirsi, certo, poiché scrivendo sapeva bene che prima o poi qualcuno avrebbe letto e scoperto, magari compreso, forse condiviso... la funzione del fare poesia è quella di partecipare e mettersi in comunione.
Il regalo di queste quarantanove poesie è dunque appena un inizio, un primo sorso di vita vissuta e custodita sulla carta. Rossella ha selezionato e ordinato – senza troppo rigore, sembra, ma con la ferma convinzione di rendere manifesta una sua via, nella quale ha percorso i gradini non sempre agevoli del suo andare, costruendo e sperando, aspettando e risolvendo, spesso anche subendo lo schiaffo del tempo e della sorte, l’incomprensione e la delusione degli uomini. Ma comunque avanti, non è tipo da fer-marsi sugli ostacoli: capace anzi di procedere pur nelle difficoltà e nelle intemperie, cui la vita ci spinge contro, anche inconsapevolmente – ma ineluttabile.
Asprezza di toni e leziosità lessicali, durezza di forme, insistite ellissi: la vena lirica qui oscilla tra varie lezioni espressive, ma il tono generale è co-stante, essendo costante l’attenzione che Rossella de Magistris ha posto alle cose della vita, ai sentimenti del prossimo, abituata a tenersi dentro le osservazioni anche se sulla carta si assicurava che rimanessero a futura memoria, anche sua. E poi, adesso che la vita le pare pronta ad una svolta, rinnova il suo patto con il mondo, facendo i conti col passato e dunque catalizzando il brutto e il bello del suo vissuto.
Incastonati nel fluire di immagini e sensazioni, certi versi isolati valgono la bellezza di questo libro: l’autrice si fa qualche volta prendere dal pathos dell’esistenza e ne risente l’armonia di qualche testo – o è da pensare che voglia proporsi proprio come ella stessa sente l’accartocciarsi della foglia esistenziale... Non ha pudore proprio perché non ha più paura di sé. Per evitare che «L’intera vita [sia] pagine scritte, / ma non su scaffale posate, / bensì al fuoco consegnate», bisogna imparare a riconoscerla come una «Giostra senza posa [che] gira come vortice»: l’artificio poetico coglie momenti che si susseguono senza posa e ne registra – spontanea adesione – il valore di e-sempio.
Perciò emergono – segnacoli imprescindibili nel-l’itinerario insieme umano e artistico – i ricordi della paziente tessitura (e delle smagliature, confessate anch’esse) di una complessa femminilità. Così, come uno «Spicchio di sole spacca le nubi», sgorga dal-l’animo afflitto una parola che consola, che riapre e slarga e invita a percorrere di nuovo un sentiero dimenticato, una via sbagliata, una porta troppo a lungo rimasta chiusa. Ecco perché “Cerco” (uno dei testi più belli di questo libro) diventa un modo di essere, un desiderio di andare oltre, di non contentarsi al quia – direbbe Dante: bisogna cercare con la speranza non solo di trovare, ma perché nel cercare stesso è il trovare, la capacità di leggere nelle cose e scor-gervi presenze e significati.
La poesia di Rossella de Magistris, “Gabbiana stanca” che spinge “solinghi pensieri” verso oriz-zonti di sogno, è un bacio di sole, una lacrima di pioggia, un sorriso di alba nuova. Nella parola poetica, l’anima («or nuda a meraviglia») si quieta e il dolore del giorno appare cristallizzato e sopportabile: non è più un “pozzo”, l’animo, in cui celare i pensieri del male; è invece una “risposta condivisa” a chi sia capace, pronto, responsabile, al lettore cui si rivolge infine la musica soave di un palpito e da cui si aspetta però uguale forza d’animo nel decifrare i segni di un sentire comune.
Intanto, sfogliando le pagine che sono il dono di queste poesie, possiamo essere certi che Rossella non ci lascerà: pegno di amicizia, ci offre stille di sua vita – genuine passioni di donna che subisce il fascino della parola poetica più di quanto voglia dominarla forzandone i sensi –, soffre nell’offrirsi scoperta delle difese dietro cui non vuole più difendersi, e vive con noi per essere la vita che vuole. Ci darà ancora notizie di sé, ci vorrà ancora con sé, ci chiamerà a leggere altri quaderni del suo diario, a sfogliare altre pagine del suo grande cuore – e saranno scintille che accenderanno il nostro.

settembre 2015
Giuseppe napolitano

  • Autore
  • Lina Rotunno
  • Titolo
  • La maestra Napolitano
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 128
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 8,00

Invito alla lettura

Laggiù dov’è Mogador (tu cantavi) – e qui
ambasciatori di parola siamo insieme
come avresti voluto (perché basta
volersi bene – dicevi – a stare insieme)


Si fa maestra la rossa Marrakech
di umanità con l’augurio che si possa
volersi bene almeno fra poeti
                                             – e poi
comunicare a chi ci ascolta un sentimento
di bontà (dedizione a chi ha bisogno
delle nostre parole regalate
a piene mani – maestra disponibile)


e di amore quello vero che non chiede
in cambio nulla – l’amore di una mamma
più che maestra per i suoi alunni.

Scritta a Marrakech, lo scorso aprile, in occasione della nostra partecipazione (io e Irene, insieme) al Festival internazionale di Poesia – invitati dall’amica Dalila Hiaoui –, questa riflessione lirica dedicata a mia madre era intenzionalmente preparata per aprire la pubblicazione delle sue pagine scelte, a cele-brazione dei cento anni dalla sua nascita.
Ho dedicato gran parte dello scorso 2014 a ricordare mio padre a cento anni dalla sua nascita – ora sento pure di dover fare almeno una cosa per la mamma. Già pubblicai, in due versioni, una scelta delle sue poesie (strappate a una decina di quaderni). Per questo centenario mi sono messo davanti le numerose agende in cui ha annotato quasi quotidianamente pensieri e sofferenze, e i diversi quaderni che usava per scrivere le sue pagine scolastiche.
Non le piacevano molto sussidiari e libri di lettura. che pur doveva far adottare ai suoi alunni di scuola elementare: preferiva scrivere personalmente i brani da far leggere e studiare... In particolare, a Natale o per la festa della mamma, il 2 o il 4 novembre, in tempo di carnevale o alla fine dell’anno scolastico, ogni occasione insomma era buona per comporre un suo brano e proporlo alla scolaresca.
Ho trascritto senza cambiare nulla. Tra parentesi quadre, alcune incertezze di costruzione, e qualche variante da lei stessa proposta. A posteriori, un po’ mi ha sorpreso, nelle pagine scolastiche, il frequente richiamo al Signore, certo ad uso di una pedagogia (quarant’anni fa, e più) rivolta comunque ad uno standard “ministeriale” che prevedeva – ideologie personali e convinzioni religiose a parte – che il maestro delle elementari impartisse anche i fondamenti della religione. Ma il Signore di mia madre abitava con lei, direi dentro di lei.
Insieme alle pagine di scuola, però, e a quelle più personali, di riflessione sulla propria natura e sulla vita in tempo di guerra, non ho resistito alla tentazione di proporre anche una – ridotta – scelta di poesie, fra le tante non pubblicate nei libri usciti a un anno e a dieci anni dalla morte: Strappi d’anima (Edizioni Eva, 1998) e Stracci d’anima (la stanza del poeta, 2007): completano, mi pare, il suo ritratto di maestra – perché sempre nella sua vita mia madre lo fu, operaia convinta in una grande fabbrica di uomini quale riteneva dovesse essere la scuola, ed anche fuori della scuola, poiché per lei un uomo degno di questo nome lo è nello spirito produttivo di bene per il prossimo.

Giuseppe napolitano
settembre 2015

  • Titolo
  • Un albero per ombrello
  • Autore
  • Mariano Coreno
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 111
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 10,00

Un albero per ombrello: Coreno
«Dolce paese, onde portai conforme / l’abito fiero e lo sdegnoso canto / e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme, / pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto»...
Cosa c’entra Giosuè Carducci con la poesia di Mariano Coreno? “Traversando la Maremma toscana” mi pare cada a proposito per questi tuoi versi, Mariano, intitolati Un albero per ombrello.
Perché tu, caro Mariano, non hai scritto delle poesie ma dei versi. Versi che fanno parte di una sola, grande e ancora incompiuta poesia intitolata “CORENO”. E se i tuoi versi sono brevi è perché sono propriamente dei versi e non delle poesie. Sono versi – ripeto – di quell’unica poesia che hai scritto e stai ancora scrivendo e scriverai ancora, e che si chiama, come già detto, “CORENO”.
Dunque, abbiamo a disposizione una lunga poesia ancora da completare, che si chiama “CORENO”, e un poeta che quella poesia deve ancora terminare che si chiama Mariano Coreno. E mai come questa volta un nome, meglio un cognome, risulta piú azzeccato, piú giustificato, piú rispondente alla realtà.
Non si trattasse di te, caro Mariano, la circostanza non andrebbe nemmeno citata, figuriamoci sottolineata. Cambierebbe qualcosa se tu non appartenessi alla grande famiglia dei “Coreno”, che pare abbia dato il suo nome al nostro paese?
Non cambierebbe niente, rispetto a te, rispetto alla tua poesia, se tu ti chiamassi diversamente, se il tuo cognome non fosse “Coreno”. Ma la circostanza, come l’ho chiamata, che tu ti metti “Coreno”, nel tuo caso va citata e perfino sottolineata. Perché tu vivi questa circostanza casuale come un altro dono, come una sottolineatura del fatto che sei di Coreno, come una garanzia, come un motivo in piú per amare Coreno: per fare di Coreno la protagonista, la figura centrale se non unica (a me sembra unica) della tua poesia.
Ora, in tutto quanto fin qui detto, cosa c’entra – torno a chiedere – Carducci e la poesia “Traversando la Maremma toscana”? C’entra, e come! Carducci, infatti, che dice in quella particolare e, secondo me, particolarmente bella poesia? Dice che non gl’importa di dover morire, di essere condannato e vicino alla morte; non gl’importa nemmeno di aver visto morire i suoi sogni piú inseguiti, i suoi ideali piú amati; non gl’importa neanche di aver rincorso invano le sue piú care aspirazioni e le sue speranze piú tenaci. Non gl’importa piú nulla di nulla, essendo diventata ormai la sola cosa importante per lui aver ritrovato in se stesso i luoghi della sua adolescenza e giovinezza, luoghi dai quali gli arriva il soffio rigeneratore del sostegno della vita che gli è rimasta da vivere:
«… ma di lontano // pace dicono al cuor le tue colline / con le nebbie sfumanti e il verde piano / ridente ne le piogge mattutine.»
Ecco dove e come l’immenso e un po’ antipatico Carducci s’incontra con il caro e minuscolo Mariano! In questo amore per i luoghi nativi, la cui presenza si fa piú forte via via che piú se ne allontana, rivive l’età dell’innocenza, ritorna l’età dell’adolescenza, l’età immortale della vita mortale.
Perché se è vero che tu, caro Mariano, vivi in Australia da piú di mezzo secolo, da quasi sessant’anni, è vero soprattutto che tu sei nato alla vita, che tu hai trascorso la tua adolescenza a Coreno. Cosí in Carducci: per il quale stare a Bologna significava portare ancora di piú nel cuore la Maremma toscana dei suoi anni formativi e decisivi. Quanto a te, tu in realtà non sei vissuto, non vivi in Australia: tu hai risieduto semplicemente, tu risiedi soltanto in Australia. Tu, da quando sei nato, da quando eri ragazzo, hai vissuto sempre in Italia. Mi viene a questo punto, a questo riguardo, di pensare a Emily Dickinson: la poetessa che, volontariamente reclusasi in una stanza, aveva eletto a sua dimora l’universo per essere libera come l’universo.
Apparentemente, visibilmente tu sei vissuto in Australia; ma sostanzialmente sei vissuto e vivi a Coreno. E attraverso la tua poesia, Coreno cessa di essere un ricordo, qualcosa di perduto nella memoria e dalla memoria ritrovato e richiamato: Coreno ridiventa, come è stato, la tua nascita, torna ad essere la tua nuova adolescenza: il passato, cioè, cessa di essere il passato per diventare il tuo attuale, tuo reale presente.
In tutto questo, è stata essenziale la tua poesia che ti ha consentito di continuare a vivere a Coreno perché essa stessa si è identificata in Coreno. E tu, caro Mariano, non hai scritto tante poesie ma tanti versi di una stessa poesia. Tu hai scritto, e continui a scrivere finché vivi, una sola poesia composta di tanti versi che sembrano a modo loro poesie ma fanno parte, sono parte, di una stessa, di una sola poesia.
«Anche / con la pioggia / canta il merlo. // Ha l’albero / per ombrello», una delle pagine di questo libro che vai scrivendo. E il “merlo” sei tu, Mariano, che canti anche con la pioggia, anche quando tutto sembra rovinarsi e rovinare, perché anche tu hai per “ombrello” l’albero della poesia, e cioè Coreno.
Prima di chiudere, di concludere queste mie riflessioni sulla tua poesia, caro Mariano, voglio dirti, voglio darti il mio ringraziamento. Lo so, ti sembrerà strano, come sembrerebbe strano a un uccello qualcuno che lo ringraziasse del suo canto. Anche tu, infatti, canti come un uccello, e cioè naturalmente e gratuitamente. E tuttavia voglio lo stesso ringraziarti. Come voglio ringraziare i due impareggiabili amici, Amerigo Iannacone e Domenico Adriano, che hanno consentito questo nostro incontro con te, con la tua poesia. Umberto Saba, che essendo un grande poeta non temeva di sembrare piccolo inserendo delle “moralità” nei suoi versi, scrisse una volta, e proprio in una poesia intitolata “Quasi una moralità”, che «il mondo – tutto il mondo – ha bisogno d’amicizia». Ebbene, Amerigo e Domenico che hanno preparato e curato con sapienza d’amore questo tuo Un albero per ombrello, all’amicizia hanno risposto e corrisposto interamente, amichevolmente, affettuosamente.
Caro Mariano Coreno, caro Coreno e, anche per merito tuo, cara Coreno!

Dalla postfazione di Tommaso Lisi

  • Titolo
  • Dalle radici alle foglie alla poesia
  • Autore
  • Isabella Michela Affinito
  • Pagine
  • 112
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 12,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-47-1


Se poi si pensi che all’origine dell’Uomo c’è stato l’Albero, allora questo è un motivo in più per snocciolare una silloge appropriata che vuole, possibilmente, raccogliere tutti i contorni, visibili e interiori, dell’albero così come esso ci sovviene in tutte le stagioni; in particolari nostri stati d’animo; in viaggio mentre scorrono oltre il finestrino; nella lunga letteratura fino ai nostri giorni e nell’arte come l’abbiamo visto trasfigurarsi sotto l’influsso degli stili, anche soprattutto gli ultimi del secolo scorso.
Se poi si pensi che nella postura dell’albero si annida il destino dello stesso, allora si può essere certi che questa creatura vegetale ha in sé il mistero della genesi, dell’inizio di qualcosa di importante, così come sono stati importanti gli alberi nel giardino dell’Eden. «Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. (...) Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.”» (Dalla Bibbia - Antico Testamento - Genesi).
Un divieto assoluto infranto subito dopo, per aver ingerito il frutto dell’albero in questione e così il primo uomo e la prima donna lasciarono per sempre quello spazio di Paradiso di cui avevano usufruito per breve tempo. Da quel biblico momento l’umanità non ha conosciuto altro che dolore, rimpianto, infelicità, tormento, confusione, disperazione, e tutto per aver voluto usurpare a Dio la indissolubile verità di ciò che è solo bene e ciò che è solo male.
L’albero, quindi, come il punto di inizio di una linea sulla quale si è svolta e si sta svolgendo la condizione umana.
Nell’albero il poeta, o anche chi non è poeta, può ravvisare l’umano. In fondo si tratta di immaginarci come lui e stare fermi, saldati al suolo in attesa che il tempo ci trasformi, ci rinnovi, ci scompigli i pensieri e le certezze per farci diventare filosofi e incerti; rassegnati e volubili; vecchi ma pur sempre in attesa di un’altra vita, di un altro sole che arrivi allo zenit.
Non c’è albero che non emozioni: nella sua fissità esso riverbera il movimento della vita. Nella sua estensione riflette il bisogno di tornare al cielo. Nella sua ricerca d’acqua manifesta il desiderio di purezza. Nella sua posa assunta con gli anni dimostra un’infinita pazienza. Nella sua collezione di verdi esprime una incommensurabile speranza. Nella sua smania di farsi attraversare dal vento riflette l’inconsistenza dell’Io, L’insostenibile leggerezza dell’essere tanto per parafrasare il titolo del famoso libro di Milan Kundera, scrittore poeta cecoslovacco.
«Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza? (...) Una sola cosa è certa: l’opposizione pesante-leggero è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni.» (Dal libro L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, Adelphi Edizioni, Milano 2002, pp. 318, € 7,89).
Dall’ossimoro kunderiano si localizza che c’è nell’essere umano la volontà di esistere attraverso la materia che va in linea orizzontale e la volontà di trascenderla per percorrere una via verticale, che non ci faccia più soffrire le pene corporee, ma ci dia la possibilità di elevarci al di sopra delle nostre miserie.
L’albero, pur non essendo umano, riproduce tali volontà. Riproduce le due forze opposte e perpendicolari fra loro: orizzontale e verticale.
L’albero ha in sé anche la misura del tempo: il conteggio degli anni leggibili in quei cerchi concentrici all’interno del suo tronco. Una sorta di custode dei secoli e a volte anche dei millenni. In una poesia di Guido Gozzano (Agliè Canadese, Torino 1883-1916) dal titolo Speranza, si legge: «Il gigantesco rovere abbattuto / l’intero inverno giacque sulla zolla, / mostrando, in cerchi, nelle sua midolla / i centonovant’anni che ha vissuto. / Ma poi che Primavera ogni corolla / dischiuse con le mani di velluto, / dai monchi nodi qua e là rampolla / e sogna ancora d’essere fronzuto. / Rampolla e sogna – immemore di scuri – / l’eterna volta cerula e serena / e gli ospiti canori e i frutti e l’ire / aquilonari e i secoli futuri... / Non so perché mi faccia tanta pena / quel moribondo che non vuol morire!» (Da Gassman legge i Poeti Italiani dell’Ottocento e del Novecento - Antologia e CD, a pag. 74, Mondadori, Anno 2005).
Sono, queste del florilegio, poesie fissate a terra; prigioniere di ogni probabile o inaspettata stagione, che secondo una personale idea sono molto più di quattro e meno di quelle che conosciamo. Poesie di legno morbido che pur tollera il più cruento degli inverni. Poesie che contengono la linfa che scorre perennemente anche quando tutto appare fermo. Anch’io sono in queste poesie; anch’io mi sono fatta albero per un secondo, per un determinato tempo sono stata immobile, assumendo la posa attinente al mio destino, che ancora non capisco.
Nessuno può dirsi che non sia stato, almeno una volta, albero secondo natura.
Tutto nasce da un seme e la prigione o la fissità è quasi sempre una costante per tutte le creature, a meno che non si cerchi di evadere dal nulla per raggiungere il tutto che non si vede. Ho capito che ne Il teorema di Pitagora di Ernesto Ragazzoni (Orta 1870-Torino 1920) non c’è soltanto un semplice teorema dimostrato in versi, bensì la chiarezza della geometria umana e non solo. Riporto solo l’ultima parte della lirica che mi sembra si avvicini a ciò che ho voluto svelare con questa silloge:
«La vita è una prigione in che l’anima hai chiusa, / uomo, ed invano brancoli cercando alle pareti. / Sono di là da quelle i bei fonti segreti / ove tu aneli, e dove la pura gioia è fusa. / Qui, solo hai qualche gocciola di ver per le tue seti. / Il quadrato costrutto sovra l’ipotenusa / è la somma di quelli fatti sui due cateti.» (Dall’Antologia personale di Vittorio Gassman, Gassman legge i Poeti Italiani dell’Ottocento e del Novecento - Libro e CD, pag. 69, Mondadori, 2005).

Isabella Michela Affinito

  • Autore
  • A.A.V.V.
  • Titolo
  • Scuola di vita
  • Pagine
  • 128
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 15,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-62-4


Il Paese delle lacrime

Ho incontrato Don Salvatore Rinaldi nel Seminario di Posillipo nel 1976 ed abbiamo vissuto insieme per tre anni nella stessa comunità. Insieme ad altri giovani si aggiungeva al nostro cammino per la chiusura del Seminario di Benevento.
Aveva allora l’aria del filosofo che ama astrarre e si inerpica volentieri per i sentieri del pensiero. Ricordo che ci incrociavamo nel lungo corridoio del seminario di Napoli lui assorto nei suoi pensieri ed io con la corona del rosario: non voglio attribuirmi arie da mistico in erba, ci sono tanti modi di pregare, si prega anche col pensiero.
“Pensare è oltrepassare”. Dovetti “addomesticarlo”, questo lo ricordo bene, perché inizialmente la mia aria da “perfettino” non doveva risultargli immediatamente simpatica. Ci si “addomestica”, come insegna la volpe al Piccolo Principe, con piccoli passi, guardandosi prima da lontano, lasciando che il tempo abbatta i ponti levatoi che inizialmente sono alzati per paura dell’altro. Salvatore ed io, benché così diversi, ci siamo addomesticati. Ne è prova che a distanza di 36 anni da quando ci lasciammo, in uscita dal Seminario, nel giugno 1979, ancora siamo in contatto e ci guardiamo, pur da lontano, con “la coda dell’occhio” si dice a Napoli.
Due episodi mi va di raccontare di quegli anni ai suoi fans di oggi, ai suoi figli e figlie che lo festeggiano per i suoi sessanta anni. Sono entrambi dell’ultimo anno di Seminario e legati dal comune tema delle lacrime.
Agli inizi di novembre del 1973 stiamo vivendo gli Esercizi Spirituali annuali a Mugnano del Cardinale. Li guida don Ignazio Schinella, l’animatore del nostro gruppo, che farà confluire le riflessioni di quei giorni nella pubblicazione del suo primo libro (primo di una lunga serie!) dal titolo “Imparare il Cristo”. Siamo riuniti nella sala che allarga lo sguardo sui tetti di Mugnano e più lontano di Nola, sono le quattro del pomeriggio come nel Vangelo di Giovanni in cui si racconta la chiamata dei primi discepoli. Siamo entrati in silenzio e vi restiamo in attesa del predicatore con quel senso di mistero che pervade la mente e il cuore e inclina ogni cellula, ogni energia a Dio. Alle sedici in punto arriva Don Ignazio con i suoi fogli scritti in maniera fitta, si siede e comincia la meditazione. Salvatore non c’è. Forse è rimasto impigliato nel sonno del pomeriggio o in un una delle sue (le chiamavamo così!) “masturbazioni mentali”? Passa il tempo e ciascuno segue o insegue il predicatore, le parole che pronuncia, le parole udite che ne richiamano altre a frotte come le rondini. All’improvviso si apre la porta della sala. Non adagio, ma con violenza come il vento di Pentecoste. Entra Salvatore chiaramente sconvolto e non si cura del predicatore, né del nostro silenzio, si precipita al suo posto come una furia non risparmiando il rumore della chiusura della porta, dei passi, della sedia. Si china sul tavolo e scoppia in un pianto a dirotto. Noi ne siamo presi, imbarazzati, preoccupati, ma lo sguardo di Don Ignazio resta sui fogli, la voce non gli si incrina, continua imperterrito come se Salvatore non fosse arrivato in quello stato e non stesse piangendo. Per noi è un segnale di normalità, un messaggio non verbale a mantenere la calma, a continuare la meditazione, a fidarci del maestro che sa di ciascuno di noi quello che è bene ignorare degli altri. Salvatore rimane a lungo con le mani sul volto come l’Innominato al cospetto del Cardinal Federigo. Di quella meditazione non ricordo il tema, i capoversi, la struttura, ma quel pianto, se appena porgo l’orecchio, lo sento chiaro nonostante i trentasette anni di distanza. Non abbiamo mai saputo da dove nascesse, quale dolore di vita o di morte, lo avesse provocato, quale segnale inequivocabile di nihil obstat Salvatore comunicava all’animatore come un segnale convenuto. Erano per noi mesi decisivi, carichi di futuro, ci stavamo giocando la vita e la paura ci attendeva al varco. Salvatore continuò a singhiozzare per un po’, poi pian piano, come fanno i bambini, diminuì di volume il pianto fino a farsi respiro. C’era in quel tramonto di novembre l’aria tersa che segue a un improvviso acquazzone. Forse voler bene è permettere a un altro di piangere accogliendo in silenzio le sue lacrime senza chiedere troppe spiegazioni. Come la scia di una nave il pianto si chiuse e tutto tornò nella norma. Intanto era scesa la sera e le mille luci della piana si erano accese come lampare di pescatori in un mare di buio.
L’altro ricordo è indicato più precisamente, porta la data del 12 maggio 1979, giorno dell’Ordinazione Presbiterale di Don Salvatore Rinaldi... Siamo nella Cattedrale di Isernia a guardare il secondo fratello che tagliava il traguardo (il primo era stato Mimmo D’Alterio, ad Aversa, il 7 aprile). Noi compagni di comunità siamo assiepati sui gradini dell’altare maggiore, molti già diaconi con la stola trasversa a guardare un rito che già conosciamo a memoria e che desideriamo e temiamo che avvenga anche per noi. Si stanno concludendo i riti esplicativi con l’unzione delle mani e la consegna dei vasi sacri per il sacrificio eucaristico. L’organo a canne parte con un brano che fa piovere note dall’alto e riempie la cattedrale di suoni. Ho memoria che fosse in tonalità minore. Salvatore, appena rivestito della casula, riceve l’abbraccio di pace del vescovo e poi passa ai presbiteri. Arrivato davanti a noi alza lo sguardo e scoppia in un pianto che accompagna i nostri abbracci e ci riga il volto di lacrime. È certo un pianto liberatorio, di una tensione che è salita a mille ed ora tracima senza più margini. Senza più argini. Eppure quel pianto unito alla musica dell’organo lasciano in me un acre sapore di morte. Anche oggi, quando ci ripenso, ho la stessa netta sensazione d’allora, la stessa tristezza di una nave che rompe gli ormeggi e si allontana dal porto a sirene spiegate. Il motivo del primo pianto del mio amico filosofo mi è rimasto nascosto, ma il secondo mi veniva incontro chiaro nella sua bellezza drammatica. Riguardava te, Salvatore, ma anche noi che, dopo qualche mese, saremmo passati sopra le braci ardenti dell’Ordinazione. Avevamo poco più di vent’anni ed eravamo già vecchi (Presbitero vuol dire “anziano”), finiva quella sera la tua e la nostra giovinezza, c’era aria di partenze senza ritorno, eravamo rami fioriti recisi e gettati ad ardere nel fuoco di un Sacramento che, rendendoci Gesù per gli altri, ci chiudeva ad abbracci che non avremmo mai conosciuto. Ci abbracciammo come commilitoni in partenza per una missione ad alto rischio. Le tue lacrime mostravano la parte debole di te. Non si abbracciarono il filosofo in erba ed il piccolo mistico, ma due uomini naufraghi sull’orlo di un mistero troppo grande per le loro fragili mani.
Anche i sessant’anni per te, come per me, Salvatore, sono un avviso di garanzia, un rintocco di campane che annuncia la sera che scende e abbuia le cose, le case, le strade, poi i volti. È stato bello essere uomini! È stato bello essere preti! Ora è il tempo in cui guardare da lontano la giovinezza quando si andava dove si voleva, ora dobbiamo lasciarci cingere e portare dove non vogliamo come dice Gesù a Simone nel capitolo 21° del Vangelo di Giovanni. Ti auguro questa docilità e duttilità. Remissività. Forse bisognerebbe piangere anche oggi. È più facile farlo. I vecchi come noi sono facili al pianto.

Arturo Aiello