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  • Autore
  • Isabella Michela Affinito
  • Titolo
  • Viaggio interiore
  • Pagine
  • 112
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 12,00
  • Isbn
  • 978-88-97930-39-6


Isabella Michela Affinito è una donna che segnala dimestichezza coi segni zodiacali e crede (ci credeva anche Dante) nell’influenza degli astri sulle umane inclinazioni. Per quel che riguarda lei, ritiene di subire – ma in positivo – l’ascendenza della luna che caratterialmente la connota. E intanto mostra di vivere uno stato permanente di tensioni interiori.
Avendo contattato nel corso degli studi l’Arte della Grecia antica, ne ha metabolizzato messaggi e forme, che per un certo tratto della sua esistenza, coniugandoli con approcci di artisti più vicini ai tempi nostri (vedi, per dirne uno, Vincent Van Gogh), ha scelto di affidare – nella rappresentazione – alla Pittura. Ma siccome quello della Pittura, pur essendo nobilissimo, è messaggio muto, nel senso che nonostante l’uso, il migliore possibile, dei suoi elementi costitutivi: colori, giochi di luci e di ombre, senso prospettico, profondità etc., non può esplicitare percorsi ragionati della memoria, né dubbi, né ripensamenti, né confessioni, né prospettive, l’autrice ha sentito il bisogno di supportarlo con la parola scritta. E non poteva – la parola – non comprendere anche il verso. Di qui nascono le numerose raccolte venute alla luce nel corso degli anni testimoniando una fecondità creativa che ha pochi eguali nella “nebulosa” dei tantissimi odierni corteggiatori delle “vergini muse”.
Dell’ultima (per ora) silloge della Affinito, già il titolo – Viaggio interiore – fa riferimento a un itinerario dell’Anima tutt’ora in corso, consolidando così l’idea che è la vita, di per sé, un viaggio nel gran mare del mistero (Gran mistero è la vita e nol conosce che l’ora estrema aveva fatto dire ad Adelchi tal Manzoni poco men che un paio di secoli or sono). Naturalmente quando il verso si costituisce di tal genere di problematiche, distanti anni luce da quelle della poesia – per così dire – civile (o sociale, se si preferisce), non può che esibire sostanza e contorni sfumati, entrambi rimessi a un lessico che predilige l’area semantica dell’astratto, dell’aeriforme, dell’enigmatico (non a caso una lirica reca a titolo Sibilla interiore) e a strutturazioni sintagmatiche parimenti riluttanti alla concretezza del reale oggettivo.
Si avverte nel corso della lettura l’incontenibile urgenza dell’Autrice di partecipare agli altri le profondità impervie della sua complessa psiche. Il che senza mezzi termini dichiara lei stessa nel preambolo in prosa che precede le liriche, scritto non per tessere l’elogio del diario (che da qualche tempo quotidianamente redige), e spiegarne l’utilità, ma anche con evidente intento esplicativo delle motivazioni esistenziali a monte della presente sua produzione in versi, già intuibile peraltro nella “Prefazione dell’Autrice”. Il tutto ribadito poi in chiusura in una intervista e in una “autopresentazione”.
Ci appare – dunque – Isabella Michela Affinito una intellettuale che dopo aver consumato in sé una serie di interessanti esperienze di vita, di indagini speculative, dopo essersi interrogata sui temi che ab aeterno si propongono in quegli spiriti ipersensibili sintonizzati su lunghezze d’onda non captate dalla massa, avvertono prepotente il bisogno di dire, ben sapendo che quanto custodito all’interno delle proprie coscienze, trasmesso agli altri può divenire veicolo di maturazione umana e di crescita culturale.
La veste formale delle liriche prescinde da moduli della tradizione per procedere alla libera, inseguendo un proprio pentagramma, che di volta in volta si adegua al mutar dello status interiore e alla materia trattata.

Aldo Cervo

  • Titolo
  • Frammenti di speranza
  • Autrici
  • Carmen Buono, Chiara Franchitti
  • Collana
  • Il nastro e la penna di una voce
  • Pagine
  • 112
  • Prezzo
  • € 12,00

Per comprendere il titolo – Il nastro e la penna di una voce – della collana che questo libro apre, bisogne-rebbe conoscere le due giovani che la curano, Carmen Buono e Chiara Franchitti, il “nastro” appunto e la “penna” di una “voce”, la voce di don Salvatore Rinaldi, portavoce di Voce piú alta. Tra i molti talenti di don Salvatore, personaggio ben noto nella sua città e nella sua provincia, c’è quello di avere la capacità di esprimere concetti elevati par-lando a braccio. Capacità di parlare – si diceva una volta – come un libro stampato. Ogni domenica don Salvatore celebra piú di una Messa e tiene piú di un’omelia, sempre a braccio, e tutte sono originali, tutte sono autentiche, tutte di grande interesse. E adatta, don Salvatore, il suo modo di parlare al pub-blico dei fedeli che ha davanti, con una lingua eleva-ta o addirittura aulica oppure con un linguaggio basso, magari inframmettendo parole o espressioni dialettali. Non si ripete, non è mai monotono, mai banale.
Partecipando alla Messa, Carmen, il “nastro”, re-gistra, Chiara, la “penna”, trascrive, le omelie di don Salvatore. Un lavoro prezioso, perché salvano dall’o-blio e consegnano alla carta stampata testi di grande interesse, che diversamente andrebbero perduti. E sono infatti proprio di grande interesse – e il lettore se ne renderà conto leggendo il libro – le omelie di don Salvatore; lo sono sia per la sua notevole prepa-razione culturale e teologica (ricordiamo che è stato per anni il chierichetto di Paolo VI), sia per le sue in-nate doti di intelligenza e anche di creatività.
È ovvio che quello del “nastro” e della “penna” è un lavoro non sempre facile, perché l’efficacia di un testo orale è legato anche all’espressività, al tono della voce, al ritmo, alla mimica ed ad altri elementi non riproducibili con la scrittura, e poi il pubblico della carta stampata è un pubblico diverso da quello che partecipa una mattina a una funzione religiosa. E quindi nel riportare per iscritto un testo che era orale e fatto a braccio c’è bisogno di un lavoro di editing e talvolta di adattamento e comunque senza mai inter-venire nei concetti e senza alterare né il contenuto, né lo spirito del testo. Un lavoro che le due giovani hanno fatto in modo eccellente pur senza mai sosti-tuirsi o sovrapporsi a don Salvatore. Di don Salvato-re infatti sono tutti i testi, anche se talvolta, leggendo delle bellissime espressioni, viene da domandarsi «possibile che abbia espresso a braccio un concetto cosí elevato e in modo cosí appropriato, con parole tanto belle?». Sí, don Salvatore ha queste capacità: sono delle doti innate, sia pure affinate da cultura e da studio.
Probabilmente c’è da rammaricarsi solo per il fatto che, per ovvi motivi, il “nastro” e la “penna” non riescono a partecipare a tutte le Messe e a registrare tutte le omelie. E d’altra parte don Salvatore non è tipo da considerare preziose le proprie parole, che in realtà quasi sempre lo sono, e quindi non si scrive mai in prima persona i testi.
Questo volume intende aprire una serie di pubblicazioni, nella collana che porta appunto il nome di Il nastro e la penna di una voce, ognuna delle quali avrà un proprio titolo e sarà legata a un periodo dell’anno liturgico. Si parte con Il tempo di Pasqua (2013-2014), seguiranno altri raggruppamenti di omelie che potranno essere sul Natale, sulla Quaresima, su Pasqua 2015, e cosí via.
Questo è quanto si ripromettono Carmen Buono e Chiara Franchitti, perché, come dicevano i nostri avi, verba volant ma scripta manent.

Amerigo Iannacone

  • Titolo
  • Frequentazioni letterarie 2
  • Autore
  • Aldo Cervo
  • Collana
  • Il Cormorano
  • Pagine
  • 424
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 22,00

L’Olivo di Venafro

Quando gli amici Ida e Tobia, infaticabili propulsori di cultura di questo sempre piú fervoroso Molise, mi comunicarono di avermi motu proprio inserito tra i relatori nel convegno sull’Olivo venafrano, ne fui ben lieto per la portata – per cosí dire – estimativa che quell’inserimento recava implicita, e anche per il fatto che l’olivo ha svolto un ruolo importante, forse non meno degli stessi studi, nella formazione del mio carattere, del mio corredo creativo, della mia sensibilità.
Avevo sei anni quando in un locale adiacente alla mia casa, fatto costruire da mia madre cogli utili di modestissime proprietà terriere e tirando, al mercato del mercoledí, sui costi dell’ortofrutta coi fruttivendoli di Limatola e di Alife, fu istallato un frantoio. In quel frantoio (che dalla lettura del libro di Ferdinando Alterio ho finalmente imparato in che differisce dal trappeto) fui per poco meno di mezzo secolo a contatto con il fascinoso ultimo scampolo di civiltà contadina, che di lí a poco sarebbe stata travolta dall’irruzione, anche nelle nostre campagne, della modernità.
Di quella civiltà contadina, non tanto l’empirica saggezza, ma la proverbiale arguzia, l’impertinente ma schietta mordacità lessicale divennero per sempre parte integrante dalla mia formazione umana e culturale.
Venendo al tema, credo che con L’Olivo di Venafro la Volturnia Edizioni segni un’altra delle prestigiose tappe, che da alcuni anni va conseguendo nel campo dell’editoria.
Il volume, che è presentato da Emilio Pesino, presidente del Parco Regionale Storico Agricolo dell’Olivo di Venafro, e reca la prefazione di Franco Valente, tra i piú attrezzati e combattivi studiosi del Territorio, è introdotto dallo stesso autore con una pagina sulla “nobiltà” dell’albero dell’ulivo, sacro alla dea Atena, ma assunto dalla nostra religione a simbolo di pace, in gara – aggiungo – con l’alloro, la fronda peneia, alla cui prosopopea vanagloriosa contrappone il candore di una disarmante umiltà.
Dopo un excursus storico-letterario sull’Olivo nei Paesi del Mediterraneo, il volume passa a cogliere le svariate correlazioni che l’Olivo ha avuto con la mitologia, per andarlo poi a ritrovare nei Poemi omerici e, a seguire, nella produzione letteraria latina.
Trattato poi il tema delle proprietà cosmetiche e curative dell’un-zione con l’olio d’oliva, il testo procede con la descrizione dei vari tipi di olio in Roma antica; poi punta – ma per solo un paio di capitoli – l’obiettivo su Venafro, con l’indagine su quelle che furono un tempo le qualità dell’olio venafrano e il reperimento di citazioni dell’olio medesimo in scrittori latini.
Qui, non ancora soddisfatto dell’ampio percorso compiuto, ed anche per un atto di deferenza verso il Signore Iddio, l’autore, col puntiglio del ricercatore che lo contraddistingue, se ne va a indagare l’Olivo, e l’olio nelle connessioni metaforiche e allegoriche con le Sacre Scritture. Intendo Vecchio e Nuovo Testamento.
Viene poi, nel testo, la volta dei sistemi di lavorazione e di spremitura delle olive, a partire da trascorse epoche, e si descrivono i vari tipi di macine e di presse, iniziando da quelle con vite in legno. Seguono pagine dedicate al paesaggio olivicolo di Venafro nelle descrizioni di viaggiatori d’ogni tempo, dove si riferisce anche della leggenda di San Francesco d’Assisi che, di passaggio per Venafro in una notte di neve, si sarebbe riparato sotto a un ulivo miracolosamente risparmiato dalla bufera.
A seguire, dopo un cenno a Cultori e Studiosi dell’olio, si parla dell’olivo cosiddetto “gaetano”, che fiorirebbe e darebbe frutto due volte l’anno, presente nel non lontano agro di Ciorlano. E si parla anche del discusso “ulivo maschio”, sulla cui esistenza non s’è tutti d’accordo.
Il lavoro dell’Alterio si avvia infine a conclusione con pagine di confronto tra olivo di Venafro e olivo della Provenza, e pagine rievocative di Giovanni Presta, medico pugliese del Salento, vissuto tra il 1720 e il 1797, studioso di olivicoltura, e di Niccola Pilla, che per primo stilò una classifica delle varietà delle olive di Venafro.
Ultimo capitolo è quello riservato agli scrittori locali che si occu-parono dell’olivo e dell’olio, dove s’impone per potenza suggestiva la visione descritta da Benedetto e Giovanni Antonio Monachetti di una Venafro simile a un uccello (io avrei detto aquila) di cui gli oliveti che risalgono le pendici dell’incombente montagna sono le aperte ali.
Qui la prosa, già ben supportata finora da immagini, cede il passo alla documentazione fotografica. Si inizia con ulivi ripresi nella vetustà sacrale dei poderosi tronchi, taluni dei quali rassomigliabili – nelle contorte, sofferenti innervature – al gruppo del Laocoonte, o piú semplicemente al busto ossuto e muscoloso del vecchio contadino forgiato dalla fatica.

Favole di contorsioni,
di dolore silente, di atavica nobiltà,
tronchi di nodi secolari
tra le pietre antiche del Sannio
...

ha scritto, nel suo tipico stile tirato e sofferto, Ida Di Ianni sulla prima delle arboree rappresentazioni.
Seguono poi immagini di centri abitati sommersi nell’abbraccio verde argenteo di rigogliosi uliveti; poi ancora di utensili per la raccolta, la defoliazione, la macinazione e la spremitura delle olive, e la conservazione dell’olio.
Infine alcune misure dell’olio.
Sulla macinazione e la spremitura delle olive, e sulle misure adoperate per il computo sia della quantità delle olive da molire che dell’olio ricavato in quella che fu nelle campagne del Sud l’ultima stagione preindustriale: dico gli anni ’50, voglio intrattenermi un po’. Ma non sforerò il tetto dei cinque o sei minuti.
Io che sono di Caiazzo, paese legato a Venafro e al Molise in generale dal cordone ombelicale del Volturno, provengo da una zona dove l’olio d’oliva fu voce importante dell’economia, prima che la proterva ignoranza di Bruxelles intervenisse a imporre paletti e divieti, e ci venisse a spiegare che le acque reflue dei frantoi inquinavano i torrenti e il letame bovino andava non piú ammucchiato all’aperto ma serbato possibilmente in salotto prima di essere sparso e di subito ricoperto dall’aratro nei terreni da seminare. In quell’epoca di oscurantismo preindustriale, che non conobbe il progresso dei pesticidi e dei fertilizzanti chimici, nel paese mio le mole dei frantoi, a una o a due ruote in pietra viva, erano trainate da muli e cavalli bendati, e la pasta delle olive veniva poi sparsa in tante store circolari, che poste l’una sull’altra formavano l’insaccatura, sulla quale era fatto scendere con sapiente lentezza il piatto della pressa, spinto in basso da una poderosa vite di acciaio. Dopo la spremitura a freddo, si passava alla “caura”.
Le ulive erano misurate in ceste (ma le ceste non erano tutte eguali) o in coppe, un arnese di legno simile a un settore di cono, di cui erano provvisti i frantoi. L’olio invece aveva piú di una misura: si partiva proprio dalla “misura”, un contenitore da sei coppe, pari a quattro litri, per scendere poi alla “coppa”, pari a due terzi di litro, alla mezza coppa, pari a un terzo di litro, e al misurino (u’ mmusurielle), pari a un nono di litro. Il rapporto tra quantità di olive molite e olio ricavato dava luogo alla resa, e chi realizzava una “misura” (quattro litri) a cesta, si diceva che aveva fatto una buona resa.
Poi c’era il decalitro, che a Caiazzo chiamavamo “’u monaco”, perché raccoglieva, a mo’ di questuante, l’olio di paga trattenuto dal frantoio, pari a sei coppe per ogni trentasei che andavano al proprietario delle olive.
Oggi tutto questo complesso meccanismo di misurazioni, giustificato all’epoca dell’istituto della mezzadria, che imponeva millimetriche operazioni di spartenze tra padrone e mezzadro, è stato soppiantato dalla bascula elettronica, che pesa, e in tempo reale ti dà peso e scontrino fiscale con l’importo da pagare in euro.
Ma le moliture non possono piú rispettare le singole partite, sic-ché spesso ti porti a casa olio di olive non tue, e col tuo che finisce altrove. Vado a chiudere.
Il lavoro di Ferdinando Alterio, sintetizzare il quale è come voler fare il riassunto, in un quarto d’ora, della Divina Commedia, è dunque un percorso tematico che si origina da quelle che nelle nostre scuole si chiamano (o si chiamavano?) Unità didattiche. E l’Unità didattica è in questo caso l’Olivo.
Un’opera poderosa, quella dell’Alterio, la cui sterminata biblio-grafia fa fede del rigore scientifico e della cultura a largo spettro dell’autore, che batte tutti i sentieri culturali possibili e immaginabili: intendo dire la letteratura, la mitologia, la filosofia, le religioni, le scienze, la storia, visti i nomi che vi ricorrono, da Omero a d’An-nunzio, da Pallade a Pasifae, da Platone a Nietzsche, da Osiride a Mosè, da Plinio il Vecchio a Columella, dal cartaginese Annibale a Ferdinando IV di Borbone. Un’opera di profonda dottrina, da raccomandare alla lettura e alla fruizione del pubblico, a partire dalle scuole, dove potrebbe essere occasione magnifica di uno studio interdisciplinare avente a obiettivo la presa di coscienza delle peculiarità culturali e produttive del territorio venafrano, e possiamo ben dire dell’in-tero nostro Sud.

27 gennaio 2012, Venafro, Castello Pandone. Correlatori: Emilio Pesino, presidente Parco regionale dell’Olivo e Franco Valente, Conservatore Beni Culturali del Comune di Venafro.

  • Titolo
  • Racconti di paese
  • Autore
  • Lino Di Stefano
  • Collana
  • Perseidi
  • Pagine
  • 88
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 10,00


Premessa dell’autore

Dopo i tre libri di racconti – Racconti d’una volta (1980), Racconti molisani (1987) e Storie Kalenesi (2001) – ecco un’altra raccolta piú breve volutamente intitolata Racconti di paese perché le storie si svolgono quasi tutte in un centro abitato del Centro-sud o s’ispirano a momenti che hanno come motivi d’interesse il medesimo luogo.
E si tratta, nella fattispecie, di personaggi e di ambienti profondamente cambiati o scomparsi, travolti, come sono stati, dall’inarrestabile dinamismo della società contemporanea che tutto travolge – storia, consuetudini, tradizioni, dialetti, usi e costumi – verso l’ignoto.
Chi manda piú, ad esempio, un pacco dall’America ai propri congiunti?
Eppure, nell’immediato dopoguerra questo pacco – che quasi sempre arrivava a destinazione assai alleggerito delle cose migliori – rappresentò per la gente piú indigente un aiuto per sopravvivere, considerate le condizioni economiche della stragrande maggioranza delle persone dei paesi, grandi e piccoli.
Oppure, chi si reca, oggi, in America, settentrionale o meridionale, in cerca di fortuna, o in altri paesi europei ed extra-europei? Ancora, dove trovare, al giorno d’oggi, quelle persone che diventavano dei veri e propri personaggi per le spiccate attitudini umane, professionali, umoristiche ed anche comiche rappresentanti la ricchezza dei borghi nel cui ambito si esauriva l’intera loro umana esistenza?
Esistenza fatta anche di sapienza popolare visto l’inesauribile bagaglio della loro semplice e modesta cultura costituita da proverbi, soprattutto, da massime, da modi di dire, da motti e da detti arguti che tanta ammirazione suscitavano negli amici, nei conoscenti e nei parenti. Tutto ciò, è ormai scomparso e solo in qualche piccolo insediamento umano è possibile rinvenire sporadici personaggi di tale fatta.
Rammentare tali situazioni non sembra inopportuno al cospetto di un mondo quasi interamente proiettato verso un futuro carico di incognite e denso di inquietudini.

Frosinone, 2015

  • Titolo
  • Testimonianze 2007-2014
  • Autore
  • Amerigo Iannacone
  • Collana
  • Il Cormorano
  • Pagine
  • 376
  • Anno
  • 2015
  • Prezzo
  • € 22,00

Un libro di libri per i libri a venire

È un libro messo insieme parlando di libri, questo ulteriore volume della monumentale raccolta di letture che Amerigo Iannacone va componendo ormai da decenni – e sistemando da almeno dieci anni, da quando cioè decise che il cassetto era colmo (diciamo cosí, poiché bisognerebbe precisare: era intasato il disco del suo elaboratore di dati). Cosí cominciò a pubblicare Testimonianze, Nuove testimo-nianze, eccetera, per mettere ordine in quel cassetto – anche per sé, ma per offrire agli altri la possibilità di rivivere insieme a lui tutte le occasioni di incontro vissute con gli autori dei libri presentati qui e là, come un servizio itinerante reso alla letteratura, alla parola stampata, al libro.
Ecco dunque Testimonianze 2007-2014, a tracciare un percorso cronologico e geografico che testimonia appunto la sua continua di-sponibilità, la sua competenza, la sua versatilità; e che sarebbe anche utile sistemare per temi e addirittura per autori... Si avrebbe in tal modo una piccola storia della letteratura italiana contemporanea, minore forse, periferica, può darsi, ma non per questo meno importante. In questo libro sono raccolti interventi critici dedicati a una cinquantina di scrittori d’ogni genere. Ad alcuni di essi, infatti, Amerigo è particolarmente affezionato, e capita quindi che si occupi di loro piú volte. Per tutti, però, la sua parola è spesa con entusiasmo e senso critico insieme, il che significa che il risultato è un’aperta dichiarazione di stima non priva – se occorre – di un rilievo estetico, di qualche appunto metodologico.
Si potrebbe in definitiva considerare queste ultime “testimonianze” di Iannacone come un libro di libri per i libri a venire: nelle sue pagine, infatti, e cioè nell’augurio che ha sempre rivolto agli autori presentati, c’è sempre l’invito a continuare. Il nostro infaticabile scrittore, fedele quasi ad una missione di promulgatore, promotore, mentore, mallevadore, fedele insomma alla sua natura di uomo buono, mai si è negato - ha detto sí ogni volta che qualcuno gli ha chiesto aiuto, per una presentazione, una prefazione, una recensione, una relazione...
Ed è per questa sua natura generosa, per la sua naturale disposizione a parlare di altri autori, convinto com’è che si debba crescere insieme, e che si possa aiutare a crescere chi ne ha bisogno, è per la sua bontà che si è ritrovato a raccogliere ormai migliaia di pagine scritte, a custodire in esse il lavoro di mezza vita. D’altra parte, parlare di altri è come parlare di sé, poiché nelle parole altrui, nelle espressioni letterarie, nelle creazioni di ognuno si scopre un po’ di sé: lo si poteva dire cosí, o si doveva fare cosí – Iannacone non si fa pregare per dare consigli; anche se, forse per il rispetto dovuto al pubblico che ascolta piú ancora che all’autore presentato, preferisce far capire senza cattiveria, correggere con bonomia, non con la matita rossa e blu del professore.
In queste Testimonianze 2007-2014, nelle trecento e passa pagine di questo libro, ci sono anche nomi noti, scrittori che hanno pubblicato diversi libri, anche importanti e significativi; ma diversi sono gli esordienti, i giovani, gli autori alle prime armi. Per tutti, e in particolare per questi ultimi, Amerigo Iannacone è un veicolo di sicurezza, uno che si mette a disposizione con la propria esperienza fatta sul campo, anche per la sua intensa attività di editore. Per ciascuno che gli affidi un libro da presentare, diventa quindi un locomotore, un rimorchiatore, insomma (direbbe la buonanima di mio padre, che gli voleva bene, ricambiato) si fa “ciuccio di fatica” e si mette a lavorare perché il libro in questione abbia la giusta e necessaria visibilità.
Che altro? (cosí dice una famosa pubblicità affidata ad un attore famoso) Ma che altro si può chiedere all’operatore culturale, all’amico della parola stampata, all’editore, al direttore del “Foglio volante”, al poeta, al critico, all’appassionato di lingua italiana... Che altro si può pretendere dall’opera di devozione alla cultura che il caro Amerigo non abbia già fatto, e testimoniato, come appunto testimoniano le trecento e passa pagine di questo libro... penultimo certo, poiché è ancor piú certo che non finisce qui... Aspettiamoci un altro libro tra non molto.
Appunto, non finisce il suo lavoro, non si sottrae al suo impegno, anche se non glielo ha ordinato il medico (o forse sí... il dottor Cicerone: nulla dies sine linea; o il dottor Svevo: ogni giorno una pagina affinché la vita – quando è scritta – sia veramente vissuta). Sulla scrivania di Iannacone a Ceppagna, nella memoria del suo ordinatore di dati, continueranno ad accumularsi libri e pagine scritte – e in lui ancora si affastelleranno incontri con le anime amiche e perfino con quelle sconosciute che proprio attraverso le loro pagine diventeranno amiche. E via cosí per tanto tempo ancora!
Hoc est in votis, che altro?
Auguri allora per altri libri di testimonianze – è una garanzia anche per tutti coloro che, scrivendo, sapranno che almeno in lui, per tutti loro, a prescindere da valori e valenze espressive, da generi letterari e ideologie, non si negheranno un occhio comprensivo e una parola di conforto. Unico prezzo: la serietà e l’onestà del lavoro. Questo infine va detto, per onestà nei suoi confronti e in omaggio alla sua indefessa serietà: per entrare nelle grazie di Amerigo Iannacone (che che sono sconfinate, ma non infinite), bisogna comportarsi onestamente, bisogna credere in quel che si fa – come lui fa sempre.

Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • Diario itinerante
  • Autore
  • Maurizio Zambardi
  • Collana
  • Colibrì
  • Pagine
  • 72
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 10,00

Nel 2010, sorprendendo tutti gli amici, che lo conoscevano sí come persona colta e sensibile, ma lo sapevano eminentemente storico e tecnico e non certo poeta, Maurizio Zambardi diede alle stampe una raccolta di poesie. E comunque non volle chiamarle “poesie”, ma intitolò il libro Pensieri itineranti. Una raccolta di brevi componimenti, scritti prevalentemente in occasioni di viaggi. Perché – chi lo conosce lo sa – Maurizio ama molto viaggiare, ma è un viaggiatore che in ogni posto dove si viene a trovare non si limita a una visita superficiale come fa la maggior parte dei viaggiatori-turisti, ma entra nel merito, si innamora dei luoghi, li visita con la sua competenza di architetto e di archeologo, ma anche con la sua sensibilità di poeta, cosí come lo abbiamo scoperto dopo la pubblicazione dei suoi Pensieri. E se si trova, per esempio, in Belgio, non va a visitare solo Bruxelles, bensí anche la tragica Marcinelle.
Ora, a cinque anni dall’uscita di quella prima plaquette, si ripresenta al pubblico dei lettori di poesia – pubblico forse ristretto, ma raffinato – con questa seconda raccolta, dal titolo abbastanza simile alla prima, perché abbastanza simile è il libro, Diario itinerante. Potremmo dire che questo nuovo libro costituisce un po’ la continuazione del primo. Sono sempre pensieri, pensieri poetici in libertà, annotazioni, a volte confessioni, a volte persino sfoghi.
I testi sono sempre in versi liberi, talvolta anche in forma di prose poetiche, ma c’è sempre una sorta di afflato poetico.
Maurizio, che continua a schermirsi, a dire che non si sente poeta, e che non ha voluto che ci fosse una presentazione pubblica del suo primo libro, nutre in realtà un grande rispetto per la poesia, che ama a dispetto della sua formazione tecnica piú che letteraria. Ma, si sa, la storia della poesia – del Novecento soprattutto – è piena di tecnici e di poeti che vengono dagli ambienti piú disparati. A cominciare dal ragioniere Montale, dall’ingegnere Sinisgalli, dal libraio Saba, dal geometra Quasimodo, dal commesso di libreria Penna, e cosí via.
Leggendo questo libro, si ha l’impressione che l’autore quasi voglia evitare di esporsi, che non voglia farsi considerare poeta, e alterna a testi lirici, testi che quasi sembrano davvero appunti presi sulle pagine di un diario o descrizioni piuttosto tecniche. Cosí troviamo versi come questi: «Al profumo di una precoce primavera / sono sbocciate le tue violette / mentre la mimosa, / che tanto amavi / e che volesti far ripiantare, / esplode di giallo.», oppure: «Sei circondato / dai tuoi fedeli compagni: / il vecchio generoso pero / e la radiosa ginestra / che sbocciò per la prima volta / l’estate che mamma ci lasciò.» o anche: «Acrobatiche danze / di silenziosi balestrucci / che rasentano il suolo / al ritmo ondoso del vento». E troviamo anche testi come questi: «Domani visita e accoglienza / alla scuola che ci ospita. / Poi visita di varie località», «Giants’ Coseway / grattacieli di pietre / di una antica città / che si affaccia sul mare.», «Siamo ospiti in una casetta di mattoncini rossi in un piccolo villaggio lungo le sponde di un lago», «Visita del Villaggio di Aarhus, in pieno medioevo», quasi che Maurizio cerchi una giustificazione nei confronti di suoi lettori adusi a leggere di lui testi di natura diversa dalla poesia a volere con queste semplici annotazioni allontanare da sé il sospetto di farsi chiamare poeta o comunque giustificarsi verso coloro che non sono lettori di poesia.
Diario sí, ma anche la parola “diario” vuole in qualche modo sminuire il valore della poesia o almeno evitare di ostentarla.
A nomi di città piú o meno esotiche, piú o meno lontane (Tournai, Bruges, Rodi, Faliraki, Lindos, Amsterdam, Endhoven, Silkeboorg, Amburgo, Apokkias, New York, Bratislava, Stoccolma, Heraclion, Chania) si alternano i familiari, amati nomi dei centri della vita quotidiana (San Pietro Infine, Venafro, Sambúcaro, Cassino, Isernia), cui Maurizio è tenacemente legato. E proprio a questi luoghi, alla gente di questi luoghi sono dedicate le parole piú delicate e anche commosse: «Mi aggrappo alla vita come il naufrago ad uno scoglio nel mare in tempesta» (“In morte di Giustino”); «Un mulinello di foglie secche / danza un valzer nella strada / deserta e assolata / al ritmo di un barattolo vuoto / che rotola giú / contando i gradini della piazza.»
Particolarmente significativi nella poesia di Maurizio sono gli affetti familiari. Troviamo testi dedicati ai figli Elvira, Stefano e Laura e poi il ricordo commosso di Nonna Nannina e soprattutto, ricorrente, insistente, con parole intrise di un malinconico ricordo, il pensiero della madre perduta: «Dove sei, madre? / Nel tuo volo / è rimasta impigliata / la mia spensieratezza.» E non poteva mancare la moglie Luciana, «compagna / del viaggio piú importante», cui è dedicato il libro.

Dalla prefazione di Amerigo Iannacone

  • Autore
  • Antonella Sozio
  • Titolo
  • Il sole e l'azzurro
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 88
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00


Il tuo visino dissipa ogni nebbia...

SI POTREBBE assumere questo dolcissimo verso come esergo, e farne insieme la chiave d’ingresso nel libro e nell’animo dell’autrice. Antonella Sozio è felicemente nonna e scrive per il nipotino Lorenzo poesie d’amore senza ritegno, senza paura di esporre i sentimenti - vive nella sua poesia una storia intensa (ancor più intensa perché il piccolo Lorenzo vive dall’altra parte dell’Oceano e ancora più lontano), una storia fatta di momenti assaporati nel farsi parola e condivisi pertanto per fare innamorare anche il lettore dell’oggetto del suo amore.
È un’opera matura, di forti suggestioni, Il sole e l’azzurro, ed è insieme un regalo inusuale, da nonna a nipote, affidato alla carta stampata perché vuole rimanere come testimonianza non occasionale. La poetessa molisana – che aveva esordito anni fa quasi in sordina ed era apparsa poi solo in riviste o in pubblicazioni collettive – ha deciso, con Il sole e l’azzurro, di riproporsi ad un pubblico più vasto nelle vesti che più riconosce sue.
Ormai sicura delle sue capacità espressive, Antonella Sozio costruisce e presenta un libro che ha una propria completezza, anche se raccoglie i testi senza un ordine apparente: il filo conduttore è il desiderio di comunicare a Lorenzo quanto profondo sia il potere della sua presenza nel mondo – per ora quello degli affetti familiari, augurandogli certo di essere presenza viva nel mondo che lo accoglierà tra non molto, e addirittura (in un apotropaico rovesciamento di ruolo) lo farà artefice di una nuova dimensione esistenziale per gli stessi autori della sua esistenza:

sarò messe
solo se tu sarai seme.

E si può chiudere questa nota di pre-sentazione con un’altra citazione esemplare, che è un’altra ancora di salvezza, e una subliminale dichiarazione d’amore (e ce ne sono diverse nel piccolo libro che Jason Forbus ha tradotto con affetto paterno oltre che con la sensibilità poetica nota a chi conosce la sua poesia):

mia luce sempre
in fondo al pozzo dei giorni.

Giuseppe Napolitano

  • Titolo
  • La stella, la croce, la luna
  • Autore
  • Lucia Barbagallo
  • Collana
  • Perseidi
  • Anno
  • 2014
  • Pagine
  • 208
  • Prezzo
  • € 15,00

Presentazione

DA UN TACCUINO di appunti, presi durante un viaggio, dimenticati in un cassetto e poi ritrovati, nasce un romanzo; certamente legato al desiderio di ricordare, rivivere, narrare quella esperienza, per alcuni aspetti unica e irripetibile, e alle sensazioni vissute, alle fantasie evocate dalle immagini di quella terra; ma anche per accomunare a quel felice itinerario una sottile storia d’amore.
La tenue vicenda di Elena e Saverio, che si ritrovano proprio là, dopo anni di lontananza, è il filo conduttore della storia narrata in questo libro. Ma protagonista incontrastata è proprio quella Terra dal triplice volto:
Terra d’Israele, sulle carte politiche e nel cuore, nella fede, nella storia di una razza e di una cultura;
Terra di Palestina, nei millenari ricordi storici e religiosi e nelle speranze di un altro popolo che l’abita e di una parte di esso che dovette abbandonarla;
Terra Santa, nella fede di chi in essa vede e sente il dipanarsi del disegno cristiano di salvezza.
Quella terra, dunque, non può non essere che la vera protagonista, qualunque sia la storia umana a cui faccia da sfondo.
Persino l’insolita, fascinosa trovata degli “interludi”, magiche evocazioni di fatti e vicende, suscitate dai luoghi come fantasmi sorti da fuochi nascosti tra ceneri e rovine, finisce per sottolinearne la complessa fisionomia, pur partecipando alla vita stessa del romanzo. In esso, le tre culture che attraversano e animano quella terra, trovano ognuna un “paladino” che dimostra di essere — al di là delle singole convinzioni ideologiche — un “credente” di fatto e di diritto; ma il convivere e lo scontrarsi di fedi e di anime, se da un lato costituisce la ricchezza e la pienezza di quel paese, è ben lungi, sia nel libro come nella realtà vera, dal trovare un momento di armonia, in cui possa germogliare il seme di un superiore credo universale, che raccolga in sé il meglio di quanto le singole idee possano dare.
Resta comunque il fatto che le domande poste da quella terra a chiunque l’accosti, non lasciano indifferenti: cosí è per i personaggi della “storia di un viaggio” i quali, attraverso una sofferta parabola esistenziale, manterranno le loro individuali scelte di fede che, in fondo, sono scelte di libertà interiore.

  • Autore
  • Nicola Napolitano
  • Titolo
  • Centopagine
  • Collana
  • La stanza del poeta
  • Pagine
  • 136
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 8,00


SE AVESSI un figlio, mi piacerebbe che un nonno gli raccontasse una storia come quella che in queste pagine rivive e fa rivivere il mondo che una volta... perché c’era, una volta, un mondo così, un mondo anche duro ma buono, difficile e generoso, un mondo fatto di uomini e di cose, di cose semplici, e di animali domestici. Le mucche non impazzivano, allora...
Non ho conosciuto il nonno di cui porto il nome e del quale in questa narrazione emerge a tratti la figura che pur conoscevo, come in gran parte sapevo degli episodi e dei personaggi dei quali si racconta... eppure, leggendo d’un fiato le vicende a volte buffe, a volte pensose, non di rado venate di malinconia ma quasi sempre accarezzate con l’affettuosa dolcezza che la distanza nel tempo consente anche a chi le ricorda con una punta di dolore, leggendo tutte insieme queste pagine, ho scoperto quanta fatica c’è dietro la mia nascita!
Nicola Napolitano continua a scrivere nella sua nota biobibliografica che è “nato da una famiglia di agricoltori. Ha lavorato la terra fino a 22 anni”, quella terra alla quale è tornato, con l’entusiasmo dei vent’anni, appena ha smesso di lavorare nella scuola, e finché le forze glielo hanno consentito. E poi si è dedicato alla ricostruzione letteraria del suo passato, prima attraverso l’amorosa raccolta dei proverbi paesani, infine con queste memorie del tempo che fu – per farne un “presente” ancora degno di essere ascoltato, come se fosse una storia di quelle che sua nonna gli raccontava da bambino, frutto di fantasia e di esperienza, come quelle che sua madre, mia nonna, raccontava a me...
Ecco perché vorrei che a mio figlio fosse raccontata la storia che si srotola in queste pagine. Non riesco a concepire come si possa, pur nel mondo tecno-informatico che ci avvolge e ci protegge, ci seduce e ci sconvolge, dimenticare o fingere di dimenticare che veniamo da un’altra civiltà, genuina e sofferta, costruita sulla fatica di uomini e donne che ha segnato secoli di lenta evoluzione, e senza di quella, è addirittura ovvio ricordarlo, non ci sarebbe questa nostra civiltà. Il corsivo allude peraltro all’insistente dubbio che mi turba: siamo ancora, consapevolmente, cives di qualcosa? Ci sentiamo in qualche misura, in quale misura, appartenenti ad una società? Un tempo, anche i contadini, ignoranti per lo più, superstiziosi, avevano tuttavia una identità di appartenenza... sapevano di essere tali, masticavano amaro, certo, si nutrivano spesso di pane e lavoro e a volte di solo lavoro o nemmeno di quello, della speranza di averlo presto, ma sapevano di essere quel che erano e rispettavano i propri simili e coloro che, di-versi, li rispettavano.
Ho voluto riproporre queste pagine (la parte iniziale della premessa a Casale. Memorie del tempo che fu) perché adesso “un figlio” c’è, ed è una figlia che legge moltissimo e sa di aver avuto un nonno scrittore... L’augurio di allora, quindi, può dirsi esaudito? Veglierò su mia figlia che abbia sempre sul suo tavolo i libri giusti, che faccia le letture adatte alla sua età, alla sua personalità, ai suoi interessi, e non dimentichi che – se è nata com’è, con la voglia di leggere (e scrivere) che ha – è anche per merito di un nonno come suo nonno Nicola, del quale porta anche il nome.
Comunque, ho voluto ancora proporre, di mio padre, una scelta di pagine esemplari, in cerca ancora di lettori disposti con lui a viaggiare nei sentimenti, a farsi catturare dalla bellezza della vita, dalla bontà dell’uomo. Se avrò fortuna, l’avrà avuta anche lui, in questo 2014 che ha segnato i cento anni dalla sua nascita. Perciò sono “centopagine”, perciò spero di avergli dato un’altra occasione di essere vivo con i lettori che vorranno avvicinarsi a lui con l’animo buono che egli aveva quando si avvicinava ai lettori – prima di scoprire, purtroppo, a volte, di non aver saputo cogliere la loro attenzione, la loro disponibilità, la loro sensibilità. È sempre il cruccio dei buoni: accorgersi che la propria bontà non è compresa – fraintesa o disprezzata, inutile. Allora può anche darsi che il buono diventi cattivo, scopra in sé la durezza che gli consentirebbe di sopraffare il prossimo in una lotta per sopravvivere, alla quale comunque non si sente portato – e la cattiveria, appena emersa, torna nel fondo dell’animo, che però ancor più se ne cruccia, e si chiude a riccio, pauroso di nuovi incontri...
Questo volumetto esce come primo numero di una nuova serie della vecchia collana “la stanza del poeta”, nella quale ho pubblicato 111 piccoli libri: la presenza di mio padre è un augurio per me, a continuare a crederci, come lo è la collaborazione rinnovata con l’amico fraterno Amerigo Iannacone, editore e poeta. Nella sua collana “i colibrì” era uscito qualche mese fa Scuola di poesia, testimonianza a più voci sulla natura poetica di Nicola Napolitano: queste Centopagine vogliono essere di quel libro un complemento, per unire alle voci amiche la voce dell’amico, scomparso ma sempre vivo se in quelle appunto la sua può trovare un’eco.


Un grazie particolare a Maria Rita Manzo, Assessore alla Cultura, per aver sollecitato e patrocinato la commemorazione che si è tenuta il 7 novembre al Comune di Formia, nella Sala Sicurezza (Antonio Sicurezza fu grande amico, oltre che conterraneo, di mio padre). Nell’occasione, abbiamo anche inaugurato nella Biblioteca Comunale di Formia un “fondo poesia” intitolato a Nicola Napolitano – la stanza del poeta, che raccoglie oltre cinquecento volumi di poesia di autori del Novecento


Un grazie affettuoso a Maria Di Maria (mio padre fu il suo primo Preside), mamma del mio indimenticato alunno Alfredo Lanzafame, prematuramente scomparso: ricordando suo figlio, Maria ha voluto ricordare insieme, e insieme a me, Nicola Napolitano.

Giuseppe Napolitano

  • Autore
  • AA.VV.
  • Titolo
  • Poesia da tutti i cieli 2014
  • Collana
  • Premio Poesia da tutti i cieli
  • Pagine
  • 184
  • Anno
  • 2014
  • Prezzo
  • € 16,00

Più o meno di questo tipo è stata la prima reazione di quanti hanno sentito l’idea per la prima volta. Ma noi abbiamo tanti problemi, non riusciamo nemmeno ad imparare l’inglese. Mio figlio lo studia a scuola da anni ed anni, gli ho dovuto pagare vari viaggi a Londra eppure ancora non ci siamo. E poi noi dobbiamo competere nel mondo e lavorare alla borsa di New York.
Tutto questo ed altro ancora hanno detto tanti onesti italiani, che seguono la corrente. E la corrente in questo momento dice: adeguati ai forti. I forti sono gli americani e noi cerchiamo di essere come loro e di parlare la loro lingua. Basta a questi sogni egalitari, come l’esperanto. È una cosa da socialisti e di quelli utopistici.
Ma la speranza in un mondo migliore è difficile da uccidere. In ogni generazione rinasce l’aspirazione a poter vivere in pace ed in giustizia, anche se quelli che fanno la guerra e le ingiustizie, i leoni, sono sempre piú degli agnelli.
Perciò i parlanti di esperanto sono sopravvissuti ad un secolo, il secolo passato, pieno di sangue e di fuoco e nonostante le persecuzioni di tutti i governi nazionalisti, di destra e di sinistra, sono ancora qua ed ancora continuano a proporre la loro soluzione a tutti quelli che dicono: anche nel campo delle lingue e delle culture vale la legge della giungla, il grande mangia il piccolo, l’inglese mangia l’italiano, e già lo sta facendo, tra gli applausi di tutti compresi i mangiati, sostituendosi all’italiano nei corsi di laurea di parecchie università.
Poi ci sono un’altra razza di uomini, i poeti. Anch’essi sono un po’ particolari. Sono persone che amano cogliere il nocciolo delle cose e raccontarle in poche essenziali parole. Anch’essi, nella mia visione, sono degli agnelli, dei giusti.
Alla fine, quindi, malgrado le perplessità iniziali il concorso di poesie in italiano ed in esperanto lanciato da Giuseppe Campolo, una vera forza della natura di iniziative culturali, ha ricevuto un’atten–zione notevolissima, con centinaia di poesie pervenute dall’Italia e dall’estero. Un vero problema per una giuria di una decina di persone, che si è dovuta leggere tutto ed ha dovuto fare una graduatoria, di cui avete il risultato in questo volume, che presenta le migliori cinquanta poesie in entrambe le lingue.
Non avete, perciò, bisogno di conoscere l’esperanto per leggere questo libro, però forse anche voi, che avete in mano questo libro, appartenete alla schiera di coloro che sperano in un futuro piú equo e forse avrete voglia di vedere un momento come è fatto l’esperanto.
Non avrete gli stessi problemi che avete avuto con altre lingue, perché l’esperanto è semplice (solo un cretino metterebbe eccezioni in una lingua fatta per essere semplice), si legge come si scrive (ancora di piú dell’italiano) e non ha problemi di verbi complicati come “se fossero andati, avrebbero visto”, ecc.
Impararlo è facile e non costa. Se siete giovani e mangiate pane e computer, basta cercare in rete la parola esperanto, ed arriverete a dei corsi in rete gratuiti e divertenti.
Se volete un libro vero di carta, una grammatica di esperanto, chiedetela alla Federazione Esperantista Italiana (Via Villoresi, 38, 20143 Milano, feilibri@esperanto.it).
Ma prima finite di leggere questo libro e di riflettere sul significato di una lingua costruita come l’esperanto. È una lingua di tutti e di nessuno. È una lingua che mette tutti su uno stesso piano di parità. È una lingua sostanzialmente contraria al sistema delle lingue imperiali, in cui i parlanti della lingua guida parlano e gli altri ascoltano.

Renato Corsetti